VARIE, 17 settembre 2016
ALTRO SU CLINTON E TRUMP
GIUSEPPE SARCINA, CORRIERE DELLA SERA 16/9 –
Dai valori del colesterolo, alto, alle percentuali dei sondaggi, alti anche quelli. Donald Trump sta vivendo un momento favorevole nella campagna elettorale. La sua avversaria, Hillary Clinton, è ricomparsa ieri dopo tre giorni di stop. La vicenda della polmonite, comunicata al pubblico con ritardo, ha lasciato il segno negli indici di gradimento. L’ultima rilevazione diffusa da New York Times e Cbc segnala che l’ex segretario di Stato ha perso 6 punti in un mese. Ad agosto guidava con il 46% contro il 41% di Trump; ora la distanza si è ridotta: 46% a 44%. Un’altra ricerca, condotta da Usc Dornsife- Los Angeles Times capovolge le posizioni. Il front-runner repubblicano è in testa con il 47,2% contro il 41,3% della contendente.
Nel meccanismo delle presidenziali, però, è decisiva la distribuzione dei consensi, Stato per Stato. Secondo i sondaggi Trump ha sorpassato la rivale in due «Swing State», le realtà in bilico: in Florida è avanti con il 47% contro il 44% e in Ohio con il 46% contro il 41%. È interessante incrociare queste soglie con l’analisi dei redditi nel 2015, diffusa nei giorni scorsi dal Census Bureau. In Florida il reddito medio delle famiglie era ancora inferiore del 6% rispetto al 2008, livello pre-crisi; nell’Ohio lo scarto era pari al 3,3%. Ciò significa forse che esiste una relazione tra il disagio economico e il voto per Trump? Intanto Trump annuncia un programma economico pieno di promesse: «È ora di tornare a pensare in grande. Con Obama e Hillary Clinton l’economia è cresciuta in media solo dell’1%. Ho un piano per arrivare al 3,5% e creare 25 milioni di posti di lavoro». La ricetta è un mix di dottrine: taglio delle tasse; rinegoziazione dei trattati commerciali, investimenti sulle infrastrutture.
G. Sar.
***
Trump e Clinton sono affiancati spalla a spalla nella volata finale verso il voto dell’8 di novembre. Alla fine di una settimana dominata dalle polemiche sullo stato di salute di Hillary, il più recente sondaggio Cbs - New York Times registrava ieri un ritardo di soli due punti di Donald Trump nei confronti della candidata democratica. Trump sta chiudendo rapidamente il fossato di otto lunghezze che si era aperto a fine luglio, dopo la conclusione della convention democratica di Filadelfia: è in rimonta in due stati chiave come l’Ohio e la Florida, e nella roccaforte conservatrice dell’Iowa vanta ora otto punti di distacco sulla sua avversaria.
LE CARTELLE CLINICHE
Il pubblico americano conosce ora nuovi dettagli sullo stato di salute dei due aspiranti alla presidenza. Trump si è presentato nel programma del medico-celebrità televisiva Dottor Oz, e ha ammesso di avere problemi di colesterolo, e che ha bisogno di perdere peso. La squadra elettorale di Hillary ha fornito un quadro molto più dettagliato, nel quale c’è la conferma dell’ipertiroidismo di cui soffre, la lunga lotta contro le allergie stagionali, e gli strascichi di una perniciosa otite e sinusite lo scorso inverno. Sappiamo ora che la ex first lady prende l’anticoagulante del sangue Coumadin, per via delle passate fibrosi e del grumo sanguigno che si era formato dopo la contusione subita per una caduta nel 2013. Sappiamo anche che ha segni vitali impeccabili: pressione sotto controllo, battito regolare, e niente placche sulle coronarie. Nel suo primo discorso dopo due giorni di riposo, ha scelto non casualmente di parlare del sistema sanitario: «Io ho la fortuna di essere assicurata, voglio che lo siano tutti gli americani», e ha ricordato chi «sta male ma è costretto comunque ad andare a lavorare». Ancora: «Il mio avversario è uno showman, io no, ma sono una che non molla».
