Furio Colombo, Il Fatto Quotidiano 20/9/2016, 20 settembre 2016
IL 1963 E UN MONDO DA COSTRUIRE, CON GLI OCCHI DI EDWARD ALBEE
La carriera di Edward Albee (come principale scrittore di teatro americano, ndr) è cominciata subito dopo la morte di Eugene O’Neill e dopo che Arthur Miller e Tennessee Williams avevano già prodotto le loro opere più importanti. È accaduto quando nel 1959, a Berlino, The Zoo Story di Albee è stata presentata insieme a Krapp’s Last Tape di Samuel Beckett. “Due atti unici, uno celebre e uno ignoto”, scrive Bruce Weber sul Nyt, e “per Albee è stato un bang”. (18 settembre).
A me, nel libro che ho scritto nel 1963 su di lui e su altri giovani protagonisti del Nuovo Teatro Americano (Bompiani), Albee aveva detto: “È stato un caso. Avevano bisogno di un altro atto unico e hanno scelto il mio. Puro caso”.
Eravamo nella sua casa, una sola una stanza, nella Dodicesima Avenue (a quel tempo la Battery non era stata rinnovata e allargata, e il quartiere era piuttosto malandato).
La sua stanza, a parte una brandina ordinatissima coperta da cuscini da ufficio per sembrare un divano, era costituita da un tavolo da cucina, stretto e lungo sul quale le carte era distribuite con estremo ordine. Di fronte alla sua sedia una cartellina chiusa, con le matite accanto. Il titolo in stampatello era scritto con molta cura: La morte di Bessie Smith. Accanto c’erano i due copioni delle sole due opere già presentate nella sua giovanissima vita, The Zoo Story e American Dream. A destra un pacco ordinatissimo di carte. Le ha sfogliate: tutto scritto a mano. Albee ascoltava, e non parlava di se stesso, se non per spiegare “il poco” che, fino a quel momento, aveva fatto.
Ho dovuto chiedergli di quel pacco e lui, evitando i sotterfugi tipici degli autori, mi ha detto subito il titolo: Chi ha paura di Virgina Woolf?.
Sapeva degli altri autori a cui stavo lavorando, li conosceva, ne stimava molto uno, Arnold Weinstein, ma era un po’ stupito che volessi i diritti per pubblicare La morte di Bessie Smith nella mia antologia, piuttosto di Zoo Story che stava diventando in Europa il nuovo teatro americano.
Per me c’erano ragioni che lui ha ascoltato senza obiezione o consenso. “Bessie Smith – sono io che parlo – è una celebre cantante vittima di un grave incidente stradale. Può essere salvata se si interviene subito, e si può fare. Ma Bessie Smith è nera e l’hanno portata in un ospedale bianco. Deve essere trasferita subito nell’ospedale dei neri, che dista 60 chilometri. La celebre cantante muore durante il viaggio. È una storia vera, semplice, esemplare della tragedia con cui l’America si sta confrontando”.
Ho offerto 50 dollari per i diritti di traduzione e pubblicazione (era quello che avevo) di Bessie Smith e lui ha spinto la cartellina con le pagine di Bessie verso di me.
Avevamo la stessa età, eravamo la stessa generazione, guardavamo la vita pubblica con gli stessi occhi, e non avevamo alcuna ragione di non avere fiducia reciproca. “Non si tratta di inventare un nuovo linguaggio e di giocare sulla stranezza. Non si tratta (non si tratta più) di teatro dell’assurdo costruito in quanto tale.
Niente è più assurdo di una conversazione fra persone rispettabili, e di un discorso politico così come lo ascolti adesso”. Cito parole sue che ho trascritto allora, per il mio Nuovo Teatro Americano. Cito l’invenzione del suo senso del realismo usato con cura e precisione per proclamare modi di vita apparentemente normalissimi e, in realtà, senza deformazioni deliberate, totalmente folli. Chi ha paura di Virginia Woolf, il suo capolavoro, era già nelle mani di grandi produttori quando ho avuto le prime pagine, ed era già irraggiungibile. È stato bello assistere alle prime letture di Richard Burton ed Elizabeth Taylor per il celebre film di Nichols tratto dalla commedia. È stata straordinaria la bravura con cui il grande regista americano ha colto il senso, tutto di Albee, della realtà come perfetta costruzione di perfetta normalità e di completa follia in cui i frammenti dell’uno e dell’altro mondo si corrispondono con impeccabile simmetria e persino una certa apparente eleganza, che diventa, per esempio, raffinata e poetica in Tre donne alte. Sono la stessa donna-madre e padrona di un’autobiografica infanzia adottiva, in tre fasi della vita, e sono il punto di vista del figlio che qui è nato e si confronta con quello non nato di Virginia Woolf.
Da allora c’è stato un lungo filo che non si è mai interrotto, sia pure a distanza di anni e di luoghi.
Come ai tempi del malandato Teatro York, di Washington Square, dove ho visto la prima volta Zoo Story, e dove lui ha continuato a presentare il suo lavoro nei primi anni (salvo un celebrato passaggio al Provincetown Theatre), ci vedevamo quasi sempre alle prove di un suo nuovo spettacolo. L’altroieri ha chiuso il sipario. Ma teatro, letteratura, e il grande gioco delle parole, a causa sua, sono diversi. E forse anche la rappresentazione e interpretazione degli altri, fuori dalla scena.