Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 18 Domenica calendario

LA FRENATA DELLA GLOBALIZZAZIONE: 1.583 OSTACOLI AL COMMERCIO – 

Canta tra le balle di tabacco allineate. Una litania continua di prezzi resa in musica per andare più veloci. Il battitore canta e cammina tra le file di sacchi aperti, le larghe foglie in vista: un gruppo di broker lo segue, controlla la qualità, a un certo prezzo compra, un contabile registra. A Harare, capitale dello Zimbabwe, devi essere svelto per fare affari sul floor delle borse del tabacco. Si scambiano migliaia di balle al giorno, tra inizio primavera e agosto, stagione delle aste. Una volta, i più veloci a comprare erano gli europei e gli americani. Oggi, sono i cinesi.
È che il commercio internazionale sta diventando sempre più un fatto geopolitico. Non è un bene. Non passa giorno che non escano dati sulla crescita del protezionismo negli scambi mondiali. Segno che la globalizzazione fa passi indietro. Le ragioni del moltiplicarsi di dazi e soprattutto di barriere amministrative e non tariffarie sono parecchie. Inizialmente, dopo lo scoppio della grande crisi del 2008, furono giustificate con la necessità di prendere misure per proteggere le industrie domestiche in difficoltà; misure che però sono diventate stabili e ora fanno a pieno titolo parte delle politiche economiche in molti Paesi, ricchi e poveri. Le ragioni geopolitiche che turbano pesantemente il commercio mondiale, però, sono probabilmente le peggiori.
Era un destino che tabacco e Zimbabwe creassero una miscela esplosiva. Sotto il tallone di Robert Mugabe l’economia del Paese è stata devastata e oggi è al punto di rottura, nel caos. E la foglia di tabacco è vittima dell’ostracismo delle autorità sanitarie: la difesa della salute è sempre una delle scuse migliori per i governi che vogliono limitare le importazioni. Mentre lanciava la guerra al fumo, Washington ha difeso in tutti i modi i proprio produttori di tabacco. I Paesi della Ue, per parte loro, possono scegliere di applicare dazi all’importazione per il tabacco semilavorato di 54 euro al chilo oppure del 46% del prezzo medio di vendita al dettaglio (dal 2020 saliranno a 60 euro e al 50%). La Cina, che ha da anni usa la politica commerciale, economica e finanziaria per realizzare la sua espansione geopolitica nell’Africa subsahariana ha così trovato lo spazio, con la benevolenza di Mugabe, per diventare il primo importatore di tabacco dallo Zimbabwe (e in genere dall’Africa australe).
È che nel mondo un grande cambiamento di stagione è già avvenuto. Non è più piatto. Si credeva che gli ostacoli alla circolazione di beni, di servizi, di denaro, di persone stessero sparendo; in realtà aumentano. Al punto che il commercio internazionale ha smesso di crescere. Nei governi e tra gli esperti si usa dire che il ritmo di aumento degli scambi globali rallenta. La realtà è che si è completamente fermato. «I volumi di esportazione mondiale hanno raggiunto un plateau all’inizio del 2015 — hanno scritto in uno studio recente Simon Evenett e Johannes Fritz, due dei maggiori analisti di tendenze nel commercio, per i centri di studio Global Trade Alert e Cepr —. La misura standard del commercio mondiale non sta rallentando, non cresce del tutto» sia nei Paesi industrializzati che in quelli emergenti. E hanno aggiunto: «Escluse le recessioni globali, un plateau che dura 15 mesi praticamente non si era mai visto sin dalla caduta del Muro di Berlino». Buona parte dello stop dipende dal nuovo protezionismo in azione. Evenett sostiene che dalla crisi del 2008 «quasi non è passato un giorno senza che un Paese adottasse misure per proteggere le imprese domestiche e complicare le transazioni con l’estero».
Nel suo ultimo rapporto sullo stato degli scambi tra i Paesi del G20, la Wto (l’Organizzazione mondiale del commercio) dice che tra metà ottobre 2015 e metà maggio 2016 le venti maggiori economie hanno introdotto 145 misure restrittive del commercio con l’estero, in media 21 al mese. Lo stesso G20 aveva, nel 2009, preso l’impegno di agire affinché la risposta alla Grande Crisi non fosse del tipo di quella disastrosa che si ebbe negli anni Trenta, cioè l’imposizione di politiche mercantiliste e protezioniste: il risultato — calcola sempre la Wto — è che da allora a oggi hanno preso 1.583 misure restrittive, solo un quarto delle quali sono state rimosse (tre quarti sono di fatto diventate parte della normale politica economica): toccano il 6% delle importazioni del G20 e il 5% di quelle mondiali.
Il commercio internazionale è una materia complicata. I Paesi e i blocchi di Paesi si danno regole di ogni genere. Mossi alcuni dall’ideologia, tutti dalle lobby nazionali, parecchi da entrambe, hanno creato nei decenni una rete di dazi e di barriere vastissima: per averne idea, moltiplichiamo ad esempio per migliaia di volte il diverso trattamento alle dogane di uno stesso iPhone. Ma hanno anche fatto accordi per favorire un Paese rispetto a un altro. La Politica agricola comunitaria, per esempio, è un esempio di grande distorsione degli scambi che colpisce soprattutto i Paesi esportatori più poveri: i sussidi alle campagne europee sono stati e ancora sono una barriera alle importazioni nella Ue. Per attenuarne gli effetti, Bruxelles ha firmato una serie di accordi preferenziali con alcuni gruppi di Paesi, per esempio stabilendo differenze di dazi sull’import di banane (e altro): un modo per aiutare le regioni più povere del mondo ma di fatto anche un modo per discriminare tra Paesi, un varco nel quale la politica spesso ha la meglio sul commercio amichevole, di solo interesse economico.
