di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 18/9/2016, 18 settembre 2016
“PARLO POCO, SCRIVO MOLTO: FACCIO UN MESTIERE CONTRARIO ALLA MIA NATURA” – [Intervista a Kim Rossi Stuart] – Tommaso vorrebbe aprire lo scrigno, ma non trova la chiave
“PARLO POCO, SCRIVO MOLTO: FACCIO UN MESTIERE CONTRARIO ALLA MIA NATURA” – [Intervista a Kim Rossi Stuart] – Tommaso vorrebbe aprire lo scrigno, ma non trova la chiave. Tommaso è un alfiere della raccolta differenziata, ma si sente un rifiuto e la differenza tra luce e buio non la vede più. Tommaso fugge da legami e responsabilità senza voltarsi indietro e, mentre corre, ha il dubbio di scappare soprattutto da se stesso. Prodotto da Carlo degli Esposti per Palomar e presentato a Venezia, Tommaso è il titolo del secondo (bellissimo) film diretto da Kim Rossi Stuart, 47 anni tra un mese, regista e attore con la bussola da sempre orientata in direzione del coraggio: “Il mio protagonista si avvita su se stesso ed è intrappolato in tante ambivalenze che non sa codificare. Le affronta con un dolore e una sofferenza alleviati dal sorriso. Volevo guardare alle nevrosi, alla solitudine e agli aspetti tragicomici di un 40enne in crisi con ironia e autoironia”. Il pubblico, dice Rossi Stuart, ha capito: “Ho visto Tommaso in sala e mi sono reso conto di come, nonostante la forte vocazione introspettiva del racconto, gli spettatori sapessero leggere la storia in profondità. Introspezione non significa elitarismo. Mi interessa raggiungere il più vasto numero di persone possibili non perché ambisca al successo fine a se stesso, ma proprio perché giro film con l’idea di condividere con gli altri qualcosa di importante”. Tommaso arriva a 10 anni da Anche libero va bene. È passato molto tempo, ma io penso che il tempo – se ben speso – non sia mai tempo perso. In questi anni mi sono dedicato ad altro: alla mia compagna, a mio figlio, alla mia vita. Ho ricevuto tante proposte e le ho rifiutate perché volevo girare proprio Tommaso. Desideravo realizzarlo pur essendo consapevole che il mio è un cinema in controtendenza. E quale sarebbe la tendenza dominante? Rispetto all’epoca di Anche libero va bene è cambiato tutto. Il gusto e anche il mercato. La tendenza è quella di fare dei film di svago e di puro intrattenimento. Da lì mi pare non si esca. È un quadro che non le piace? Non ho nulla contro l’intrattenimento e dico di più: penso sia giusto conservi una fetta predominante del mercato. Ma l’intrattenimento che satura ogni spazio mi provoca un po’ di malinconia. Mi sembra che siamo tutti in cerca di un’alterazione, di una droga, di un benessere fittizio che suggerisce, nel mondo reale come al cinema, di non guardare in faccia i problemi. La critica non è stata sempre benevola. La critica è un esercizio di difficile obiettività. Nel frullatore di un Festival poi, i critici hanno le loro giustificazioni. Vedono 5 film al giorno, non sempre si ha il tempo di capire e analizzare. Più in là dei parallelismi con Moretti e Allen, qualcuno l’ha accusata di voler interpretare un ruolo che sarebbe stato più saggio affidare a un altro attore. Ho letto di tutto. I paragoni con Moretti e Allen, certo, ma anche quelli con Fellini. Se proprio devo eleggere un modello penso a Troisi, alla sua sincerità e al suo desiderio di mettersi in discussione. Tommaso è stato scambiato per un film egocentrico, ma io credo che la vera rivoluzione oggi sia proprio quella: l’autoanalisi, più che il film di denuncia. Il guardarsi dentro, più che l’urlo indignato spesso sterile e autocompiaciuto. Niente filiazioni nannimorettiane, quindi. Da alcuni critici, il paragone con Moretti è stato brandito come una clava allo scopo di abbattere il film. Ma ho il sospetto che i parallelismi siano una maniera puerile per liquidare un ragionamento. Dire che con Tommaso abbia scimmiottato qualcosa o qualcuno mi sembra una sciocchezza. Se c’è un film che ha la pretesa di essere personale è proprio questo. Con i capelli biondissimi, a 5 anni, lei è già sul set di Fatti di gente perbene di Bolognini. Alcune immagini della mia infanzia sono chiarissime e circostanziate. Del set di Bolognini ricordo soprattutto Catherine Deneuve. Bella, anzi molto bella. Abbastanza divina, non particolarmente calda o accogliente. Lei di Deneuve interpretava il figlio. Ero a bordo di un treno e avrei dovuto fare la comparsa. Mi misero un vestito di scena e poi mi dimenticarono. Mi addormentai e a qualcuno venne in mente di mettermi in braccio a Catherine. Girarono una scena e mi incastrarono. O forse è meglio dire si incastrarono da soli. In che senso? Che a quel punto ero nel film. E avrei dovuto girare molte altre