LE PROPOSTE ECONOMICHE
Archiviata almeno per il momento la questione medica, i candidati tornano a misurarsi sui temi più prettamente politici. Trump ieri si è presentato all’Economic Club di New York con il suo aspirante vice presidente Mike Spence e ha promesso la luna: 25 milioni di nuovi posti di lavoro e la riduzione delle tasse dal 35 al 15%, senza toccare pensioni e benefici sociali. Si propone di finanziare il programma con un taglio della spesa pubblica di 4.400 miliardi somministrato al ritmo di una riduzione dell’1% l’anno per i prossimi dieci anni, e dice di puntare ad una crescita del pil americano tra il 3,5 e il 4% l’anno. Una visione di grandezza reaganiana, da realizzare però in uno scenario demografico ed economico radicalmente diverso, nel quale l’attuale passo di crescita statunitense fatica a mantenersi a quota 2%. Il messaggio di Hillary Clinton è meno sfavillante ma altrettanto ambizioso. La scorsa settimana la candidata democratica si è unita ad una nutrita cordata di politici del suo partito che chiedono l’espansione del programma di social security, il traballante sistema pensionistico che rischia di divenire insolvente entro il 2034.
IL FACCIA A FACCIA
Dovremo aspettare ancora dieci giorni per vedere queste due visioni così diverse confrontarsi in diretta nel primo dibattito televisivo. Nel frattempo la campagna si nutre dei piccoli scandali quotidiani, capaci tuttavia di lasciare il segno sul sismografo delle preferenze. La posta elettronica di Colin Powel, ex segretario di Stato dell’amministrazione Bush e conservatore moderato, è stata frugata da hackers che vi hanno trovato e reso noto commenti poco favorevoli ai due candidati: Trump, definito sbrigativamente come una «disgrazia nazionale», e la stessa Clinton, colpevole di aver cercato di tirarlo in ballo in sua difesa in occasione del mailgate, lo scandalo per l’uso di un server privato sul quale Hillary ha fatto disinvoltamente circolare alcuni messaggi secretati dal Pentagono.
Flavio Pompetti
***
FRANCESCO SEMPRINI, LA STAMPA 17/9 –
Alla fine ha ceduto Donald Trump, forse consapevole che i toni meno guerrafondai e più protocollari gli hanno permesso di riprendere quota nei sondaggi rispetto a Hillary Clinton. Ecco allora che il candidato repubblicano, dopo aver tergiversato per giorni, ha «riconosciuto» di diritto lo ius soli di Barack Obama, ovvero il fatto che il presidente è nato negli Stati Uniti. Una sorprendente, quanto conciliante, scelta di campo visto che negli ultimi giorni Trump aveva mantenuto una certa ambiguità sul tema, nonostante la sua campagna continuasse a dire di riconoscere il «born in the Usa» di Obama. Posizione ancora più equivoca se si pensa che il tycoon era un «birthers», aderendo a quel movimento di cittadini Usa che contestavano la veridicità sul luogo di nascita dell’inquilino della Casa Bianca.
«Obama è nato negli Usa, punto», ha detto per la prima volta il candidato del Grand Old Party, a margine dell’inaugurazione del suo nuovo hotel a Washington. Il rischio del resto era che l’intransigenza «birthers» si trasformasse in un boomerang per Trump, tanto da colpevolizzarne Hillary rea, a suo dire, di aver cominciato la polemica. «Clinton, nella sua campagna del 2008, ha iniziato la controversia. Io ne ho posto fine». Le accuse del miliardario, e non solo le sue, nascono dalla divulgazione di un memo del 2007 di un consigliere di Hillary che sottolineava la «carenza di radici americane» dell’attuale presidente. Anche se, occorre dire, sino a oggi non sono circolati documenti ufficiali dell’ex First Lady o della sua campagna che contengano contestazioni sulla nascita di Obama.
