Notizie tratte da: Vivienne Westwood; Ian Kelly, Vivienne Westwood, Odoya, Bologna, 2015, pag. 414, euro 30, 28 settembre 2016
Tutto su Vivienne Westwood
Notizie tratte da: Vivienne Westwood; Ian Kelly, Vivienne Westwood, Odoya, Bologna, 2015, pag. 414, euro 30
«La prima cosa che c’è da sapere su di me», dice Vivienne Westwood, «è che sono nata durante la Seconda guerra mondiale. Razionamenti e tutto il resto. Ho mangiato la mia prima banana all’età di sette anni. E non mi piacque neanche».
Vivienne Westwood è instancabile, lavora come una stagista di cinquant’anni più giovane. Non possiede un cellulare e non ha un televisore.
Per gli stagisti stranieri, la «Coco Chanel dei nostri giorni», è semplicemente “Madame”.
La stilista settantacinquenne pedala ogni mattina fino al lavoro. «Pare che ogni londinese abbia un aneddoto da raccontare su di lei, perché quasi tutti, almeno una volta, hanno rischiato di investirla mentre passava in bicicletta».
Vivienne sembra si nutri solo di mele e tè. Tiene sempre una bottiglietta d’acqua calda accanto al letto, la sorseggia mentre al mattino, per un’ora o più, legge i suoi adorati libri. Lettrice accanita come suo nonno.
Il biglietto che sua madre Dora, inviò ai giornali per annunciare la nascita di Vivienne: «SWIRE. L’8 aprile 1945, alla Partington Maternity Home di Glossop, Dio ha benedetto Gordon e Dora con il dono prezioso di una figlia. Vivienne Isabel.
Prima nipote del signore e della signora E. Ball».
«Vivevo per saltare. Saltare è fantastico. Lo facevo con due corde. Era la cosa più bella». [Vivienne Westwood]
«La nostra Vivienne», diceva la madre, «sempre in un altro mondo».
La madre diede a Vivienne 5 scellini, l’equivalente di 5 paghette, per distruggere la tessera della biblioteca. Leggeva troppo. Vivienne, che all’epoca aveva otto o nove anni, accettò. Ma continuò a prendere in prestito libri. Usava le tessere delle amiche.
«Qual è il migliore accessorio? Un libro». [Vivienne Westwood]
«Odiavo far ridere la gente», racconta Vivienne, «o il fatto che gli altri mi considerassero sciocca o infantile. Perciò tendevo a non sorridere davanti all’obiettivo. O quantomeno ci provavo. Ero determinata a farmi prendere sul serio!».
La madre alle infermiere poco prima di morire: «Lo sapete chi è questa signorina? Questa signorina è Vivienne Westwood, mia figlia: è una stilista, sapete».
Da piccola il desiderio più grande di Vivienne era possedere «una piuma di pavone». Invece, la cosa più preziosa che possedeva era una scatolina di fiammiferi con dentro dei frammenti di specchio.
Le decorazioni natalizie a casa Swire erano i «tappi cromati dei contenitori di sale e pepe».
A tre anni, quando nacque la sorellina, disse: «Io la uccido e la butto nella spazzatura».
Le donne britanniche combatterono con i reggicalze riciclati, l’Ordine (di controllo d’uso) degli elastici del 1943 proibiva l’uso degli elastici in tutti gli indumenti, eccezion fatta per corsetti e mutandine. «Quando i vostri reggicalze cedono», consigliava Whitehall, «tagliate via la parte di elastico malandata e sostituitela con un pezzo di spago robusto». Poi ci fu un appello personale di Nancy Astor e il Ministero della Guerra lo abrogò.
Quella volta che Vivienne portò a scuola i décolleté comprati a Manchester e il professore di storia le disse: «Cara, cara Vivienne Swire, se Dio avesse voluto che camminassimo sugli spilli, ce ne avrebbe provvisti un paio per natura».