scene. Non volevo saperne. Fu una lotta. Per convincermi a recitare, Bolognini mi corrompeva con dei cioccolatini. Di quell’esperienza ricordo un’altra cosa. Una circostanza sulla quale poi sono tornato a riflettere. Quale? Ero seduto e a un tratto alle mie spalle vidi un fotografo, un amico di mio padre, Mimmo Cattarinich. Notai che mi stava osservando e che forse voleva fotografarmi. Mi paralizzai. Rimasi impietrito per un quarto d’ora pensando che lui fosse ancora lì e poi mi voltai. Non c’era più. Freudianamente qualcosa vorrà pur dire. Che cosa secondo lei? Che è strano, ma ho intrapreso un mestiere davvero contro la mia natura. Un lavoro in cui devo stare al centro dell’attenzione, una cosa che per me è stata sempre molto complicata. Lei passa per essere attento, concentrato, quasi maniacale. È una definizione corretta? Correttissima, ahimè. Sono sempre stato così e credo dipenda da un paio di cose. Da quali? La prima è legata alla mia radicalità. Più vado avanti e più avverto di dover realizzare progetti che abbiano alla base un criterio etico. Ogni tanto vorrebbe essere meno radicale? Cerco di accettarmi (Sorride). E la seconda ragione legata alla maniacalità lavorativa? Avendo attraversato anni in cui il tema del denaro era un’urgenza e i soldi pochissimi, ho iniziato a lavorare presto sapendo che avrei dovuto puntare tutto sul mio mestiere. Sotto il culo avevo un motorino acceso e nella testa un pensiero ricorrente. Quale? ‘Se non vuoi finire sotto un ponte sarà bene che quagli qualcosa’. Prima ha citato suo padre, Giacomo Rossi Stuart, attore. Sarebbe stato un perfetto Don Chisciotte e Don Chisciotte e i soldi sono sempre stati due mondi inconciliabili. Era un idealista, mio padre. Vivevamo fuori dalla città, tra Campagnano e Mazzano Romano, accanto ai teatri di posa di Monte Gelato. Lui non era fatto per restare nella vita sociale, non aveva una mente imprenditoriale e al denaro, mai ben gestito, dava un’importanza men che relativa. Con lui ha avuto un bel rapporto? Bello, ma anche molto difficile. Il nostro è stato un grande amore, ma è stato un amore complicato. Giacomo fu protagonista o attore di seconda fila in più di 80 film. Film che conosco poco. Diciamoci la verità: mio padre ha partecipato a qualche avventura interessante, ma anche a tanti B movies irrilevanti. Quel che più conta, da figlio, è che non lo sentivo comodo nei panni dell’attore. Quando mi capita di rivederlo, noto quel disagio e come è ovvio non mi fa piacere. Alla fine smise. Un po’ perché il mestiere di attore non glielo facevano più fare, un po’ perché la sua misantropia lo aveva portato altrove. Amava i cavalli, le stalle e la natura più di quanto non amasse le persone. All’umanità preferiva il rapporto con gli animali. La campagna in cui abitavamo e in cui accoglievamo cani randagi provenienti da ogni dove era molto selvaggia. Cosa le ha insegnato suo padre? La libertà e l’autonomia. A raccontarlo oggi sembra assurdo, ma per raggiungere Roma da Mazzano, facevo l’autostop già a 12 anni. Una volta a bordo incontravo chiunque, senza mai avvertire il senso del pericolo. E a Roma cosa andava a fare? In piscina, a giocare a calcio, oppure a qualche corso di teatro. Una volta, facendo l’autostop sul Gra mi caricò su Pietro Valsecchi. Il produttore – tra le altre cose – dei film di Zalone. Allora Pietro faceva soltanto l’aiuto regista. Si fermò, mi fece salire e poi si girò di scatto: ‘Ma lo sai che hai una bella faccia? Lo faresti un provino per la tv?’. È iniziata così. Lei studiava già teatro? Cominciai poco dopo, in una scuola chiamata La scaletta. C’erano ragazzi tra i 20 e i 30 anni e in mezzo a loro, ero un po’ la mascotte. Da squattrinato militante del metodo Stanislavskij provai persino a rubare un libro in una libreria Rizzoli. Come andò? Mi presentai ingenuo dai commessi che all’epoca – austeri – vestivano rigorosamente in giacca e cravatta. Chiesi come un pirla il prezzo de Il lavoro dell’attore su se stesso e avendolo valutato eccessivo per le mie tasche, ma non riuscendo a dissimulare la bava alla bocca, me lo infilai goffamente sotto la camicia. Andai in cassa con un minuscolo volume a mo’ di specchietto per le allodole e mi beccarono. ‘Paga quel che hai preso e posa subito il resto’. Mi vergognai molto e mi diedi alla fuga. Adolescenza non comune. Nulla rispetto alla follia del viaggio messo in piedi per raggiungere l’Actors Studio di New York. Un’avventura da Giovane Holden affrontata a 15 anni, con i primi soldi guadagnati da una fiction e 1.000 dollari in tasca. Puntai – chissà perché – a un volo della Swiss Air: acquistai il biglietto e una volta allacciate le cinture, esercitai il mio inglese modestissimo sul menu di bordo. La prima parola che imparai forse fu shrimp, gamberetto. E a New York cosa accadde? In America rimasi in tutto tre mesi. Nei primi tempi dormii da un pittore greco, un omosessuale conosciuto a Roma durante una gita con mia zia che di mestiere faceva la guida turistica. Telefonai al greco: ‘I’m Kim, do you remember?’