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 2016  settembre 22 Giovedì calendario

DISSEPPELLITA VIVA

Natascha Kampusch, 28 anni, si rilassa in un angolo dell’elegante ristorante Palmenhaus a Vienna, mentre un gran numero di farfalle svolazza vivacemente in una immensa teca alle sue spalle. Gli insetti attirano qui molti visitatori, e infatti anche Natascha ne è colpita: «Sono bellissime» dice, in un inglese pressoché perfetto.
Ma non sono solo le farfalle ad affascinare: anche Natascha è incantevole. La sua terribile storia a lieto fine ha fatto il giro del mondo nell’agosto 2006, dopo la sua fuga da otto anni di orrori indicibili in una cantina segreta. Wolfgang Priklopil, 44 anni all’epoca, un solitario, aveva rapito e tenuto prigioniera Natascha dall’età di dieci anni, e il giorno della sua fuga si è gettato sotto un treno.
Il mondo intero era rimasto turbato e al tempo stesso affascinato dalla storia di Natascha, da cui è scaturito un bestseller intitolato 3.096 giorni, che è l’esatta durata della sua prigionia. Il libro è uscito nel 2010 ed è divenuto un film tre anni dopo. Da allora l’autrice è stata ospite di alcuni talk-show e ne ha condotto uno in prima persona. Dopo quegli anni sotto i riflettori, però, Natascha ha lentamente iniziato a defilarsi: fuggire dalla cantina degli orrori era stato un conto, ma sopportare ogni istante gli sguardi indagatori del prossimo era ben diverso. «A volte le persone non mi capiscono» lamenta Natascha. «Mi credono a pezzi, traumatizzata, e mi ritengono una vittima anziché una persona forte. Basta. Io non voglio essere identificata con quello che mi è successo».
A dieci anni dalla fuga, Natascha si apre. Il ritorno da questo suo esilio autoimposto è segnato da un nuovo libro, 10 Jahre Freiheit (ovvero Dieci anni di libertà, uscito a fine agosto ma ancora da tradurre in italiano, ndr) dove descrive proprio com’è riuscita a ricostruire la sua vita nonostante la sofferenza. Oggi Natascha è una donna allegra e interessante, per quanto vigile; a tratti affascinante nella sua ingenuità; a tratti ancora oppressa dall’orrenda esperienza che ha vissuto e continua a rivivere.
Qualche mese fa si sono diffuse voci secondo cui Natascha avrebbe protetto un presunto complice di Priklopil. Secondo tali clamorose indiscrezioni, «Wolfi» Priklopil sarebbe stato ucciso e il suo corpo gettato sui binari per simulare un suicidio. Il verbale della polizia menzionava un amico e collega di Priklopil, Ernst Holzapfel, il quale ha ammesso di aver conosciuto Natascha durante la sua prigionia, ma di non sapere che fosse stata rapita.
Il tabloid tedesco Der Spiegel ha inoltre rivelato le dichiarazioni di due autorevoli medici legali, i quali si sono occupati del caso Priklopil e sostengono che la polizia abbia «condotto le indagini sulla sua morte non rispettando standard accettabili». Anche loro hanno ventilato l’ipotesi che che Priklopil possa essere stato ucciso prima che il treno lo decapitasse.
Natascha, invece, respinge ogni macchinazione. La sua stanchezza è visibile mentre afferma: «Non è stato affatto semplice per me; molte persone non credevano fossi stata rapita e pensavano che fosse tutto un mio piano fin dall’inizio, fin da quando avevo dieci anni, credevano che io fossi complice. È stato terribile, ma cerco di non far trasparire le mie emozioni. Sono sempre stata forte durante tutto quel tempo: sono riuscita a conservare la mia identità e la forza d’animo. Quando mi sono liberata ho avuto addosso i media di tutto il mondo e ho perso autostima perché continuavano a farmi tutte quelle domande. Ora che l’ho recuperata sono consapevole di qual è il mio posto nella società. La mia personalità è più definita e sono più sicura di me».