«Le donne dovrebbero stare su dei piedistalli. Come pezzi d’arte. A volte. O apparire come se fossero appena uscite da un quadro». [Vivienne Westwood]
Le modelle di Vivienne sono costrette su tacchi e zeppe di 15 centimetri. Rovinosa la caduta in passerella di Naomi Campbell nel 1993. Quell’incidente trasformò Vivienne Westwood in una vera e propria firma dell’alta moda.
A Marc Jacobs, dopo aver chiesto una donazione per Cool Earth, scrisse: «Sarebbe bello vedersi durante il periodo di Natale, ma il 13 devo operarmi al ginocchio: sono caduta sulle scale mobili della metropolitana, perché indossavo delle zeppe allucinanti! Oh, Marc! Che vita!».
Durante il periodo di prova per diventare insegnante di Arte del suo abbigliamento dicevano: «“Signorina Swire, le si vede la sottoveste”, “Signorina Swire, la sua gonna non è un po’ troppo corta?”».
Nel 1948 il 60 per cento dei britannici ammetteva di voler emigrare.
«La BBC non trasmise musica rock’n’roll fino agli anni Sessanta. Dovevi sintonizzarti sull’American Forces Network, che negli anni del Piano Marshall trasmetteva in tutta Europa, o su Radio Luxembourg».
«Fai caso a cosa indossavano persone come Jack Kerouac», spiega Vivienne, «dopo aver lasciato i marine o l’esercito ed essersi messi on the road. Maglietta bianca, jeans e giubbotto di pelle. Quando Hollywood iniziò a cercare un look da ribelle che sarebbe stato a pennello a star come James Dean e Marlon Brando, si concentrò su questo stile. E quando i ragazzini in Gran Bretagna lo videro sul grande schermo, vollero imitarlo».
Vivienne Swire diventa Vivienne Westwood il 21 luglio del 1962, alla chiesa di St John the Baptist di Greenhill. «Quel giorno ero in ritardo», ricorda Vivienne. «Mi ero cucita il vestito da sola. Non molto bene, a dire il vero: non era nemmeno finito. Era ancora tutto pieno di spilli, imbastito. Riuscii ad arrivare in chiesa giusto in tempo. Fiùùù. Per un pelo». Nel 1963 nasce Benjamin Arthur Westwood, detto Ben. E nel 1966 divorzia.
Provenivano dagli ambienti delle scuole d’arte, dal graphic design, e dal liceo classico, esattamente come Vivienne: Pete Townshend degli Who, Charlie Watts, Keith Richards, Peter Blake, Malcolm McLaren, John Lennon, Eric Clapton, Roy Wood dei Move, Ray Davies dei Kinks e Freddie Mercury dei Queen.
Malcolm, ricorda Gordon Swire, il fratello di Vivienne, «si spolverava del borotalco sul viso per accentuare ulteriormente il pallore, cosa che trovai esilarante. Non conoscevo nessun altro che facesse cose del genere». A Vivienne, invece, «sembrò che avesse un grosso buco rosso in mezzo al viso bianco: era quella l’impressione che dava la sua bocca».
Malcolm non finiva mai le storie della buonanotte. Lasciava sempre che fossero Ben e Joe a farlo. «Penso», dice Ben, «che fosse questa la sua genialità, il suo lascito: ha cominciato qualcosa, specialmente con mia madre, ma non l’ha mai portato a termine. È stata lei a farlo».
Vivienne e Malcolm non si sposarono mai, se lo avessero fatto Malcolm avrebbe perso la borsa di studio della St Martin’s, Croydon College of Art, Goldsmith, South East Essex, Chiswick Polytechnics e, infine, della Harrow Art School. Dai diciassette fino ai venticinque anni Malcolm campò alle spalle del sistema.
Quando Vivienne rimase incinta, la nonna di Malcolm si offrì di pagare l’aborto. All’epoca era illegale. Sei mesi dopo no. «Feci così», ricorda Vivienne, «andammo in South Molton Street, invece che in Harley Street [per abortire, ndr], e mi comprai un maglione di cashmere e uno scampolo di tessuto che ci si abbinava bene, fatto della stessa lana, con cui mi feci una gonna».