Il dietrofront di Trump lascia indifferente la Casa Bianca. «Non credo che al presidente interessi granché», dice il portavoce Josh Earnest. I sondaggi però danno in recupero il repubblicano, grazie forse alla sua linea meno demolitrice. In un potenziale confronto a quattro con il candidato libertario, Gary Johnson, all’8%, e quello dei verdi, Jill Stein, al 4%, Trump e Clinton avrebbero il 44% ciascuno secondo New York Times-Cbs News. Per questo l’ex rivale di Hillary, Bernie Sanders, ha chiesto ai suoi di non disperdere voti e stare con Hillary.
***
GIUSEPPE SARCINA, CORRIERE DELLA SERA 17/9 –
A un certo punto gli studenti la interrompono con un coro: «Four more years, four more years», ancora quattro anni. Michelle Obama sorride: «Non vi preoccupate, Barack e io stiamo traslocando, ma continueremo a impegnarci per questo Paese». La First Lady resta 25 minuti sul palco della Mason University di Fairfax, in Virginia. C’era molta attesa per il suo debutto nella campagna elettorale, dopo il breve discorso di luglio alla Convention democratica di Filadelfia. Può essere lei il ricostituente psicologico, prima ancora che politico, di cui sembra aver bisogno Hillary Clinton? La risposta definitiva arriverà con il voto dell’8 novembre, o forse anche prima il 17 ottobre, quando scadrà il termine accordato ai cittadini per registrarsi nei registri elettorali. Michelle è qui soprattutto per questo: scuotere i giovani progressisti del Paese, gli orfani politici di Bernie Sanders, magari tentati dagli outsider indipendenti, da Gary Johnson e dalla verde Jill Stein che, secondo i sondaggi, stanno drenando consensi nel campo democratico.
Nell’aula magna della Mason, Michelle Obama si scioglie subito. Indossa un vestito scuro con una fantasia di fiori: rose, tulipani. Accompagna le canzoni accennando un movimento con le braccia. Ma lo «speech» è compatto, documentato in modo rigoroso. Nella sua comparsa alla Convention erano prevalse le emozioni, i sentimenti: «I nostri figli ci guardano, ascoltano le nostre parole», aveva detto. Questa volta lo schema e più complesso: «È in gioco una transizione cruciale per gli Stati Uniti».
Da una parte ci sono «i progressi realizzati da Barack»: «Venti milioni di persone che hanno ottenuto la copertura sanitaria; 3,5 milioni di persone che solo nell’ultimo anno sono uscite dallo stato di povertà».
Dall’altra c’è Donald Trump, che Michelle, però, evoca senza mai nominarlo esplicitamente: «Chi traffica con la paura, chi esprime disprezzo per tanti americani, chi non ha un piano chiaro per questo Paese».
E in mezzo c’è Hillary, «la sola scelta possibile». Con un’abile costruzione retorica, Michelle usa per almeno cinque minuti parole neutre: Hillary Clinton è «l’individuo», oppure «la persona» più qualificata per il lavoro da presidente, «più di quanto fosse Bill, più di Barack». E quest’ultima frase, come diverse altre, è mutuata dall’intervento del presidente a Filadelfia. Solo dopo aver elencato i risultati, le credenziali della candidata democratica, Michelle dice: «E succede che Hillary sia una donna». È il passaggio forse più efficace. C’è uno scarto, un cambio di passo rispetto ai santini proposti da Bill Clinton e dalla figlia Chelsea, che a 36 anni si riferisce in pubblico a sua madre sempre dicendo «my mom», la «mia mamma».
Michelle chiede un voto per la competenza, non per una questione di simpatia o per una solidarietà di genere. Si rivolge agli scettici, alla larga fascia di opinione pubblica diffidente. «Credetemi, ho visto da vicino quanto sia difficile, stressante il lavoro da presidente. E lo ha visto anche Hillary. A volte mi chiedo perché insiste a volerlo. E mi rispondo perché è consapevole di avere il talento e la capacità per farlo, alla servizio della nazione». Conclusione: «Lasciate perdere le battute, i tweet. Non è con quelli che si governa l’America».
Giuseppe Sarcina