Stefano Bucci, La Lettura 18/9/2016, 18 settembre 2016
FRANCESCO CLEMENTE: «CANTO EROI CATTIVI E DIFFICILI» – «Che bello poter parlare finalmente di letteratura e non più solo di arte!»
FRANCESCO CLEMENTE: «CANTO EROI CATTIVI E DIFFICILI» – «Che bello poter parlare finalmente di letteratura e non più solo di arte!». Fa una certa impressione che a pronunciare queste parole sia Francesco Clemente, secondo gli americani «l’artista italiano vivente più celebre del mondo» (Untitled, un suo olio su tela del 1991 era stato venduto nel 2010 da Christie’s New York per 146.500 dollari), protagonista fino al 13 novembre della mostra After Omeros nel Coro della Chiesa della Maddalena di Alba, quinto appuntamento con l’arte della famiglia Ceretto, ancora una volta curato dal critico Bill Katz. Lo scorso anno per Kiki Smith erano passati da quello stesso Coro oltre 20 mila visitatori. Prima ancora era toccato a Ellsworth Kelly e ad Anselm Kiefer. La letteratura si addice da sempre a Clemente che, alla fine degli anni Settanta, è stato uno dei giovani protagonisti di quella Transavanguardia (con Sandro Chia, Enzo Cucchi, Nicola De Maria, Mimmo Paladino e con Achille Bonito Oliva come critico) che aveva prima dichiarato morta e poi con successo risuscitata, pittura compresa. Una vera e propria provocazione, la sua, il cercare continuamente la propria ispirazione nella parola scritta, piuttosto che nel gesto tracciato o dipinto: «L’America che sognavo quando mi sono trasferito a New York all’inizio degli anni Ottanta — racconta a “la Lettura” — era quella dei poeti, degli scrittori, dei filosofi. Come Henry David Thoreau, Ralph Waldo Emerson e Walt Whitman». Ma ci sarà pure un artista americano che le viene in mente in questo momento? «Cy Twombly. Ma non in America, piuttosto quando camminava per i marciapiedi di Roma, un simbolo enorme per tutti noi che volevano essere artisti». Le due installazioni (i grandi vasi e la barca con i versi incisi) e i 41 acquerelli (coloratissimi, essenziali, quasi sempre stagliati su uno sfondo bianco) sono un omaggio evidente e dichiarato al Premio Nobel caraibico Derek Walcott e al suo poema epico «Omeros». Pubblicato nel 1990 (uscito in Italia per Adelphi), ridava vita al mito di Ulisse, ambientandolo ai giorni nostri e collocandolo nell’Oceano Atlantico, piuttosto che nell’Egeo. Dunque ancora una volta un’ispirazione che arriva direttamente dalla letteratura. Come e quando è nata questa fascinazione? «Potrei dire che Omeros mi ossessiona da sempre — ammette Clemente con quella voce flebile ma decisa, mentre la sua barba bianco-grigia accarezza uno degli scranni di noce del Coro settecentesco che ha letteralmente invaso con i suoi lavori — ma Walcott mi intimoriva moltissimo. Poi, alla fine del 2009, ho deciso di rischiare e di chiedergli di scrivere qualcosa per una mia raccolta di acquerelli. Anche se non ero sicuro che avrebbe accettato». Perché? «Pensavo che la mia pittura proprio non gli piacesse. Pensavo che avrebbe trovato bruttissimi i miei acquerelli, così semplici e lontani da quelli, minuziosi, che lui amava dipingere. Comunque ho deciso che valeva la pena di provarci, perché io sono sempre alla ricerca di eroi, di qualcuno da ammirare ed è per me molto meglio quando l’eroe è qualcuno di cattivo e di difficile. Come Walcott appunto». Come è finita? «Che Walcott ha scritto quell’introduzione. Insomma, si è convertito anche se, forse, i miei acquerelli hanno continuato a non piacergli più di tanto». E a Francesco Clemente cosa è piaciuto di Omeros? «Che i Caraibi che fanno da scenario alla storia di Odisseo siano molto migliori della realtà. Perché l’arte, quella di Walcott come la mia, deve sempre essere capace di “ri-velare” la realtà, magari migliorandola. Altrimenti non mi piace, non serve». Per mettere in scena il poema epico di Walcott e quello che, nella presentazione della mostra, ha definito «il suo racconto del naufragio della Storia» ha scelto una serie di simboli