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 2016  settembre 23 Venerdì calendario

QUELLE MALEDETTE LEZIONI AMERICANE

è facile immaginare la sensazione di tristezza e sconforto, provata da uno studente che ha appena compiuto vent’anni, alla vista di un cartello, di un avviso appeso sulla porta della libreria dell’Università di Harvard, con su scritto: “Nella notte tra il 18 e il 19 settembre è morto lo scrittore Italo Calvino a causa di un’emorragia cerebrale, per questo le sue Norton Lectures previste nella nostra università verranno annullate”. Era l’anno accademico 1985/1986 e quello studente, destinato a diventare un grande scrittore, si chiamava Jonathan Lethem. Vent’anni dopo quell’incontro mancato, Lethem aveva confessato che la morte di Calvino, lui, l’aveva presa come un “affronto personale”: “Lui non lo sapeva – diceva – ma non si era presentato a un appuntamento”.
Sono passati trent’anni da quel giorno, da quell’estate in cui Calvino, a Roccamare, pensava a un’introduzione all’America di Kafka, traduceva Queneau, rispondeva a un’intervista dell’amica Maria Corti, e soprattutto preparava i Six Memos for The Next Millennium, che nelle mani della moglie Esther, dopo la sua morte, avrebbero preso la forma delle Lezioni americane. Cos’è rimasto oggi di quelle lezioni, di quelle finestre piene di luce che Calvino si era inventato per affacciarsi nel nostro millennio? Siamo diventati davvero leggeri, rapidi, esatti, visibili, molteplici, coerenti?
LE LEZIONI AMERICANE, come alcuni libri di Roland Barthes, anche se scritte in una forma saggistica, si leggono come un romanzo. È la cosiddetta leggerezza pensosa che, diceva Calvino, è diversa dalla “ leggerezza della frivolezza”, come scrivere pensando al lettore, anzi, a tutti i lettori, evitando qualsiasi sorta di snobismo. Non è un caso che negli ultimi anni autori come Pennac, Cercas, Teju Cole, De Botton, abbiano seguito la lezione di Calvino e scritto i loro saggi sull’amore, il sesso, i viaggi, in una forma narrativa, accessibile a tutti. Come diceva Woody Allen, nessun bambino da grande avrebbe voluto fare il critico, allora tanto vale stare dalla parte del lettore, dei passeur, come li chiama Pennac, “curiosi di tutto, leggono tutto, non si accaparrano niente e trasmettono il meglio al maggior numero di persone”. E Calvino, nonostante il suo sguardo lucido sulla realtà, la sua fantasia sempre danzante tra cielo e terra, non avrebbe mai immaginato che quelle vie infinite della letteratura, di cui lui parlava nelle lezioni, ci avrebbero portato un giorno a caricare i nostri romanzi su un’app chiamata Wattpad, che gli editori avrebbero pescato lì i futuri best seller, che in macchina o sul divano di casa avremmo potuto ascoltare la voce di un attore famoso che leggeva un romanzo per noi, che sarebbe nato un social network (Goodreads) dove dispensare consigli di lettura, raccontare i libri letti e accorgersi di quelli in uscita.
PARLANDO di “rapidità”, Calvino temeva soprattutto due cose: che i cosiddetti media, velocissimi, capaci di raggiungere tutti, potessero appiattire “ogni comunicazione in una crosta uniforme e omogenea”; dall’altra, piano piano gli scrittori stavano perdendo il gusto dell’attesa, del darsi tempo, della ricerca della qualità, “d’un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile”. Da una parte, quindi, i 140 caratteri di Twitter, rapidissimi appunto, dove tutti cercano di essere graffianti, più brillanti degli altri, risultando spesso noiosi e prevedibili. Dall’altra i giovani scrittori, che ossessionati dal tutto e subito o dall’angoscia di essere dimenticati, pubblicano libri fantasma. Nella terza lezione, sull’esattezza, forse gemella della sesta, mai scritta , Consistency (“coerenza”, ma anche “spessore”, “consistenza”), che avrebbe dedicato al Bartleby di Melville, faceva un elogio del silenzio, della distanza da mantenere rispetto alle cose, della scrittura come alternativa al linguaggio volutamente semplice, quasi volgare, come “condizione in cui si annulla il dovere di scrivere”, per fare di quell’“Avrei preferenza di no!” un manifesto. E infine la “visibilità”, la capacità di vedere e di pensare a occhi chiusi, in un mondo dove tutto è troppo visibile, e la “molteplicità”, uscire da se stessi, o comunque evitare di scrivere romanzi di mille pagine per autocelebrarsi, “far parlare ciò che non ha parola”, e ricordarsi che la letteratura e la vita, in fondo, sono più o meno la stessa cosa.