Andrea Rossi, Style, Corriere della Sera 10/2016, 30 settembre 2016
PIOVONO PAROLE
Meglio mettere subito le carte in tavola, on the table: se pensate che la lingua italiana sia materia fissa e inerte, se pensate che gli italiani debbano parlare ancora come il Sommo Poeta, questo articolo non fa per voi, non andate avanti o andate al mare, come consigliò tempo fa un altro illustre fiorentino, tal Matteo Renzi. Se invece pensate che tutto cambi nel corso dei secoli, che nulla sia immutabile e che come si muovono le persone e le merci, si muovono pure le parole (sfidando spesso le leggi della sintassi e del ridicolo), allora questo articolo fa per voi. Almeno spero, I hope. La lingua italiana cambia, come tutte. E cambia alla velocità della fibra ottica. Arrivano nuovi termini e ne spariscono altri, si allarga la forbice tra lingua parlata e lingua scritta, imperversano le abbreviazioni da sms (cmq, per dirne una) e muore, nell’indifferenza pressoché generale, il congiuntivo.
L’invasione percepita degli anglicismi, dico percepita perché il professor Tullio De Mauro, insigne linguista, ci colloca dietro Germania e Francia, è soffocante: slot, governance, business plan, must, FAQ, spending rewiew, wireless... Qualche mese fa un importante quotidiano nazionale, che non è quello per cui scrivo (altrimenti sarei uno stupido che in inglese si dice stupid), strillò in prima pagina: «Banche, il bail in adesso divide Bruxelles e la Bce». Il bail in?!? Confesso la mia ignoranza: non sapevo che fosse, tuttalpiù potevo gingillarmi, cosa che puntualmente ho fatto, con l’assonanza che il termine suggerisce con il dialetto genovese. Il bail in è, in realtà, il principio per cui le perdite di una banca in crisi vanno spalmate su obbligazionisti e alcuni correntisti prima di ricadere sui contribuenti. Mettere tutto ciò in un titolo non è facile, e qui viene in soccorso a sirene spiegate la lingua inglese, lingua della velocità (parola chiave) e degli affari, ormai diffusa in tutto il mondo. Con qualche eccezione: l’Italia. Più che dagli anglicismi, De Mauro è infatti preoccupato dalla scarsa conoscenza delle lingue straniere e dall’esito di alcune indagini secondo cui oltre il 90 per cento dei nostri connazionali sa ormai usare l’italiano parlato, ma due terzi hanno difficoltà a leggere e scrivere, e metà di questi corre il rischio di scivolare nell’analfabetismo.
A porre un argine all’invasione straniera ci provò il fascismo per legge. Era l’autarchia linguistica: il regime riteneva «opportuno combattere l’incosciente servilismo che si compiace di parole straniere anche quando sono facilmente e perfettamente sostituibili con chiari vocaboli italiani già in uso». Due anni dopo, nel 1942, si dovette mitigare la portata della legge escludendo le parole di origine latina o greca antica (un’autorete, plateale, viste le origini della nostra lingua). La Regia Accademia d’Italia stilò l’elenco delle 500 parole «abrogate». A ciascuna di esse associò la corrispondente parola «italiana consigliata», con alcuni effetti comici. Brioche diventò brioscia, champagne sciampagna, film pellicola, hotel albergo, toast pantosto, garage rimessa, marron glacé marrone candito... Nel mondo dello sport vennero abolite, fra le altre: autogoal (autorete), dribbling (scavalco), sprint (scatto) e trainer (allenatore). L’ossessione per la purezza, si sa, è una brutta bestia: sparirono anche wafer (vafer), walzer (valzer) e Walter (Valter) perché la «w» odorava troppo di perfida Albione. La legge era piuttosto severa: in caso d’infrazione prevedeva l’arresto fino a sei mesi o un’ammenda fino a cinque mila lire.
Lecito domandarsi come avrebbe reagito il fascismo di fronte alle abbreviazioni da sms: quale sarebbe stata la pena da espiare in caso di tvb (ti voglio bene) o di xke (perché) o di nn (non)? Tony McEnery, professore di Linguistica alla Lancaster University in Inghilterra, una delle dieci più famose del Paese, ranked in the UK top ten, sostiene che le parole usate dai giovani inglesi per comunicare con i coetanei sarebbero una ventina. In Italia le cose non vanno meglio. Accanto alle abbreviazioni fioriscono nuovi termini comprensibili soltanto a un gruppo ristretto di persone e può capitare che accollarsi non voglia più dire accollarsi, ma mettersi in mezzo o dare fastidio, e che pisciare non indichi più un rispettabile bisogno fisiologico, ma lasciar perdere.
