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 2016  settembre 16 Venerdì calendario

FRATELLI D’ITALIA, UN INNO PER MARCO FERRANTE

Ignoro quale sia l’inno personale di Marco Ferrante (il mio è Max di Paolo Conte). Se lo sapessi lo intonerei adesso per salutare con l’enfasi dovuta il gran bel romanzo che ha scritto. Si intitola, ed è uno dei titoli più accattivanti degli ultimi tempi, Gin tonic a occhi chiusi, e racconta una storia corale, quella della famiglia Misiano, potente tribù romana, e delle persone che la circondano.
Per capire che tipo di (bravo) scrittore sia Ferrante bisogna fare qualche esempio.
Uno riguarda certe sue disinvolture nella guida della macchina narrativa. Certe avvertenze come questa: «Brevissimo – e molto facoltativo – paragrafo per appassionati su alcune preferenze nei gusti e nella vita di Anna Rangone, utile per l’approfondimento sul carattere, ma non per la trama».
Ferrante sa che ogni scrittore è anche portinaio. Così il libro è preceduto da una specie di plafoniera di citofono con i nomi dei personaggi. C’è Edoardo Misiano, il pater familias, grande avvocato, uomo intelligente e buono, «porschista e ideologo di barche». C’è la moglie Elsa, ricchissima di suo, cinica, comandiera (ha cresciuto i figli sottoponendoli a una durissima competizione fratricida). «Molto di quello che leggerete è colpa sua», annota l’autore inchiodandola alle sue responsabilità. E poi ci sono loro, i tre fratelli pargoli Misiano. Il primogenito Gianni (fiscalista da un milione di euro all’anno), uno che già da ragazzo studiava da esperto di dossieraggio e teneva in un archivio «le brutte copie delle versioni di latino dei compagni a cui aveva passato il compito».
Il secondogenito Paolo, politico e uomo fragile che «ha una moglie compatta, con una sensualità matrimoniale»), ma anche l’amante, Teresa Sasso, che «traffica ai confini di un generico mignottismo morale, ma non solo morale». Tutti i personaggi del romanzo sono molto contemporanei, ma Teresa lo è, forse, più di ogni altro. Lei è alla ricerca di una dimensione pubblica, «ma le è indifferente il tipo di dimensione pubblica: politica, fiction, giornalismo, varietà e gare da ballo, tutto va bene, purché sia nel contenitore della fama». Il terzogenito Ranieri, giornalista ed erede di una bella fortuna in quanto cocco di zia single. Studi all’estero, esteta estenuato, Ranieri può intrattenere per ore su quali siano i migliori bicchieri neri (Pathos? Fine Factory?) e poi si porta a letto l’ascoltatrice di turno. Lui sa come si ordina un cocktail meglio di James Bond («Martini, ghiaccio appena sciacquato e Fifty Pounds») e deve essere il personaggio preferito dall’autore (il titolo è dedicato a lui e ne celebra le doti di barman provetto). Però, favoritismi d’autore a parte, ricordatevi che i fratelli Gianni e Paolo considerano all’unisono Ranieri «uno stronzo».
Cosa succede in Gin tonic a occhi chiusi? Tutto e niente, come sempre ai giorni nostri. E quindi: scandali sessuali, politici, finanziari, matrimoniali; molte cene su tavoli di coran (senza tovaglia, per carità di Dio!); molte conversazioni con coretto finale «contro l’agenzia delle entrate e contro Equitalia» (siamo verso la fine dell’epoca berlusconiana).
Le donne somigliano alla cantante Dido o alla violinista Sharon Corr. Qualcuna rischierebbe anche un destino tra Emma Bovary e Anna Karenina, ma non è più quel tempo e i rapporti extraconiugali trovano una loro misura mirabilmente riassunta dalla frase: «Comunque lui le vuole bene, anche se in un contesto di malinconia: ogni tanto però pazze trombate». Ferrante disegna nei suoi millimetrici mappali il catasto dell’umanità corrente. Sa arbasineggiare (ma è l’Arbasino a levare, a togliere, quello spiccio, stenografico, non quello ad aggiungere). Sa moravieggiare. L’ultima battuta di questo romanzo di crudele bellezza (ma senza spargimento di sangue) potrebbe essere quella, mondanamente tombale, degli Indifferenti: «È stata una bellissima serata». Dov’è la Vittoria narrativa? Porga la chioma a Marco Ferrante.