Natascha stava andando a scuola a piedi, a Vienna, la mattina del 2 marzo 1998 quando è stata presa da Priklopil, un tecnico elettronico e delle comunicazioni ossessionato dai bambini. La reclusione di Natascha ha avuto luogo principalmente in una cella di cemento armato di 5 metri per 5. Con il tempo le è stato concesso di accedere anche ad altre parti della casa, per cucinare e fare le pulizie, ed è stata portata anche all’esterno in alcune occasioni, quando era ormai più grande e completamente sottomessa.
Per tutto quel tempo, Natascha è stata trattata come una schiava, costretta a eseguire gli ordini del suo aguzzino, picchiata, violentata e torturata. Un giorno, mentre puliva l’automobile di Priklopil, lui ha ricevuto una chiamata al cellulare e si è dovuto allontanare a causa del rumore dell’aspirapolvere, così la ragazza è riuscita a fuggire. Una corsa a perdifiato tra i giardini dei vicini, scavalcando le siepi e implorando i passanti di chiamare la polizia. Dopo circa cinque minuti ha bussato alla finestra di un 71enne dicendo «Mi aiuti, mi chiamo Natascha Kampusch».
Il suo rapporto con Priklopil era complesso, e Natascha ha sempre parlato con sincerità del fatto che i suoi sentimenti per lui fossero ambivalenti, poiché il suo rapitore da un lato la maltrattava e dall’altro le riservava gesti di tenerezza. Nei primi anni si sedeva con lei nel seminterrato, le dava da mangiare, le lavava i denti e le leggeva le storie della buonanotte. Priklopil ha anche cercato di darle un’istruzione e le metteva a disposizione dei libri. Per otto anni della sua vita, del resto, è stato l’unico essere umano con cui Natascha ha avuto contatti, il suo molestatore e l’uomo che si prendeva cura di lei.
«Non ho cambiato opinione su Wolfgang» risponde serena. «Le cose non sono mai bianche o nere: soprattutto in casi come il mio ci sono molte zone grigie, tante sfumature. Di lui non mi manca nulla, ma era lì e ha fatto parte della mia vita. Trovo in qualche modo giusto che io sia viva e lui no» aggiunge. «Io posso andare avanti con la mia vita, lui no. Ero come in prigione e mi sono liberata. A volte penso che sarebbe meglio se fosse vivo, così dovrebbe stare in prigione anche lui, come ci sono stata io; invece si è liberato uccidendosi».
Natascha respinge l’accusa di soffrire della sindrome di Stoccolma, il fenomeno psicologico per cui l’ostaggio sviluppa un legame affettivo con il suo rapitore e prova per lui sentimenti positivi. La donna ammette però di aver sofferto per la morte di Priklopil, e secondo alcuni terrebbe addirittura una sua foto in borsetta. Da tutto ciò sono nate le voci secondo cui Natascha sarebbe stata in qualche modo complice nel suo rapimento.
Il fatto che oggi Natascha sia la proprietaria della casa in cui è stata rinchiusa non fa che esacerbare gli animi dei complottisti. L’edificio le fu assegnato nella procedura di successione di Priklopil, come risarcimento, e Natascha vi si reca regolarmente. Le visite, rivela, suscitano in lei emozioni contrastanti, perché pur essendo la casa degli orrori quel luogo ha avuto un ruolo importante nella sua infanzia. «Sono la proprietaria della casa, è vero, ma per me è un peso perché non ne posso disporre in alcun modo: non posso venderla, né affittarla, né trasferirmici. L’ho accettata perché non volevo che finisse in mani sbagliate. Ci vado ogni due mesi; anche se non spesso, devo entrare per fare i lavori necessari. La cosa importante è non dare mai l’occasione agli altri di giocare con la mia vita».