Il 30 novembre 1967 nasce Joe, all’anagrafe «Joseph Ferdinand, per via del quadro di Velázquez Ferdinando de Valdés y LLanos (Re di Portogallo), che si trova alla National Gallery, e […] Corré in onore della bisnonna che aveva prestato i soldi per l’aborto».
«La prima cosa che facemmo da genitori», ricorda Vivienne, «fu andare alla riunione del partito socialista operaio, per prendere parte a qualche intrigo trotzkista».
Malcolm non si fece mai chiamare papà, al figlio Joe diceva che “il papà di Joe” era un grande cactus. Anche quando nacque Cora, la nipotina, non volle mai essere chiamato nonno: «Mi ricordo che una volta lo chiamai nonno e lui se la prese. “non sono tuo nonno, sono Malcolm”».
Malcolm a Vivienne diceva «“se vuoi, puoi darmi lui” indicando Joe “ma lo sai che lo porterei subito all’orfanotrofio del dottor Barnardo”».
«Non temiamo le rovine. Siamo noi che abbiamo costruito questi palazzi. Possiamo costruirne di nuovi». [Buenaventura Durruti, anarchico spagnolo]
Malcolm, conosciuto come Red Malcolm, per i suoi capelli e la sua politica, una volta invase il reparto giocattoli di Harrods vestito da Babbo Natale. Un’altra volta chiese a Vivienne di andare al Madame Tussauds per dare fuoco alle cere dei Beatles. Odiava i Beatles.
L’alunno preferito di Vivienne Westwood, ai tempi dell’insegnamento, era Leroy, «che se ne stava sempre lì a cantilenare “stronza, stronza, stronza”».
Vivienne una volta portò una classe di bambini di otto anni a vedere La Corazzata Potëmkin, un classico del cinema russo muto. Un’altra volta in un parco a raccogliere funghi.
Vivienne era vegetariana, più per necessità che per scelta. Una volta mandò McLaren e i bambini in cerca di tarassaco, doveva farci il “caffè”. Lo aveva visto fare durante la guerra.
Il figlio Joe imparò a camminare appoggiandosi alla fiancata della roulotte, quella che per un periodo fu la casa di Vivienne.
Vivienne iniziò a sperimentare tagliandosi e ossigenandosi i capelli. «Sono sicuro che [David Bowie, ndr] l’abbia copiato da Vivienne», afferma lo style guru Simon Barker. «Vivienne portava quel taglio da almeno un anno prima che uscisse Ziggy Stardust… “Coup sauvage”, come finirono per chiamarlo i parrucchieri».
Un tizio una volta le urlò: «Anche lì sotto sei pettinata così?».
«La gente sembra ancora sorpresa del fatto che io sia partita dal punk per approdare all’alta moda, ma è tutto collegato», dice Vivienne. «Per questo motivo chiamammo una delle prime collezioni Punkature. Non si tratta di moda, vedi. Per me, si tratta di storia. Si tratta di idee».
«Non abbiamo fregato nessuno, né tantomeno sfruttato un fenomeno da strada: il punk non esisteva prima di noi». [Vivienne Westwood]
«Gli ingredienti del punk sono vari. L’idea era quella di indossare abiti che fossero un po’ troppo larghi o un po’ troppo stretti, come se in passato fossero stati di qualcun altro. Tutto questo faceva parte del look, insieme ai vestiti sdruciti».
«Se gli abiti non riescono a esprimere le nostre più grandi aspirazioni di esseri umani, allora non fanno il loro dovere». [Vivienne Westwood]
«Noi prendevamo le immagini di queste pin-up – hai presente le cartoline formato figurina che all’epoca inserivano nei pacchetti di sigarette? – e le infilavamo in taschini di plastica creati ad hoc sulle magliette», ricorda Vivienne. Joe, il figlio, all’epoca vestiva così.
