di Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 17/9/2016, 17 settembre 2016
L’ULTIMO PRESIDENTE CHE HA SAPUTO DIRE NO
Siccome in Italia quando si nasce si è tutti belli e quando si muore si è tutti buoni, il miglior modo per onorare il presidente Carlo Azeglio Ciampi è quello di parlarne come se fosse vivo. Non tutto nel suo anno di governo e nei sette di Quirinale, diversamente dalla sua lunga e specchiata militanza alla Banca d’Italia, fu perfetto. Nel 1993 il suo governo, probabilmente a sua insaputa, revocò per la firma del ministro Giovanni Conso il 41-bis a 300 e passa mafiosi nel pieno della trattativa Stato-mafia. E l’inizio della sua presidenza fu contrassegnato da un eccesso di condiscendenza verso i soprusi di B., come gli rinfacciò un intellettuale libero e coraggioso come Antonio Tabucchi sull’Unità di Colombo e Padellaro: la moral suasion con cui Ciampi s’illuse di fronteggiare – a botte di felpati fervorini – l’indecente guerra del Cavaliere alla Costituzione e alla legalità fu un atto di debolezza che autorizzò il Caimano a caimanizzarsi vieppiù.
Il solo “no” alla nomina a guardasigilli di Roberto Maroni, condannato per aver picchiato un poliziotto e dirottato al Welfare, seguito dall’avallo alla legge sulle rogatorie, alla depenalizzazione strisciante del falso in bilancio, allo scudo fiscale, alla Cirami e alla burla Frattini sul conflitto d’interessi lasciarono gli italiani onesti con l’amaro in bocca, almeno nella prima fase della sua presidenza. Soprattutto al confronto con il predecessore Oscar Luigi Scalfaro, inflessibile difensore della Costituzione.
Ma nel 2003 anche Ciampi dovette cambiare registro, avendo capito che la moral suasion, con l’immoral premier, era inutile, anzi dannosa per il Paese. E allora respinse alcune delle leggi più infami: la Gasparri sulle tv, la Castelli sull’ordinamento giudiziario e la Pecorella che aboliva l’appello del pm contro le assoluzioni (ma non quello delle difese contro le condanne), anche se lasciò passare altre vergogne come la Bossi-Fini, la controriforma costituzionale della Devolution, il lodo Schifani, l’ex Cirielli e le guerre in Afghanistan e Iraq. Ma quei pochi No bastarono a fare di lui, come di Scalfaro, un nemico da abbattere, un “ribaltonista”, un “comunista mascherato”: gli house organ di Arcore e dintorni estrassero dossier pronti da tempo (sugli affari del figlio e sull’operazione Telekom Serbia, cioè il discusso e discutibile acquisto della compagnia telefonica di Milosevic ai tempi del primo governo Prodi, quando Ciampi era al Tesoro).
Qualcuno disse, noi compresi: troppo poco e troppo tardi. Ma solo perché non avevamo ancora visto all’opera il suo successore Giorgio Napolitano. Che firmò tutte le nuove leggi vergogna di B., con la decisiva motivazione che, respingendole, gli verrebbero comunque ripresentate uguali e a quel punto dovrebbe promulgarle.
Quando, nel 2009, Napolitano avallò anche il terzo scudo fiscale, Ciampi, ormai senatore a vita, gli rammentò che “se una legge non va, non si firma. Non si deve usare come argomento che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura per lanciare un segnale forte a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica”. Parole che naturalmente caddero nel vuoto. Come le sue ultime volontà dettate a un collaboratore nel 2006, poco prima di lasciare il Quirinale: “I costituenti hanno previsto un periodo di sette anni perché fosse abbastanza lungo da escludere la rielezione”, che “mal si confà alle caratteristiche proprie della forma repubblicana del nostro Stato”. Parola dell’ultimo presidente della Repubblica prima del ritorno del Re e dell’arrivo dell’Afono. A sapere prima chi sarebbe venuto dopo, forse anche Tabucchi, con Ciampi, sarebbe stato più comprensivo. Mai dimenticare la storiella di quel baritono che, subissato di fischi dal loggione della Scala, così apostrofò i suoi contestatori: “Fischiate me? Sentirete il tenore!”.
di Marco Travaglio, il Fatto Quotidiano 17/9/2016