Giuseppe Pollicelli, Libero 26/9/2016, 26 settembre 2016
«FREQUENTAVO SOFRI, L’OMICIDIO CALABRESI È COLPA SUA» [Renzo Paris] – «Ma le musulmane non sono forse belle?», mi domanda sorridendo Renzo Paris, seduto su un divanetto nella sua casa romana nel quartiere San Lorenzo, dove vive con la seconda moglie Marina
«FREQUENTAVO SOFRI, L’OMICIDIO CALABRESI È COLPA SUA» [Renzo Paris] – «Ma le musulmane non sono forse belle?», mi domanda sorridendo Renzo Paris, seduto su un divanetto nella sua casa romana nel quartiere San Lorenzo, dove vive con la seconda moglie Marina. Quello che ha appena pronunciato è un verso tratto dalla sua nuova raccolta poetica, che si intitola Il mattino di domani e sarà data alle stampe nei prossimi mesi. È un verso particolare, perché ne cita un altro, spiazzante, che conclude un celebre componimento di Sandro Penna risalente agli anni Trenta: «Ma gli operai non sono forse belli?». Questa ludica parafrasi operata su Penna rivela molto della personalità di Paris, scrittore animato da un’inesauribile curiosità nei confronti dell’umano e portato a soffermarsi, con uno sguardo tendenzialmente refrattario al giudizio e incline piuttosto alla comprensione e alla compassione, su quanto di buono c’è negli individui e nelle cose. «Ci siamo rassegnati all’idea che da un islamico, comprese le donne, possono arrivarci solo male, minacce, terrore. Voglio credere che non sia così. Ecco allora quel verso giocoso...». Nato 72 anni fa a Celano, nella Marsica, Paris è oggi un professore in pensione che continua a svolgere un’intensa attività intellettuale e pubblicistica collaborando a riviste e scrivendo libri, e che quando può, nelle ore libere, se ne va a spasso per Roma, privilegiando il caos della Stazione Termini, poco distante dalla sua abitazione, dove i tipi umani da scrutare, e con cui magari scambiare due chiacchiere, non mancano. «Qualche tempo fa avevo stretto amicizia con alcune zingarelle che chiedevano l’elemosina intorno alla stazione. Di loro mi piace il senso di comunità, mi ricorda quello che c’era in Abruzzo quando ero bambino». La casa editrice Elliot sta per rimandare in libreria il romanzo forse più noto di Paris, Cani sciolti, uscito per la prima volta nel 1973, nel quale si racconta con lungimirante anticipo, attraverso le vicende di quattro personaggi (due uomini e due donne), la crisi irreversibile, e il fallimento già allora in atto, dell’utopia sessantottina. Negli anni in cui hai scritto Cani sciolti la scena letteraria era ancora dominata dalla Neoavanguardia. «I miei modelli, o quantomeno i miei autori prediletti, erano però altri, da Joyce a Gadda. E, a ogni buon conto, già nel 1970, Pasolini mi aveva raccomandato di dimenticarmi dell’avanguardia perché, parole sue, mi avrebbe fatto diventare un mostro. Pier Paolo, che da quelli del Gruppo 63 (i vari Sanguineti, Eco, Giuliani, Porta...) era cordialmente detestato, negli ultimi anni non aveva fatto altro che attaccarla, la Neoavanguardia, in quanto la considerava diretta espressione di quello che lui chiamava il Neocapitalismo». Come hai conosciuto Pasolini? «Tramite Alberto Moravia, che è stato un po’ il mio padre spirituale. Nel gennaio del 1966 un amico mi dà l’indirizzo di Moravia e io gli spedisco un mio racconto. Siccome però sono completamente coinvolto dai primi fermenti del ’68, per alcuni mesi mi dimentico della cosa. Quando, verso maggio, telefono a Moravia per sapere se ha letto il mio racconto, lui mi risponde: “Ah, sei tu Renzo Paris? Ma perché non hai messo nella busta il tuo numero di telefono?”. Il racconto venne poi pubblicato sulla rivista Nuovi Argomenti. Moravia e io siamo diventati amici così». Dicevamo di Pasolini. «Ha sempre avuto un approccio da pedagogo verso gli altri, specialmente verso le persone più giovani di lui, che fossero ragazzi del sottoproletariato o intellettuali in erba. Mi avevano messo a correggere le bozze di Nuovi Argomenti, pagandomi anche bene (50.000 lire), ma l’ultima revisione la faceva sempre lui e ogni volta scovava dei refusi che a me erano sfuggiti». Umanamente com’era? «Con me è sempre stato generoso. Dopo avere letto Cani sciolti, mi disse: “Tu sei un crepuscolare e si capisce che frequenti solo studenti. Preferisci che ti recensisca il libro criticandoti o che non ne parli affatto?”