Quando Vivienne vide le portoricane andare in giro in reggiseno, nacquero i primi reggiseni da strada.
«Malcolm McLaren è parte intrinseca della leggenda di Vivienne Westwood. La loro è stata una collaborazione che, come dicono alcuni, ha cambiato il mondo. Ha dato forma al punk: al suo look, alla sua band più famosa e alla sua filosofia, ammesso che ne avesse una. È questo rapporto che lega Vivienne ai Sex Pistols e all’estate del giubileo di God Save the Queen: il disco, l’immagine, la débâcle».
Il vecchio “Paradise Garage”, al 430 di King’s Road, fu rinnovato e riaperto da Vivienne e Malcolm come “Let It Rock”. «Il negozio doveva aprire alle dieci di sabato e alle dodici e trenta c’erano tutti questi Ted [teppisti, ndr] che dicevano: “Dài, Malc, facci entrare”».
Nel 1972 “Let It Rock” fu ribattezzato “Too Fast to Live Too Young to Die” o “TFTLTYTD”, in omaggio a James Dean. «I punk sembravano amare gli acronimi. Forse erano più facili da scrivere sulle magliette. O forse era per il brivido di spiegare, o non spiegare, a chi ne ignorava il significato». “TFTLTYTD” è anche scritto sulla bara di Malcolm, morto l’8 aprile del 2010.
Nel 1974 il “TFTLTYTD” cambia nome in “SEX”. Sulla facciata campeggiavano dalle gigantesche lettere di gomma rosa che scandivano a caratteri cubitali la parola, con sotto l’aforisma di Thomas Fuller: «L’astuzia può essere vestita, ma la verità ama andare in giro nuda». Diventerà “Seditionaries” nel 1977. «Creare abiti per eroi e incoraggiare la sedizione: istigare alla rivolta». E “Worlds End” nel 1979. «Sull’orologio esposto in esterno sopra alla vetrina compaiono tredici ore e le lancette, da allora, scorrono al contrario».
Malcolm lasciava in giro per il negozio materiale pornografico vintage e hardcore.
I commessi urlavano: «Are you cool?».
Le ferrovie britanniche, per tenere a bada gli altri passeggeri ed evitare disordini, una volta dovettero riservare una carrozza di prima classe a Jordan, la «dea delle commesse» di Vivienne.
«La polizia rimaneva in attesa a Sloan Square», ricorda Vivienne, «e radunava tutti i punk che uscivano dalla metropolitana. Una volta, ne fermarono circa duecento e li scortarono in processione per tutta King’s Road, fino al negozio. Fu una camminata di venti minuti. Allucinante».
Quella volta che «qualcuno chiese dove fossero le ragazze e io dovetti rispondere: “Questo non è un bordello, sa?!”. Ma divenni grande amica di alcune prostitute e alcuni presunti “deviati”». [Vivienne Westwood]
Della donna che lavorava nel proprio appartamento con un budget da mercatino e con una sola macchina da cucire scrissero il London Evening Standard e il Rolling Stone. Ci fu poi un servizio fotografico sul Club International e Ringo Starr, insieme a David Essex, la vollero come stilista per il film That’ll be the Day, uscito nel 1973.
Emblema del punk chic resta una maglietta nera decorata con ossa di pollo che Vivienne scolorì con la candeggina. Incatenate fra loro, e poi cucite, formavano la parola «Rock».
Ken Russell voleva qualcosa di scioccante per il suo film Mahler – La Perdizione del 1974, e chiese a Vivienne e Malcolm di realizzarla. «Crearono una tuta di pelle da valchiria dominatrice, con una svastica di brillantini e un Cristo applicato sul pube. L’insieme era completato da un elmetto nazista e da una frusta».
Sul simbolo della svastica Vivienne ricorda che Malcolm voleva scioccare le masse. «Essendo ebreo, aveva le sue ragioni per voler fare una cosa del genere, non solo rifiutavamo i valori della vecchie generazioni, rigeneravamo anche i loro tabù».
