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 2016  settembre 24 Sabato calendario

In queste ore a Palazzo Chigi comanda una tiranna discreta ma implacabile: la paura. Si prova ad imbracarla, a contenerla, ma rimane lì, e detta a tutti il tempo del ballo

In queste ore a Palazzo Chigi comanda una tiranna discreta ma implacabile: la paura. Si prova ad imbracarla, a contenerla, ma rimane lì, e detta a tutti il tempo del ballo. Al netto dei proclami, infatti, tutti i sondaggi – l’ultimo arrivato è quello di Index – dicono che tra chi dichiara di avere una opinione (e ovviamente una intenzione del voto) la progressione del Sì è in picchiata e quella del No è in crescita. Un esempio? Index, aprile: Sì 61,6%, No 38,4%. Index settembre: Sì 49%, No 51%: se fosse il fatturato di una società, l’amministratore delegato sarebbe già con lo scatolone in mano. I No sono oggi maggioranza. Il distacco è stimato, a seconda degli istituti, fra uno e tre punti in più a favore dei critici della riforma. Ma chi ha avuto la possibilità di addentrarsi dentro i complessi meccanismi di calcolo e di ponderazione, sa che dai questionari il distacco che emerge è molto più alto. Ciò che attutisce – solo in parte – la sconfitta del premier e attenua il gap, racchiuso in una forbice di 10 punti (45%-55%), è solo un meccanismo di correzione che per prudenza, viene applicato in queste ore dalla maggioranza degli istituti. Ovvero: il bagno di sangue che il fronte del Sì incassa al Sud, e il sostanziale pareggio che ottiene nelle regioni più amiche (del Nord, e meno popolose), viene equilibrato sulla base di un sofisticato ragionamento. Questo: alla fine gli oppositori, in prevalenza centromeridionali (anche quelli più determinati) si asterranno proporzionalmente in misura più grande rispetto agli elettori del Nord. È una possibile ipotesi, ma appunto una ipotesi, visto che alle regionali dell’Emilia Romagna – per dire un dato – ha votato il 67%. Animato da questa speranza, però, Renzi ha fatto di tutto per far slittare la data del voto, avvicinarla al week end para-feriale dell’Immacolata, si è di fatto autoimbavagliato, dopo i proclami guerreschi, ha accettato di inscenare la pantomima tattica sulla modifica dell’Italicum con la frase cult, terribilmente rivelatrice: «Sono sincero» (un politico non dovrebbe dirlo mai: presuppone la consapevolezza del contrario). Tutto questo, la paura, l’adrenalina, le contromosse, la mossa disperata di mettersi a duellare in tv, è il disastro prodotto dalla scelta originaria rappresentata dal primo scellerato chiodo di propaganda di Renzi: «Se non vince il Sì lascio la politica». L’arrivo del super consulente americano, il celebrato guru Jimmy Messina (come tutti gli americani scarso conoscitore degli elettori italiani), ha prodotto il secondo consiglio da suicidio: «anticipare» la campagna del referendum e sovrapporla a quella delle regionali. Risultato: le amministrative sono state perse lo stesso, e la campagna d’attacco (ricordate? «I partigiani votano come Casa-pound») è stata bruciata e accantonata con imbarazzo. Certo, gli uomini dello staff avevano anticipato al guru che quello era l’asso nella manica, e così Messina aveva detto: «Calatelo». L’esito di questa scelta è il risultato che tutti oggi conoscono (ma che molti media occultano): il Pd di Renzi ha preso in quel voto meno di quello di Bersani, molto sotto la soglia critica del 25% nel riepilogo dei capoluoghi di provincia. Il 75% di chi ha votato è contro il governo, Renzi rappresenta oggi una sparuta minoranza politica. Fra tutti i leader politici di prima fila, sembra che a sinistra solo Pierluigi Bersani si sia accorto (la vecchia scuola dei numeri) che nei Comuni – malgrado l’assenza di un leader e di una coalizione – la prima forza del paese è rappresentata dalla somma dei partiti di centrodestra. La correzione del Renzi-uno, sincero spavaldo e simpaticamente gradasso, è il Renzi due, enrico-lettizato, prudente, reticente, e ovviamente insincero. Quello che – quasi disperato – con un sorriso tirato, si trova incastrato dalla domanda diretta della Gruber: «Lei non mi ha detto se se ne andrà nel caso che vinca il No...». E lui: «Le ho già detto che non le parlo più di questioni che mi riguardano...». La Gruber, abile, ribattendo sul colpo: «Allora non le parliamo più...». E lui, non potendo sottrarsi: «...Lei sa perfettamente, e glielo dico con il cuore in mano, quanto a me personalmente costa non mettermi qui a dire cosa vorrei fare». La fortuna di Renzi è stata che il tempo fosse finito. Perché è davvero curioso che la maggior parte dei giornalisti italiani – con la santa eccezione di Lilli – considerino verosimile che il premier dica che non può rispondere a questa domanda. Come se prima, quando minacciava dimissioni, avesse mentito, o come se adesso – quando nicchia e allude – cercasse di non autosconfessarsi. Il problema, però è irrisolvibile. Gli echi della sfida con Marco Travaglio, da Lilli Gruber, hanno prodotto grandi sedute di rassicurazione del leader, e sontuosi cori degli staff di conforto: «Sei andato forte», «la battuta su Ralph era bellissima», «i social sono tornati ad amarti». Il problema è che già questo training è l’indice della crisi, così come il vero problema del faccia a faccia di Otto e mezzo: era Matteo Renzi, lo sfidante, ed era il direttore del Fatto Quotidiano, lo sfidato. Su tutte le argomentazioni chiave del dibattito, infatti, Renzi è stato costretto – sia detto senza enfasi – a mentire. I senatori non sono eletti direttamente dagli elettori? Renzi si affanna, suda, si indigna, e ripete: «Non è vero». Chiunque abbia un minimo di alfabetizzazione politica, ovviamente sa che nella nuova Costituzione è previsto proprio questo: «Elettività di secondo grado» (non è un caso che lo scontro più duro con la sinistra interna fosse su questo). «Il premier non ha più poteri», grida Matteo a Travaglio. Ma anche qui mente. Perché sa bene che li guadagna con la sterilizzazione del Parlamento e del presidente della Repubblica. Come se in un partita fosse espulso l’arbitro. Lo scenario più divertente, dunque, è la «Cameronizzazione». Renzi lo spavaldo ha scelto lui il terreno di confronto (la riforma), lui i tempi, la modalità, gli slogan. Renzi il timoroso si è arrampicato sugli specchi: meno antipatico agli elettori, forse. Ma terribilmente meno efficace, e quindi impaurito. Luca Telese