Da subito l’obiettivo (the mission) di chi comunicava con il computer era scrivere il più possibile nel minor spazio e tempo (ecco che torna il tema della velocità). Due le ragioni: i costi (più stavi in linea, più pagavi) e lo scarso spazio per comporre i messaggi. Per superare questi ostacoli è stato elaborato un nuovo idioma, fatto di acronimi, contrazioni e deformazioni. Agli inizi era ancora possibile rintracciare un filo logico, ma il successo di internet e smartphone ha portato alla ribalta parole sempre più eccentriche. Tanto che ormai si è giunti a scrivere frasi comprensibili agli iniziati, ma incomprensibili a tutti gli altri. Una lingua di pochi, e per pochi.
Non so se i giovani ne siano consapevoli. Sosteneva Karl Marx che gli esseri umani fanno la propria storia, ma in circostanze che non sono loro a scegliere. In ogni caso, numerose sono le contraddizioni. Una su tutte: sette miliardi di persone tentano disperatamente, e con scarsissimi risultati, di parlarsi, di capirsi, di mettersi d’accordo e, per fare ciò, hanno scelto una lingua, l’inglese (of course). I giovani, invece, corrono nella direzione opposta e si esprimono attraverso il linguaggio della tribù. Sms, tweet, post ed email ignorano gli aspetti linguistici, come la forma e la sintassi, e privilegiano quelli temporali (velocità), spaziali (sintesi), economici (costi) e soggettivi (scrivo anche se nessuno mi legge, e dunque sono). Il linguaggio dei giovani è dei giovani e dei giovani soltanto, ed è personale, gergale, identitario e frammentato perché grandi sono le differenze tra un ragazzo di 16 anni e uno di 20, per non parlare di un 30enne. I giovani non sono più una categoria coerente, e nel giro di pochi anni molti vocaboli finiscono nel dimenticatoio, mentre altri, not so many, sopravvivono a più generazioni.
Chi non è sopravvissuto (pace all’anima sua) è il congiuntivo, e i killer non vanno cercati tra gli under 30. Anzi, basta fare zapping in tivù per avere il quadro della situazione. Uno strazio. Una volta, neppure tanto tempo fa, sbagliare il congiuntivo era una gaffe imperdonabile, peggio che sfoggiare nel salotto buono un paio di calzini bianchi al polpaccio o infilarsi lo stuzzichino in bocca al pranzo di lavoro onde eliminare il residuo di pollo. Oggi non se ne accorge nessuno, accademici della Crusca esclusi: il congiuntivo è morto, stroncato dai mass media (a proposito: non si pronuncia midia, ma media perché termine latino). Ma per molti il responsabile «ultimo» della prematura dipartita è un altro: l’eccesso di sicurezza. Avevate scommesso sull’accidia? Errore. Oggi nessuno ha più dubbi, siamo tutti più arroganti, presuntuosi. «Speravo che portavi il vino» non è solo una frase sbagliata e brutta, ma esprime anche, in sottotraccia, una certa, insopportabile, insolenza. Volete mettere con «speravo che portassi il vino»? Qui il rammarico è speculativo, garbato perché nella vita capita di dimenticarsi il vino, non è un dramma. E invece no, nell’italiano postmoderno prevale il tono assertivo e il fare da bullo.
E se il congiuntivo è morto, il condizionale sta per morire, e pure l’indicativo è messo male. La lingua parlata si restringe a presente, imperfetto, passato prossimo e futuro semplice. Stop. La lingua cambia, s’è detto, ma il modo in cui cambia la dice lunga sullo stato dell’arte. L’italiano ha un’ampia gamma di possibilità che corrisponde a una maniera complessa di interpretare il tempo. Oggi, invece, il nostro sguardo ha una portata breve e sfocata. Fatti di tre anni fa vengono narrati come avvenuti tre minuti fa, il condizionale è sostituito dall’indicativo, il futuro anteriore dal presente, quasi avessimo perso contatto con la realtà.
Che fare? Migliorare la conoscenza dell’italiano e dell’inglese, naturalmente. Ma per farlo occorrono soldi (che non ci sono), volontà politica (che non c’è), alti livelli d’istruzione mediosuperiore (che non abbiamo), biblioteche pubbliche (che scarseggiano). Oppure rassegniamoci al declino (siamo in pochi, solo 60 milioni di persone parlano italiano) e consoliamoci con le parole di un altro poeta, Lucio Battisti: «Come può uno scoglio arginare il mare?».