«La forma di una t-shirt è semplice e bellissima», dice Vivienne. «Ne apprezzi il tessuto, il corpo che ci sta sotto, ma anche l’immagine: è una tela».
La chiara calligrafia da maestra di Vivienne venne sfruttata per scrivere sui vestiti i testi delle canzoni e gli estratti del porno soft. Tom Stoppard disse: «Non c’è filosofia che non possa essere stampata su una maglietta».
La “potato printing” di Vivienne, così la chiamava Malcolm, erano gli stampini con cui decorava i vestiti. Fatte incidendo la superficie delle patate tagliate a metà.
La Disney gli vietò di usare i suoi personaggi dopo che «in una delle orecchie del principale personaggio Disney fu disegnata una “A” anarchica, e la principessa Disney fu rappresentata in un amplesso con gli eponimi nani».
«Prendi Star Wars, per esempio: quel design non sarebbe mai nato senza il punk». [Vivienne Westwood]
«Il nero esprimeva la denuncia del frivolo». [Malcolm McLaren]
In America Malcolm e Vivienne alloggiarono al Chelsea Hotel, proprio come fecero Frida Kahlo, Dylan Thomas, Jimi Hendrix e i Doors. Arthur Miller, che aveva vissuto lì per sei anni dopo il divorzio da Marilyn Monroe, di quel posto disse: «Il Chelsea Hotel non appartiene all’America».
«Gli abiti avevano bisogno delle band», disse Malcolm. «Quando entrai nel mondo nella musica, nessuno ne voleva sapere del collegamento con la moda. Ora è il più grande vantaggio che si possa immaginare».
«È impossibile pensare alle band, alla musica e allo spirito sia del punk che del new romantic senza le creazioni di Vivienne». [John Galliano]
Con un’audizione alla spicciola Johnny Lydon si aggiudicò un posto nei Sex Pistols. John, ribattezzato il Marcio per via dei denti malridotti, fu convinto da Malcolm a cantare School’s Out di Alice Cooper. Il 6 novembre del 1975, alla St Martin’s School of Art a Charing Cross Road, si esibirono nel loro primo concerto ufficiale.
Sid Vicious, membro dei Sex Pistols morto di overdose, aveva cominciato a drogarsi a quattordici anni. Con sua madre.
Quando Vivienne era stanca dei modi di Malcolm lo chiudeva nelle stanze.
«Sono un artista senza portfolio», diceva Malcolm.
Il figlio Joe ricorda di quella volta che «Malcolm tornò a casa con un paio di pesi per testicoli, da indossare e sollevare da terra. Li fece vedere a me e a Ben e noi scoppiammo a ridere, mentre lui se li provava e se ne andava in giro per casa. Morimmo dalle risate, e anche mia madre».
Alla fine del 1979 quando Malcolm e Vivienne si lasciarono, Malcolm iniziò a dire: «Se Vivienne ha avuto successo, è stato grazie a Malcolm McLaren».
«Insomma, tra il 1982 e 1983 cominciai a lavorare da sola», spiega Vivienne. «Avevo un modellista che mi aiutava e un paio di cucitrici. Mi provavo perfino i vestiti. Ho imparato che l’unico modo per capire se un capo veste bene ed è comodo è provarlo su te stesso».
Il Tatler nel 1989 titolò: «Questa donna una volta era una punk», con immortalata una Vivienne Westwood vestita da Margaret Thatcher. «La signora T non lo trovò divertente».
Pare che la signora Thatcher, di Vivienne Westwood, una volta disse: «Sono molto contenta che sia britannica».
Già nel 1989 John Fairchild, firma internazionale della moda, scriveva che «c’erano sei stilisti che sarebbero stati ricordati alla fine del novecento: «Yves Saint Laurent, Giorgio Armani,
Emanuel Ungaro, Karl Lagerfeld, Christian Lacroix e Vivienne Westwood, [perché] la moda pende dalle loro mani, appesa a un filo d’oro».