. Io, atterrito, gli risposi che preferivo soprassedesse. Invece poco dopo scrisse sul Corriere della Sera che Cani sciolti era uno dei romanzi più importanti di quella fase storica. Gliene sarò sempre grato». Il tuo ultimo testo pubblicato è una biografia, parzialmente romanzata, proprio di Pasolini. L’inflazione di libri su Pasolini che si è registrata di recente, per i quarant’anni della sua morte, non ti ha scoraggiato? «Quel libro è anche un po’ un’autobiografia: ho pensato che se non avessi approfittato di quel momento per scrivere dei miei ricordi legati a Pier Paolo e di me ragazzo non lo avrei fatto più». Chi altri frequentavi, a Roma, oltre a Moravia e a Pasolini? «Se parliamo del loro gruppo, anche Elsa Morante e Amelia Rosselli. Sulla Morante ho fatto una scoperta. Ho appurato che la madre, Irma Poggibonsi, conobbe a Roma l’uomo di origini siciliane che Elsa riteneva essere il suo vero padre, Francesco Lo Monaco, solo il 22 febbraio 1912. Elsa nacque sei mesi dopo, il 18 agosto, quindi non può essere figlia di Lo Monaco. Probabilmente, a differenza dei suoi fratelli nati in seguito, lei era davvero figlia del marito di sua madre. Se lo avesse saputo, tutta la sua poetica sarebbe mutata, pensando a come l’ambiguità della figura paterna attraversa le sue opere, da L’isola di Arturo a Menzogna e sortilegio». Si dice che il marito della signora Poggibonsi fosse impotente. «Lo ha fatto capire la stessa Elsa, che anzi ha raccontato anche di essere stata oggetto di indebite attenzioni da parte di quell’uomo, il quale era forse alla ricerca, nella sua disperazione, di qualcosa che lo eccitasse. Ma anche chi soffre di impotenza, con un po’ di impegno, può mettere incinta una donna. Sempre che Elsa non fosse figlia di qualcuno degli uomini che, a quanto pare, sua madre accoglieva nel proprio letto con il consenso del marito». Quando, nel 1974, uscì La storia, che fu un successo editoriale enorme, la Morante e Pasolini litigarono ferocemente. «Sì, perché Pasolini stroncò il romanzo. Ma penso che in quel momento Pier Paolo fosse anche condizionato da una questione privata: il suo rapporto sentimentale con Davoli si era concluso perché quest’ultimo aveva deciso di sposare una ragazza ed Elsa si era schierata dalla parte di Ninetto. Pier Paolo visse la cosa come una pugnalata». A te La storia piacque? «Mi colpì molto. Recensii il libro sul manifesto, con cui allora collaboravo, sostenendo che non fosse affatto un romanzo rivoluzionario ma semmai simbolista, o post simbolista, in cui si narra l’epopea di una piccola borghese. Soprattutto, mi parve la dimostrazione che, dopo il deserto provocato dalla Neoavanguardia, si potesse tornare alla narrazione». In un tuo romanzo del 1977, La casa in comune, affronti il tema del terrorismo politico concentrandoti su uno dei tanti gruppi armati dell’estrema sinistra, i Nuclei Armati Proletari. I quali non ne escono fuori benissimo. «No, e infatti se la presero a male. Pochi giorni dopo l’uscita del romanzo ricevetti a casa una telefonata: era una militante dei Nap che mi avvertiva che a loro il libro non era piaciuto per niente e che quindi era bene stessi all’erta. Per fortuna non è successo nulla». Che rapporti hai avuto con il terrorismo? «Direttamente, nessun rapporto. Ricordo che quando per la prima volta mi capitò di sentire, a Piazza Venezia, delle pistolettate in aria sparate dalle Br mi misi a piangere. Mi era già chiaro che si stava andando incontro alla catastrofe. A casa di Nanni Balestrini mi capitava di incontrare Toni Negri, personaggio dall’aura diabolica se mai ve n’è uno, il quale mi diceva con sprezzo che ero un gramsciano. E presto mi persuasi anche che le Br erano state infiltrate dai servizi segreti». Lo pensavi già prima del rapimento Moro? «Sì, te lo assicuro». E rispetto a Lotta continua come ti ponevi? «Non mi sono mai piaciuti, li trovavo troppo portati all’azione, poco riflessivi, quindi fondamentalmente scombinati. Un giorno venne a trovarmi nella mia vecchia casa, che era sempre a San Lorenzo, Ovidio Bompressi. Lo aveva mandato da me Adriano Sofri perché mi desse da leggere delle sue poesie». Bompressi poeta? «Sì, scriveva poesie. Le trovai senza infamia e senza lode. Lui mi diede l’impressione, fortissima, di un partigiano che tornava dai monti dopo una missione. Un fascio di nervi. Si lamentò con me di non aver potuto crescere i suoi figli a causa dell’attività politica, e le sue parole, avendo io in quel momento avuto da poco il mio primo figlio, mi parvero tremende e inconcepibili». Pensi sia stato lui a uccidere il commissario Calabresi? «Lo penso e l’ho sempre detto. Così come, diversamente da quasi tutti i miei amici, sono convinto che il mandante sia stato Sofri. Il quale, in tutti i modi, ha poi pagato il suo debi to con la giustizia». Sei insospettabilmente attivo sul web. «Io, al contrario di molti altri, non credo che la letteratura sia morta, non sono così apocalittico. Penso che si stia trasformando». Vedi qualcosa di positivo anche in Facebook? «Inizio a pensare che i prodromi di questa nuova letteratura si possano individuare proprio nella multimedialità dei social network. È vero che oggi si leggono meno libri e meno giornali, ma non mi pare si legga di meno in assoluto. Su Facebook si legge tanto. E soprattutto si scrive tanto, tantissimo. Stiamo a vedere che succede: essere catastrofisti, comunque, non mi pare serva a nulla».