Negli ultimi anni Natascha ha lavorato a Vienna nel web marketing e si è dedicata al volontariato. Portavoce dell’organizzazione Peta, a sostegno dei diritti degli animali, si è spesa contro la crudeltà di tenere bestie in gabbia. Ha finanziato un reparto di un ospedale pediatrico in Sri Lanka e ha scritto i due libri. «Questo secondo volume» dice «parla del periodo successivo alla mia evasione, delle mie emozioni e dei sentimenti ed esperienze con gli altri, al di fuori della casa. Non è stato facile. Questi dieci anni sono stati un tumulto di sentimenti e di emozioni: scriverne mi ha aiutata a metterli a fuoco. Mi premeva che le persone interessate alla mia storia sapessero chi sono davvero».
Per dieci anni Natascha ha plasmato la sua nuova esistenza. Mantiene buoni rapporti con la famiglia, che visita spesso, ma vive da sola e non vuole parlare del suo privato, né dire se sia stata in grado di stringere una relazione con un uomo. Le piacciono la musica, i film, i romanzi di Agatha Christie e l’equitazione, e ha trovato un modo per tenere a bada i suoi demoni. «Chiamo quello che faccio “pulizia psicologica”: è come lavarsi la faccia, ma agisco sulla mia psiche. Ho dei ricordi di ciò che è accaduto in tutti quegli anni, ma non uso quei ricordi. Sono conservati nella mia testa, come in un archivio, ma non mi lascio controllare da loro. Non sono traumatizzata. È difficile confrontarsi con quanto è accaduto, ma l’ho superato».
Inevitabilmente, però, certe cicatrici restano. Natascha ammette di soffrire d’ansia e di avere difficoltà a rimanere da sola in luoghi silenziosi: silenzio e solitudine le ricordano la vita nel seminterrato. «Qualche volta, quando non vola una mosca e sono da sola, mi torna tutto alla mente» sospira. «È un peso, un macigno. Non mi piace nemmeno andare in vacanza, mi fa paura. Ho sempre bisogno di fare qualcosa, non riesco a starmene seduta a rilassarmi». Poco dopo la fuga, Natascha ha avuto l’opportunità di ricevere una nuova identità segreta, ma ha rifiutato, imparando a gestire l’attenzione spasmodica dei media e dell’opinione pubblica.«All’inizio non era facile parlare del rapimento. Ma alle persone interessava, e se mi si dimostra rispetto, io ricambio. Ora non mi dà più fastidio. La gente per strada mi riconosce e a volte qualcuno mi abbraccia, anche se a me non piace. Non tutti sono educati, ma ho imparato come comportarmi anche in questi casi. Nei primi tempi anche la fama era un fardello, mentre oggi non più. All’inizio non andavo volentieri in televisione: ora è la normalità, così come lo è vestirmi e lavarmi i denti. È la mia quotidianità. Penso che le persone rimangano affascinate dalla mia storia perché nella maggior parte dei rapimenti la vittima viene trovata morta in un sacco di plastica, in un bosco, un lago o in qualche seminterrato».
Natascha confida anche di seguire casi simili al suo, come la scomparsa della piccola Madeleine McCann, la bimba inglese di 4 anni, misteriosamente scomparsa in Portogallo la sera di giovedì 3 maggio 2007. «Non saprei che consigli dare alla famiglia McCann, è difficilissimo. Hanno tutta la mia comprensione e mentirei se dicessi che so per certo che Madeleine è viva; sarebbero solo congetture. Mi dispiace tanto per lei e per i suoi genitori».
Le prospettive di Natascha la vedono ancora impegnata nel volontariato. Nonostante quel che ha passato, si rifiuta di considerarsi una persona per cui provare compassione, e dice: «Provo gratitudine e voglio restituire qualcosa; ho avuto una seconda possibilità e la sfrutterò per obiettivi positivi. Sono stata fortunata, e poter condividere la mia gioia è un grande regalo».
È impossibile ripercorrere l’esperienza di Natascha e non restarne colpiti. È uscita dalla prigione in cui è stata costretta a vivere, ma si percepisce che una parte di lei è ancora intrappolata laggiù, nel seminterrato. Come le farfalle nella immensa teca alle sue spalle, anche Natascha è libera. Ma non completamente.