Tommaso Lorenzini, Libero 24/9/2016, 24 settembre 2016
QUANDO ENZO DIVENTÒ FERRARI
«Ferrari era come un re e noi eravamo i suoi cavalieri», esclamò un giorno Phil Hill. Ma questa storia non comincia con “c’era una volta...”, qui siamo fuori dal tempo. Ferrari Rex (Giunti e Giorgio Nada Editore, pp. 1100, euro 28), di Luca Dal Monte, è il racconto della straordinaria esistenza di un grande italiano nato nell’800, che ha vissuto in pieno le contraddizioni e le potenzialità del 900 ma sempre con un occhio puntato al futuro. Un sovrano a volte despota, a volte irresistibile, quasi sempre illuminato e, di certo, inguaribilmente tenace ed ottimista. Basti pensare che, nel gennaio 1988 (otto mesi prima della morte), cede l’ex stabile della Scuderia a Modena al Comune perché pensa «intanto, facciamo un piacere al Comune, che non si sa mai».
Oggi a “Modena Motor Valley”, rassegna motoristica unica per una terra di motori altrettanto unica, Dal Monte presenta la sua ultima fatica letteraria dedicata a un gigante che non va confinato tra gli scaffali dello sport ma occupa uno spettro di storia che deborda fino al costume e all’attualità: Ferrari torna sempre e con lui quelli che hanno fatto parte della sua vita, come l’amato figlio Dino. Ancora oggi, quando non va bene, la Ferrari è sempre la ruota intorno a cui gira la Formula 1.
Un volume mastodontico, otto anni di ricerche e colloqui per 1100 pagine suddivise in 48 capitoli. La vita del Drake giorno per giorno che Dal Monte un passato proprio a Maranello e in Maserati e oggi apprezzato scrittore ha “intravisto” e deciso di mettere su carta un po’ per caso, quando si ritrovò fra le mani “Theodore Rex”, la biografia del presidente degli Usa Theodore Roosevelt scritta da Edmund Morris. È quello l’assist per decidere di raccontare l’epopea del Drake, «perché i libri che avevo letto fino ad allora non andavano sotto la superficie, riportavano spesso le medesime cose la maggior parte delle quali raccontate dallo stesso Enzo nelle sue autobiografie», spiega Dal Monte, «ho provato ad affrontare la complessità di quest’uomo sfaccettato, molto più variegato rispetto a come veniva descritto, il condottiero d’industria col pelo sullo stomaco. Tutto vero, ma c’era altro».
Come l’aspetto umano dell’ «agitatore di uomini», un autentico attore che dava “spettacolo” anche in famiglia. A Modena lo chiamavano “Zacconi”, sottile presa in giro riferendosi a un popolare teatrante dell’epoca. «Mi piace immaginarlo come Zelig di Woody Allen», sorride Dal Monte, «era capace di incontrare in successione tre persone con idee opposte e tutti e tre uscivano dal suo studio pensando che Ferrari parteggiasse per loro: invece li metteva a proprio agio magari per trarne vantaggio».
Un vulcano, il Drake, soprattutto con i suoi piloti. «È banale continua Dal Monte cavarsela con il fatto che, dopo la morte di Villeneuve, Enzo dica “io gli volevo bene”. Quello è un giudizio cui arriva per gradi. Dieci giorni dopo averlo assunto nell’autunno del ’77, Ferrari vuole dare via Gilles ma non trova nessuno che lo prenda. E quando nel ’78 trova l’accordo per darlo alla Wolff e sostituirlo con Scheckter, gli va via Reutemann e quindi è costretto a tenerlo». Per fortuna, diranno i tifosi Ferrari. E poi il rapporto con Surtees, uno che ha veramente stimato prima della rottura chiassosa perché era un tecnico, come lui, e veniva dalle due ruote, come Nuvolari. Oppure Lauda: «Il loro divorzio Ferrari lo metabolizza solo sei, sette anni dopo perché, come lui, era totalmente dedito all’auto, fino a quel 1976, quando l’austriaco, distratto dal matrimonio, invece di provare fino a notte a Fiorano faceva scaldare l’aereo privato e raggiungeva Marlene a Ibiza».
Ferrari non era invidioso dei suoi piloti, era più come un padre col fidanzato della figlia ed è stato un driver migliore di quanto abbia fatto credere: negli Anni 20, era uno dei quattro moschettieri dell’Alfa Romeo, insieme con Antonio Ascari, Sivocci e Campari. Non aveva la loro classe, ma era lì, e disse basta solo quando a Lione ebbe paura di fare il salto di qualità, quando «capì di essersi messo sulla strada sbagliata».
Piloti italiani? Meglio di no. In caso di incidente non voleva le prediche di stampa e Chiesa e poi non voleva dividere le gioie di una vittoria tutta italiana: era la Ferrari, che vinceva. Eppure, fu legato a Michele Alboreto che, nonostante lo screzio dell’86, fu uno degli ultimi ammessi al suo capezzale, dove, fino alla fine, continuò a pensare all’Alfa, la madre da cui era nato e fuggito e che aveva «ucciso» nel 1951 arrivandole per la prima volta davanti in una corsa. Il 10 luglio 1988, a 90 anni, l’ormai ammalato e debole Ferrari tentò di seguire alla tv il Gp di Gran Bretagna, dove proprio 37 anni prima Gonzalez aveva conquistato il primo successo del Cavallino. Enzo però si addormentò, sfinito e, svegliandosi di soprassalto, chiese solo: «Le Alfa sono dietro, vero?». Ma l’Alfa aveva smesso di correre tre anni prima.