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 2016  settembre 21 Mercoledì calendario

IL DOVERE DI RIPORTARLI A CASA. VIVI

Ancora italiani rapiti in Libia. È una situazione drammatica che ci tocca tutti sul piano umano. Brucia ancora il dramma dei due italiani uccisi in Libia a marzo (Piano e Failla) e degli altri due (Calcagno e Pollicardo) liberatisi perché abbandonati dagli stessi rapitori o perché il riscatto era stato già pagato o perché la morte dei colleghi aveva reso più difficile la loro detenzione. Ma è un paradosso ormai frequente che gli aspetti umani della vicenda siano usati per scatenare polemiche di carattere politico e militare che di fatto l’aggravano. C’è chi vuol collegare i rapimenti all’impegno militare italiano all’estero e quindi chiede la fine delle missioni o il loro rafforzamento (a seconda del vento). Chi pretende che tutti gli italiani all’estero siano scortati, chi vorrebbe una rappresaglia militare o un blitz di salvataggio, chi il sacrificio degli ostaggi perché “coi terroristi non si tratta” e chi ogni volta invoca il “bancomat” di Stato.
Il rischio di sequestro dei nostri connazionali (per qualsiasi motivo) è trattato come una casualità; qualcosa d’imprevedibile diretto contro l’intera nazione, contro la sicurezza di tutti i cittadini e contro la nostra stessa “civiltà”: una paranoia. I rischi dei nostri lavoratori all’estero assunti da contractor italiani e stranieri sono trattati allo stesso modo anche se le loro condizioni sono particolari. I lavoratori espatriati, consapevoli dei rischi delle zone calde, sono ritenuti meno vulnerabili del semplice turista. In effetti, il rischio di ricatto politico, compresa la rivalsa nei confronti del paese d’origine, è temperato sia dalla diversa nazionalità dei lavoratori (a Ghat uno dei rapiti è canadese) sia dall’abilità degli imprenditori di rendersi indispensabili proprio nei riguardi degli interessi locali.
Lo stesso rischio che le imprese diventino obiettivi diminuisce con l’impegno delle autorità locali a difendere i “propri” interessi. Ogni rischio derivante da azioni politicamente orientate, come il terrorismo o la stessa guerra, diminuisce con la consapevolezza delle parti in lotta che le imprese lavorano per qualcosa che serve a tutte loro, come infrastruttura e fonte immediata di guadagni tramite estorsioni e “pizzi”, come a Ghat.
Non c’è ditta o impresa straniera in Libia che non operi in un ambiente di sicurezza creato proprio da tali elementi e che non abbia calcolato il rischio accettabile non tanto a livello nazionale, che è un vero caos, ma nella “bolla” di territorio in cui opera, come a Ghat. Il sostegno o la protezione delle imprese da parte dello Stato di appartenenza sono limitati e spesso le stesse imprese si rifiutano di ricorrere alla protezione armata nazionale proprio per non aumentare i rischi “politici”. Per lo stesso motivo gli Stati raramente intervengono a sostegno militare palese delle imprese.
I singoli lavoratori sono invece soggetti più di altri ai rischi di criminalità e bande di predoni. La consuetudine del lavoro, gli spostamenti di routine, la familiarità delle zone e le amicizie locali li rendono facilmente individuabili e “valutabili” sul piano finanziario.
Il loro valore oggettivo aumenta o diminuisce a seconda del livello di criminalità e di povertà della zona, specie se sono aree di transito o di confine, come Ghat. Oggi in Libia ci sono aree in cui la vita di un espatriato occidentale vale zero perché l’impresa è considerata ostile o solo “poco flessibile” e altre in cui i riscatti richiesti vanno da poche centinaia di dollari a qualche milione. Le imprese sanno meglio di chiunque altro in quali condizioni si trovano e di quale aiuto hanno eventuale bisogno. In caso d’incidente, devono solo chiedere e lo Stato ha il dovere d’intervenire con tutti gli strumenti necessari. Di certo, a Ghat come altrove, le pulsioni di nazionalismo, acquiescenza o paura e le chiacchiere paranoiche non aiutano né le imprese né le autorità italiane nel comune compito di riportare i nostri lavoratori a casa. Vivi.