«Tutti gli stilisti di moda degni di questo nome fanno come me», dice Vivienne, «immaginano un posto migliore, lo racchiudono in una bolla e poi popolano quella bolla con persone bellissime».
«Non andai a scuola per sei mesi», ricorda il figlio Ben, «e mia madre mi mandava ogni giorno in un museo diverso di Londra, […] passai tre mesi nel Museo di Storia Naturale e altri tre in quello di Scienze. Tutti i giorni. Non andavo mai al Victoria & Albert Museum o ai musei d’arte».
Il 1° aprile 2004 il Victoria & Albert Museum ha inaugurato una mostra su Vivienne Westwood.
L’idea di istruzione di Rose, la nonna di Malcolm McLaren, «era punteggiata da esplosioni occasionali di didattismo che comprendevano Jane Eyre e un grosso dizionario e, cosa ancor più bizzarra, la comparizione occasionale di Agatha Christie, lontana amica di famiglia».
Una volta Vivienne mentre era in metro, era una grande fan dei mezzi pubblici, prese per i capelli una ragazzina che stava insultando una donna indiana.
Vivienne Westwood firmerà la sua collezione Witches (Autunno/Inverno 1983) ispirandosi al linguaggio visivo del re dei graffiti, Keith Haring.
Quando Vivienne Westwood si presentò nella redazione di Vogue per proporre i suoi capi, fu un vero flop. Grace Coddington, la donna che quel giorno la stava rifiutando, portava una copia di un maglione in mohair disegnato da lei. Dovette passare un decennio perché Vogue scrivesse: «La Westwood è forse la più grande stilista inglese di questo secolo. Ha rivitalizzato le tradizioni sartoriali inglesi con una mano dietro la schiena e ha creato degli abiti da sera a dir poco opulenti».
«Adoro parodiare gli inglesi e utilizzare tessuti britannici», dice Vivienne. «Abbiamo una tradizione straordinaria: una stoffa per la caccia alla volpe, una per la cerimonia di apertura del Parlamento, un’altra per la caccia alla tigre nell’Impero britannico: sono questi gli elementi che utilizzo come stilista».
Vivienne ottenne il Queen’s Award for Export quando, con la collezione Harris Tweed (Autunno/Inverno 1987), riportò in auge l’industria morente del tweed spesso e pruriginoso: «all’epoca, nessuno indossava cose del genere, ma cominciarono a farlo».
«Non ho mai voluto che mi amassero», afferma Vivienne. «L’amore non è essenziale per me. Se piaccio, ne sono grata, ma non mi aspetto che sia così».
Vivienne adora stare da sola. «Il miglior complimento che potrei fare a qualcuno sarebbe: “stare con te è come stare da sola”».
Carlo D’Amario, padrino italiano della Vivienne Westwood “Inc.”, una volta le disse: «L’establishment è come un’auto che corre a cento all’ora e tu vorresti farla rallentare. Allora, Vivienne, che fai? Getti pietre contro l’auto per cercare di frenarla, ma sai cosa accade, invece? L’auto va ancora più veloce: sfrutta la tua energia. Non lasciare che lo faccia. Non sprecare la tua energia in questo modo, quando tu, Vivienne, puoi andare anche a duecento all’ora e lasciare il segno».
Si parlò di una collaborazione Armani/Westwood. Ma quando Sergio Galeotti, il manager di Giorgio Armani, con cui Carlo D’Amario aveva preso contatto morì di AIDS non se ne fece più nulla.
L’eroina di Vivienne Westwood è Brigitte Bardot.