. Si ricordava e mi ospitò con grande rispetto e generosità. Dopo qualche giorno mi invitò a trovarmi un’altra sistemazione e finii in un seminterrato infestato da giganteschi ratti nell’East Village. Prima di tornare in Italia feci in tempo a lavorare in un maneggio in Pennsylvania e ad assistere a un paio di lezioni all’Actors Studio. Come uditore vidi una lezione di Shelley Winters e una di Al Pacino, poi i soldi finirono e con i soldi anche il viaggio. Una volta tornato in Italia? Ripartii quasi subito per le Filippine per girare Il ragazzo dal Kimono d’oro, un B movie italiano, la copia di Karate Kid. Andare verso l’ignoto non mi spaventava allora e non mi fa paura neanche oggi. È l’eredità dei miei genitori, la strada. Ed è un’eredità a cui sono molto attaccato. Cosa sono i soldi per lei? La lezione che ho tratto dalla vita è che le cose sono belle se te le guadagni. Il denaro serve a togliersi qualche piccolo sfizio, ma dell’accumulo indiscriminato e del maledetto profitto che manda a rotoli rapporti umani, identità e intere società, non mi è mai importato nulla. Dopo Fantaghirò, da ragazzo, mi offrirono soldi a palate per recitare in fiction di ogni genere. Dissi di no. E mi fermai. Poi arrivò Alessandro D’Alatri, mi offrì Senza Pelle e il mio percorso cambiò. Ha mai litigato con un regista? Ho litigato, sì. La cosa che mi ha fatto incazzare con i registi – quando è accaduto e non è accaduto molte volte – è quando chi ti dirige pensa di gestirti come un qualcosa di inanimato: “Stai lì, aspetta tre secondi, poi fai questo”. Una dinamica che mi fa impazzire. Come passava il tempo da ragazzo, per strada o in campagna? Camminavo, pensavo, giocavo con gli amici e stavo molto da solo perché annoiarsi e stare con se stessi è importante, anche nella noia. Ho avuto anche qualche esperienza pesante con la droga nell’adolescenza, ma per fortuna ero così orgoglioso della mia indipendenza che delle dipendenze non sono mai stato schiavo e mi sono liberato in fretta. Era violento? Tutt’altro. Una volta un mio compagno di squadra mi tirò un pugno così forte che pensai a un errore. Risposi con un uppercut dolcissimo, quasi mimato e mi accorsi che lui non giocava affatto. ‘Ma che succede?’, gli dissi e lo invitai a colpire ancora: ‘Dammene un altro per favore’. Non capivo l’origine di quel rancore e volevo vedere fino a che punto fosse profondo. A un certo punto smisi di chiedermi il perché e intuii che mi voleva uccidere. Allora mi difesi. E lottammo. Non ha raccontato spesso queste cose. Non vedo perché avrei dovuto. Le resistenze caratteriali mi rendono la conversazione più faticosa, mi sento meno sicuro di me. Non credo di essere bravo a parlare e mi sento più abile a esprimermi con altri mezzi. Da ragazzo era introverso. Oggi? Meno di quanto non fossi ieri, ma in generale non credo che un attore, una figura che dovrebbe restare magica e misteriosa, dovrebbe parlare tanto. Fosse per me comunicherei soltanto attraverso i film. Parlo per paradosso e parlo di un mondo che ovviamente non esiste, ma se potessi sceglierei di rispondere alle interviste sempre in forma scritta. Sulla carta riesco a dire quello che voglio veramente. Facciamo un giochetto? Posso parlare solo da regista pur essendo anche attore? È libero. Allora, da regista, mi sembra che da molti anni gli attori siano utilizzati da un sistema che per promuovere un film li spiattella ovunque, li usa in modo surreale e li strizza come limoni. Da regista ho un desiderio: restituire agli attori un po’ del mistero di cui le parlavo prima. Ricorda il grave incidente in moto del 2005? Ho due tibie che si sono faticosamente rinsaldate e – se escludo i sei minuti in cui svenni – tutti i miei ricordi. Una persona si immise sulla mia stessa strada con la macchina per fare inversione e vedendomi arrivare fu incapace di reagire. Io andavo abbastanza veloce. Lui restò fermo. Io gli finii addosso. Tecnicamente lei è un sopravvissuto. Mi sono sentito un sopravvissuto tante volte e ho sempre spinto all’estremo il mio desiderio di crescere. Quando il conscio non comprende, l’inconscio esce e ti fa rompere il quadro come accade anche in Tommaso. Ma lei in moto va ancora? Io vengo dall’equitazione. Si cade e si risale. Poi si riparte. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 18/9/2016