Omero Ciai, D, la Repubblica 24/9/2016, 24 settembre 2016
2016 FUGA DA CARACAS
C’è una famosa mossa degli scacchi che descrive con grande semplicità la situazione del Venezuela. È la mossa dell’arrocco: un presidente, Nicolás Maduro, sfiduciato dagli elettori e considerato responsabile, per incapacità, di una gravissima crisi economica e umanitaria, che si barrica a Palazzo Miraflores, molto barocca sede della presidenza a Caracas, forte del fatto che il suo mandato – è stato eletto nel 2013 – scadrà soltanto alla fine del 2018.
Se il Venezuela fosse una Repubblica parlamentare, come la nostra. Maduro avrebbe dovuto lasciare il potere già dieci mesi fa, nel dicembre 2013, quando alle elezioni legislative il fronte delle opposizioni (Mud) aveva travolto il Partito socialista unificato (Psuv) al governo, con il 56,2% dei voti contro il 40,9%. 112 seggi contro 55. Un cambio d’epoca: la prima elezione persa in 17 anni dal partito fondato da Hugo Chávez e alla guida del Paese dalla fine del 1998. Ma riconoscere la sconfitta e lasciare il palazzo non era tra le ipotesi previste dagli eredi del caudillo che ebbe come ambizione e obiettivo traghettare il Venezuela in un sistema politico socialista. La rivoluzione “bolivariana” per il socialismo del XXI secolo, profetizzava Chávez.
Una soluzione costituzionale ci sarebbe. Si chiama “referendum revocatorio”, e prevede, se il presidente perde, la convocazione di nuove elezioni presidenziali. Con un dettaglio, però. Se questo “revocatorio” si svolge negli ultimi due anni del mandato (cioè dopo il gennaio 2017), non si va a nuove elezioni e l’incarico passa al vicepresidente in funzione. Così Maduro e il suo partito sono entrati in guerra contro il parlamento eletto per impedire che il referendum si tenga entro l’anno. Non solo: sono entrati in guerra anche per abbatterlo, il parlamento. Il Tribunale supremo, controllato a maggioranza dai chavisti, cancella e annulla infatti tutte le leggi votate dalla Camera, lo Stato non paga gli stipendi ai deputati e non trasferisce i fondi per il funzionamento dell’assemblea. È il vecchio che stritola il nuovo, o almeno lotta per prosciugarlo.
Nella metafora dell’arrocco, la torre, quella che negli scacchi si posiziona a difendere il re, in questo caso è l’esercito. Le Forze armate in Venezuela hanno un ruolo molto attivo. Quasi la metà dei ministri del governo, una dozzina, sono militari. 13 governatori su 20 sono invece militari in pensione. Su un esercito di circa 100mila uomini ci sono ben 1.200 generali e Maduro, per garantirsene l’appoggio, nomina e promuove a raffica. I militari godono di moltissimi privilegi, distribuiti per anni da Chávez, che dall’esercito proveniva: da stipendi molto più alti di quelli dei funzionari civili a modalità particolari per l’accesso ai beni, a cominciare dai prodotti alimentari.
Dietro Maduro, l’uomo più potente del Venezuela, c’è il ministro della Difesa, il generale Vladimir Padrino. Ma ci sono militari ovunque, perfino come direttori degli ospedali civili. Nell’idea di Chávez, le Forze armate erano il motore principale della trasformazione socialista del Paese. Più che con l’ideologia, ne ottenne la fedeltà con le prebende, come succede ancora oggi.