Vivienne Westwood è un esempio del paradigma «disegnato nel Regno Unito, realizzato in Italia e venduto in Asia». [Carlo D’Amario]
«Per me, il punto fondamentale del corpo di una donna è la vita... Basta guardare l’abito da sposa di Diana». [Vivienne Westwood]
«Il ricordo più felice che ho di quegli anni», racconta Mark Spye, «è di quella volta in cui sentii Vivienne scoppiare a ridere a crepapelle. Non riuscivo a immaginare cosa fosse successo, e scoprii che per la prima volta si era provata i collant con la foglia di fico e si era guardata allo specchio». La foglia era proprio lì sulle “nudità”.
Di Gary Ness, l’uomo delle idee che stanno dietro a molti dei temi storici che hanno ispirato le creazioni della stilista, Vivienne dice: «Non sarei la persona che sono, se non fosse stato per lui».
«Consiglio a Vivienne cosa leggere». [Gary Ness]
Proust, degli abiti di ispirazione greca di Fortuny, scriveva: «Fedelmente antichi ma potentemente originali». [Alla ricerca del tempo perduto]
«So di avere queste cose flosce e orribili attorno al mento, ma nonostante questo sono molto sicura del mio aspetto. Penso che un uomo debba essere pazzo o stupido, se non preferisce me a qualunque altra donna si trovi nella mia stessa stanza». [Intervista del 1991 a Vivienne Westwood di Caroline Phillips del London Evening Standard]
«Le braccia sono la parte più bella di una donna. Non c’è niente di più bello… eccetto le gambe e il viso, ovviamente. Tutto quello che c’è nel mezzo non mi interessa». [Andreas Kronthaler]
«Sai, avevo letto che Yves Saint Laurent beveva una bottiglia di whisky al giorno, allora mi dissi che avrei dovuto fare lo stesso, perché era quella la strada per la genialità! Poi, ho scoperto che non è così». [Andreas Kronthaler]
«È come diceva Oscar Wilde», afferma Vivienne, citandolo. «“In Francia, tutti i borghesi vogliono essere artisti; in Gran Bretagna, tutti gli artisti vogliono essere borghesi”. All’epoca, in patria, la stampa aveva interesse a scrivere solo di Chanel. Ma poi ci fu l’avvento della tv via cavo, e poi di Internet e di tutti quei programmi di moda degli anni novanta: erano ovunque. Fu allora che divenni una star».
«Se un cavallo è tuo, tornerà sempre da te». [Proverbio cinese]
«Il nome di Vivienne, o “Regina Madre d’Occidente”, è uno dei nomi occidentali più riconosciuti in cinese. In Giappone, Vivienne rientra tra le prime dieci firme affermate a livello globale, anno dopo anno, insieme a Coca-Cola e Disney. […] Vivienne è il whisky scozzese della moda, la Jaguar delle passerelle».
Il vestito da sposa di Carrie Bradshaw, in Sex and the City, è di Vivienne Westwood. Anna Wintour aveva proposto Vera Wang ma Sarah Jessica Parker voleva Vivienne.
La maglietta e il body per bebè con su scritto “NON SONO UN TERRORISTA”, ideati insieme a Liberty, l’organizzazione di Shami Chakrabarti, sono tra i capi più venduti.
Vivienne Westwood si presenta al Met Ball del 2013, uno degli eventi più importanti di New York, con una fotografia di Bradley Manning, spia nel caso WikiLeaks, con su scritto “TRUTH”. Julian Assange, dal suo rifugio politico nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, disse: «Quella sera, Vivienne era l’unica persona che avesse a che fare con le origini del punk ed era anche l’unica ad aver compiuto un atto punk. E la gente non sapeva come gestirlo».
Alla cerimonia di chiusura delle Paralimpiadi di Londra, nel 2012, Vivienne Westwood, da grande attivista e rivoluzionaria qual è, sfruttò l’occasione per parlare di Rivoluzione Climatica.
«La migliore guida alla vita», per Vivienne Westwood sono: «Le avventure di Pinocchio. È pura filosofia di vita. Un modo di vivere. Pinocchio è birichino, sfrenato, ma ha un cuore d’oro. E ovviamente è questo a salvarlo».