Altre misure, in tutto il mondo, sono spesso giustificate con la necessità di garantire la salute, di rispettare l’ambiente, di difendere i diritti dei lavoratori, di fermare il dumping di altri. In gran parte dei casi, misure che coprono scelte di difesa delle imprese domestiche: protezionismo «non tariffario» per cercare di aggirare le regole della Wto che lo vietano. In uno studio del 2013, la Confindustria ha notato la moltiplicazione di misure prese nel mondo che colpiscono l’export italiano: «Licenze d’importazione, adempimenti amministrativi e burocratici gravosi, controlli restrittivi sulle merci, requisiti più severi per le certificazioni, blocchi o contingentamenti delle importazioni, imposizione di regolamenti burocratici e regolamenti sanitari restrittivi». Per non parlare delle limitazioni alla circolazione dei servizi e agli investimenti e dell’ostracismo alle imprese straniere quando si viene agli appalti pubblici.
Anche nel mercato unico della Ue. Succede, per dire, che in una gara di appalto che coinvolge opere d’ingegneria la Francia applichi una regola nuova sulla sicurezza: guarda caso, l’offerente francese già la rispetta mentre quello tedesco o italiano deve investire parecchio per avere le carte in regola. Allo stesso modo, misure distorsive al commercio e alla concorrenza tra Paesi sono gli incentivi nazionali di settore: quando la Germania sovvenziona l’auto elettrica, di fatto distorce il mercato. L’Italia non è da meno. Un mondo di intrecci complicatissimi, insomma.
Dalla fine della Seconda guerra mondiale, i Paesi capitalisti hanno molto semplificato il sistema, hanno abbassato drasticamente i dazi e gli ostacoli agli scambi, soprattutto attraverso i negoziati del Gatt, General agreement on tariffs and trade. Probabilmente, si è trattato del più importante motore di crescita economica e di creazione del benessere in Occidente nel dopoguerra. Al disfacimento del blocco sovietico e in parallelo alla straordinaria crescita della Cina e dell’Asia, le regole di liberalizzazione sono via via state adottate, in misure diverse, da gran parte degli altri Paesi. Con grandi benefici anche per essi, soprattutto in termini di riduzione della povertà.
Il processo di semplificazione della ragnatela di regole che ostacolano il libero commercio si è però fermato e ha invertito la marcia soprattutto per due ragioni: la crisi del 2008 e il ritorno della geopolitica a dominare gli affari internazionali.
Se il problema fosse un semplice protezionismo mosso dall’intenzione (errata) di difendere le proprie industrie nazionali, probabilmente sarebbe risolvibile. È vero che, nella sua marcia degli scorsi trent’anni, la globalizzazione ha penalizzato settori sociali in Occidente, ha provocato chiusure di aziende e in molti casi salari più bassi. Nel complesso, però, ha creato enorme ricchezza: per i Paesi emergenti ma anche per quelli avanzati, dove il problema è piuttosto quello di un cattivo funzionamento dei mercati del lavoro che distorce la distribuzione dei benefici. Questa creazione di ricchezza, tra le maggiori della storia, è stata possibile perché la globalizzazione è una realtà win-win, che crea un aumento generale del livello di benessere, una marea che alza tutte le barche. Se fosse solo questione economica, l’interesse comune spingerebbe a superarla. Il problema è il ruolo sempre maggiore della geopolitica.
Nei primi quarant’anni del dopoguerra, tra i Paesi occidentali vigeva la regola multilaterale: i dazi e le barriere scendevano allo stesso modo per tutti (gli aderenti al Gatt), per non creare discriminazioni e frizioni tra amici. Per i 10-15 anni seguiti alla caduta dell’Unione Sovietica, la tendenza si è affermata anche tra altri Paesi: tempo di pace, nessuno è nemico, mondo piatto, globalizzazione. Poi, l’ingranaggio si è bloccato. Il grande negoziato multilaterale chiamato Doha Round e lanciato nel 2001 sotto il cappello della Wto è fallito, i Paesi si sono dedicati sempre più a cercare accordi bilaterali o tra blocchi che escludono gli altri, dietro la giustificazione che è meglio liberalizzare tra pochi che non liberalizzare affatto.
La realtà è che in questo modo il commercio internazionale diventa uno strumento di imposizione invece che di condivisione, dove il più forte vince a scapito dell’altro, dove le superpotenze in gara per la supremazia usano gli accordi commerciali come accordi di dominio. Con due effetti: da strumento di pace e convivenza, gli scambi evolvono in mezzi di divisione; e quello che era un metodo win-win diventa un gioco a somma zero, dove quel che guadagna l’uno perde l’altro. Questo è quel che succede nel regno delle divisioni geopolitiche.
I due grandi negoziati commerciali in corso, guidati dall’America — il Ttp nel bacino del Pacifico e il Ttip tra le due sponde dell’Atlantico — sono figli di questa nuova realtà, della crisi della globalizzazione e della difficoltà dell’approccio multilaterale. È l’Occidente che tenta di difendersi dall’emergere della Cina, dall’involuzione della Russia di Putin, dal disordine globale. Per ora senza grandi successi. Jagdish Bhagwati della Columbia University, forse la maggiore autorità al mondo in fatto di commercio internazionale, dice che per un po’ di tempo gli scambi globali avranno problemi. Poi — ecco la geopolitica — avrà la meglio una delle due superpotenze economiche, America o Cina: stabilirà nuove regole e il resto del mondo seguirà. Lo Zimbabwe ha già scelto da che parte stare.