Il contesto di questa crisi politica è l’emergenza economica. Un declino che inizia molto prima della morte di Chávez, nella primavera del 2013, e che discende da tutte le sue scelte di politica economica. Nella pratica, l’economia venezuelana è semplicissima. Chi controlla l’unica fonte di bilancio dello Stato, il petrolio, controlla tutto in un Paese dove la produzione nazionale è scarsissima e la maggior parte dei beni, compresi quelli di prima necessità, sono importati grazie ai guadagni della vendita del greggio. Ma il petrolio è una brutta bestia, visto che il suo valore sul mercato cambia. E dall’epoca d’oro dei 100 dollari al barile, iniziata più o meno con la conquista del potere da parte di Chávez nel 1998, si è passati all’economia di guerra dei 30/40 dollari al barile. Con il greggio per molti anni ai suoi minimi storici è diventato impossibile rifornire il Paese dei prodotti necessari anche perché Chávez, negli anni del grande sperpero, ha fatto un sacco di debiti. Il più sostanzioso, di almeno 50 miliardi di dollari (ma la cifra reale è segreta) è con la Cina. Per pagarlo, ogni giorno il Venezuela deve consegnare a Pechino quasi la metà di tutto il greggio che estrae, più di 600mila barili.
Ufficialmente il Venezuela è già uno Stato fallito, costretto a vendere gran parte delle sue riserve in oro per non dichiarare il default. La carestia di questi mesi nasce da qui.
Il primo prodotto a scomparire dai negozi è stata la farina di mais per le arepas, il pane quotidiano delle famiglie venezuelane. Il secondo la carta igienica. Poi, a poco a poco, è sparito quasi tutto: dalle lamette da barba al dentifricio. La scarsità dei fondi per l’importazione dei prodotti li fa apparire e scomparire a ondate. E costringe migliaia di persone a investire la maggior parte del proprio tempo nella loro ricerca. La giornata di una casalinga si è trasformata in un incubo, che si conclude, spesso, col tornare a casa con la borsa della spesa vuota, o quasi.
Come durante o dopo una guerra, ha preso piede la “borsa nera”, prodotti venduti a prezzi dieci volte superiori al loro costo, che ha fatto esplodere l’inflazione fino al 700 per cento. Nelle scuole e nei luoghi di lavoro hanno chiuso le mense, ma le situazioni più drammatiche si vedono negli ospedali. Mancano tutti i farmaci, compresi quelli salvavita come le pillole per la pressione. L’aspetto più preoccupante è che il governo di Maduro si rifiuta di riconoscere un’emergenza legata non solo alla difficoltà di reperire alimenti ma ormai diventata crisi umanitaria. Accettare il caos e chiedere aiuto alle organizzazioni internazionali è l’ultima cosa che il presidente è disposto a fare. Secondo i risultati di un recente sondaggio, il 57% dei venezuelani vede ormai come unica soluzione quella di lasciare il Paese. E molti, soprattutto tra i più giovani, lo hanno già fatto. Anche se diventa ogni giorno più difficile, perché un’altra conseguenza della crisi è la cancellazione dei collegamenti aerei con Caracas da parte di numerose compagnie internazionali, Alitalia compresa.
Maduro, l’esercito e il partito al potere sono così sempre più isolati e arroccati, nella speranza, abbastanza vana, che il prezzo del petrolio ricominci a salire. Ma le prospettive per i prossimi mesi sono tutte negative. L’agonia venezuelana è destinata a peggiorare e i rischi per la stabilità di tutta la regione sono moltissimi. A cominciare dalla possibilità di una crisi migratoria che può colpire la vicina Colombia. Per quello che riguarda Cuba, poi, gli effetti del caos venezuelano si sentono già. Per anni, a partire dall’inizio del secolo, l’isola dei fratelli Castro ha goduto di un trattamento speciale, migliaia di barili di greggio a prezzi scontatissimi. Ma oggi non è più così, e l’Avana teme una crisi energetica simile a quella dell’inizio degli anni 90, quando la fine degli aiuti dall’Urss lasciò l’isola a secco. E di questi giorni la notizia che Raul Castro ha chiesto a Putin di riattivare l’export di petrolio russo, e che ci sono stati contatti anche con l’Algeria per coprire il fabbisogno non più garantito dal crollo venezuelano.