già molto presenti nel suo immaginario: la barca, la «Vanitas», le iscrizioni romane, le sagome femminili e quelle degli animali. Come mai non ha pensato a qualcosa di nuovo? «Mi piacciono i luoghi comuni. Il mio lavoro racconta la realtà ed è quindi un “luogo” ed è “comune”, perché con il mio stesso lavoro voglio ricreare un senso di comunità. D’altra parte l’arte oggi è rimasta l’unica cosa ancora capace di fare da “colla” alla pressione capitalistica sulla società». Per questo ama tanto l’India (Varanasi in particolare), dove vive buona parte dell’anno e dove si appresta a tornare? «L’India, ma anche la Cina e in fondo tutta l’Asia, sono realtà dove almeno una volta al giorno puoi sentirti cancellato. Questo, di quei mondi, mi ha sempre affascinato e continua ad affascinarmi». Dell’Italia che cosa pensa? «Che non dovremmo vederla al nostro microscopio di italiani. Dovremmo vederla da fuori, come se fossimo anche noi stranieri. Solo così possiamo capire tutto il nostro reale valore e quanto abbiamo fatto bene. Pensi solo all’inquinamento della Cina rispetto a quello, in fondo minimo, del nostro territorio. Il problema degli italiani è che siamo così estranei l’uno all’altro e che le nostre nature sono veramente diverse. Ha presente la scenetta di Totò in treno, quando dice al suo compagno di viaggio pugliese: “Si ricordi che siamo all’estero”?». Nel 2012 ha dipinto il Drappellone del Palio di Siena, la stessa città che ospita, fino all’inizio di ottobre, una delle sue mostre del 2016, «una mostra semplice e calma» la definisce lei. Come è stato lavorare in una realtà così unica, ma anche difficile, come quella di Siena? «Bellissimo e appassionante. A un certo punto mi sono addirittura chiesto perché io, che sono sempre stato affascinato dal mito, dall’immaginario e dalla folla, invece di andare in India, non sono andato a Siena. Avrei trovato tutto quello che cercavo e che mi era sembrato di poter trovare solo laggiù». Poi c’è New York... «Quando mi sono trasferito, New York era una città alla bancarotta. C’era il terribile fantasma dell’Aids che aleggiava e sotto la 14ª Strada nessuno si azzardava a vivere, era pericoloso, ci vivevano solo artisti, ballerini, musicisti. Vicino al mio studio, ad esempio, c’era quello di Robert Mapplethorpe. Ma la stessa crisi mi ha anche permesso di avere qui opportunità che altrimenti non avrei mai potuto avere, perché viverci era diventato meno caro». E ci sono stati Warhol e la Factory. «Per me sono stati anni fondamentali. Peccato che oggi ci si dimentichi di quanto sia stato importante il lavoro artistico di Warhol, la fisicità incredibile di quelle opere che sono quasi oggetti di design...». Gli Stati Uniti stanno per scegliere il loro nuovo presidente... «La vittoria di Trump sarebbe una sconfitta devastante, molto, davvero molto peggio di quello che possiamo immaginare. Anche perché quell’America che lui dice di rappresentare non esiste più. Certo, il diavolo può pur sempre metterci la coda, come ha fatto pochi giorni fa con la Clinton». Lei è stato definito dagli americani l’«artista italiano vivente più celebre al mondo». Che cosa pensa degli altri suoi «colleghi»? «Su questo argomento non mi toglierà una parola di più dalla bocca. Neppure se provasse a usare le tenaglie». Perché, scusi? «Io la penso come Rilke: l’arte non può essere mai una professione. Io lavoro per stabilire e portare avanti una mia tematica narrativa e non pensando alle ragioni del mercato. O, peggio ancora, pensando di fare qualcosa “a favore” o “contro” qualcun altro. Oltretutto, parlandone male, farei il gioco del mio nemico, perché lo renderei più forte. D’altra parte il 99% del mondo intero non mi piace, ma non per questo ne parlo male». Non le sembra di essere crudele dicendo che il 99% del mondo non le piace? «Lei trova? Io, invece, credo solo di essere cosciente di quello che mi succede intorno. In fondo, il mio vero, grande sogno sarebbe quello di avere e di dare buone notizie».