Elisa Manisco, il venerdì 23/9/2016, 23 settembre 2016
M’ILLUMINO DI MANSON: STORIA DI UN’ICONA DARK
Nella sua celebre rassegna di crimini e misfatti Hollywood Babilonia, il regista Kenneth Anger liquida il massacro di Sharon Tate e compagni in poche righe. «Quello che accadde nella casa rossa di Cielo Drive faceva pensare alla devastazione causata dalla caduta di un jet, l’aereo malefico del pilota pazzo. Charles Manson, un automa computerizzato, un deus ex pattumiera: le vite sprecate producono rifiuti, non tragedia» scriveva Anger nel 1975 con troppa superficialità e fretta. In parte per motivi squisitamente personali: anni prima era stato coinvolto sentimentalmente con un membro della setta di Manson, il musicista bello e dannato Bobby Beausoleil, poi incarcerato per omicidio. Ad ogni modo la storia lo ha smentito. Se c’è una tragedia che simboleggia l’America e i suoi (falsi) miti – forse più dei casi O. J. Simpson e JFK – è la mattanza orchestrata dal cattivo maestro Charlie e perpetrata la notte dell’8 agosto 1969 in quella villa di Benedict Canyon dalla sua Family di disadattati: i «natural born killers» Tex Watson, Susan Atkins, Patricia Krenwinkel e Linda Kasabian (che la sera seguente replicarono nella casa dei coniugi LaBianca, aiutati da Leslie van Houten, Steve Groogan e Manson stesso).
Un’orgia di sangue e follia che continua a irradiare le sue cattive vibrazioni, incarnate negli sguardi allucinati sfoggiati nelle foto d’epoca dalle seguaci di Manson, ex brave ragazze trasformate in crudeli fatine hippie a forza di sesso e droghe.
«Le ragazze sono sempre state la parte più interessante della storia» nota Julie Beck su The Atlantic, e in questo momento sembrano pensarlo in tanti. Dalle scrittrici Emma Cline e Alison Umminger, che nel romanzo American Girls fa scoprire Manson a una teenager di oggi, fino alla tv: su Nbc si è appena conclusa la seconda stagione di Acquarius, sulle origini della Family, mentre a febbraio Lifetime ha trasmesso Manson’s Lost Girls, e si vocifera che la nuova stagione di American Horror Story possa contenere riferimenti alla Famiglia e ai suoi crimini. Il creatore Ryan Murphy ne è ossessionato da sempre. Come John Waters, che a vent’anni prendeva l’aereo dalla natia Baltimora fino a L.A. per seguire i processi alla Family, e James Ellroy che nel suo L’angelo del silenzio (1986) inserì Charlie in un cameo. Per non parlare dei musicisti che hanno attinto al «mito»: Marilyn Manson, ovviamente, e poi Sonic Youth, Ramones, Guns N’ Roses e Trent Reznor, ex Nine Inch Nails e Oscar per la colonna sonora di The Social Network, che nel 1992 affittò la casa del massacro per registrare l’album The Downward Spiral.
Ma perché (ancora) tanto interesse? La recente infatuazione di massa per il true crime spiega molte cose. Ma nel caso della Family la banalità del male si arricchisce di qualche sfumatura in più. Come spiega il padrino della controcultura a stelle e strisce Ed Sanders nel suo The Family. «Il caso Manson aveva tutto per titillare l’interesse del mondo. C’era il rock’n’roll, l’essenza degli anni 60 e della liberazione sessuale, la sua ferocia e le droghe psichedeliche». Ma soprattutto c’era l’ossessione tipicamente americana per la violenza e la celebrità, che lo rende più che mai attuale in quest’era di selfie e lotte all’ultimo social per i canonici 15 minuti di visibilità. Tanto che all’epoca sembrò quasi che vittime e carnefici si trovassero su barricate opposte di una guerra di classe dove il capitale non era il denaro ma la fama. Famose erano infatti (quasi tutte) le vittime: la splendida attrice Sharon Tate, incinta di otto mesi e mezzo del marito Roman Polanski, il suo amico parrucchiere Jay Sebring, ispiratore del film Shampoo, l’ereditiera Abigail Folger e l’attore Voytek Frykowski. E famoso – a tutti i costi – voleva essere Charles Manson, un ex galeotto di 34 anni con precedenti per furto e sfruttamento della prostituzione che scriveva canzoni bislacche e si era messo in testa di diventare più grande dei Beatles. Neil Young, che lo aveva incrociato nell’ambiente bohémien di Topanga Canyon, ci vedeva «una specie di Dylan» e lo aveva raccomandato a un amico discografico, ma Charlie aveva puntato sui cavalli sbagliati. Dennis Wilson dei Beach Boys, che prima si era fatto irretire dai suoi modi da guru e poi si era dileguato, e soprattutto il produttore Terry Melcher, figlio di Doris Day e titolare della magione al 10050 di Cielo Drive. Punire lui, reo di averlo snobbato, sarebbe stato il vero movente dell’assalto, con Tate e i suoi amici nel classico ruolo di chi si trova nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Quello, oppure la guerra apocalittica tra bianchi e neri che il razzista Manson aveva predetto basandosi sull’ascolto ripetuto di Helter Skelter dei Fab Four. E che sarebbe dovuta scoppiare grazie ai suoi crimini, corredati di slogan radicali intinti nel sangue per portare la polizia sulle tracce delle incolpevoli Black Panthers. In entrambi i casi vaneggiamenti, che però hanno centrato l’obiettivo. Charlie, che ora ha 81 anni e sconta nove ergastoli nella prigione californiana di Corcoran per gli omicidi Tate-LaBianca e decine di altri crimini riconducibili alla Famiglia, è ormai «più una rockstar che un serial killer», come ha scritto Mark Kemp di Rolling Stone. Un’icona pop che affiora in blog, libri, film, dischi, e continuerà a farlo. Un po’ perché è il fossile di un’epoca che ha plasmato il presente, nel bene e nel male, e un po’ perché scrutare nell’abisso spesso è l’unico modo per conoscere se stessi, come lui aveva intuito benissimo: «“Tutto quello che vedete in me è anche dentro di voi. Se volete vedere un assassino, vedrete un assassino. Se vedete un fratello, sarò un fratello. Io sono voi, e quando riuscirete ad ammetterlo sarete liberi».
Elisa Manisco