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 2016  settembre 16 Venerdì calendario

ALL’INFERNO CI SI BATTE PER UNA SAPONETTA


Stanno sdraiati tutto il giorno su luridi materassi appoggiati sul pavimento. Alternano momenti di sonnolenza e apatia a scatti di rabbia. È sufficiente un nonnulla: l’accendino sparito, il russare di un altro che disturba il sonno, la guerra per impossessarsi delle saponette che non bastano mai. Le risse tra giovani, che comunque costituiscono la stragrande maggioranza, sono figlie della frustrazione generalizzata. E allora i secondini libici intervengono brutali, picchiano con i calci dei fucili, gettano, per giorni e giorni, in pertugi bui quelli che considerano più pericolosi. Tre settimane fa, nel centro di detenzione di Al Kareem per migranti controllato dalle milizie di Misurata, abbiamo visto interrogare in modo violento un ventenne del Ghana con una lunga cicatrice rossastra mal rimarginata che andava dal polpaccio alla coscia. «Come te la sei procurata? Ammettilo, confessa che stavi con Gheddafi e questa è una ferita di guerra non curata!», gridavano minacciosi. «Non è vero. Mi sono fatto male lavorando in un cantiere come operaio», rispondeva impaurito, le mani incrociate a ripararsi la nuca. «Menti! Stavi con quelli che ci bombardavano, dillo», replicavano duri.
Attorno si era fatto silenzio. Decine di uomini, alcuni ancora ragazzi, vedevano nel calvario del detenuto lo specchio delle loro paure. Sono trascorsi cinque anni dalla fine del regime di Gheddafi, eppure in Libia i migranti dalla pelle nera sono visti col sospetto di sempre. Terra che per secoli e secoli è stata mercato di schiavi catturati nell’Africa sub-sahariana, percorsa da antiche tensioni razziali. Paese per molti aspetti artificiale, costruito dall’Italia coloniale dopo l’invasione del 1911, che vorrebbe essere arabo, ma in realtà ha al suo interno forti componenti africane persino pre-islamiche, Amazig (come qui chiamano i berberi), Tuareg, beduini che alle oasi più urbanizzate come quella di Sebah preferiscono l’eterno girovagare nel deserto senza confini e rifiutano qualsiasi identità diversa dalla fedeltà incondizionata alla loro tribù particolare.
«Gheddafi aveva modellato la sua alleanza con l’Africa in un punto di forza. Credeva che il futuro del pianeta fosse proprio lì. E utilizzava i migranti come un’arma da adattare per ricattare l’Europa. Ma oggi quegli stessi migranti rappresentano un peso impossibile per la Libia intera. Sono arrivati a contare oltre due milioni. Troppi per cinque milioni di libici impoveriti, indeboliti dopo la rivoluzione del 2011», sostengono i responsabili delle milizie di Misurata. Parole che ripetono anche nei centri di detenzione a Tripoli, Garabulli, Al-Khums. Qui abbiamo incontrato centinaia di poveracci giunti dalla Nigeria, Niger, Mali, Gabon, Gambia, ma anche Egitto meridionale, Sudan, Eritrea, Etiopia, Chad, Mauritania. Ancora a Al Kareem abbiamo visto almeno due giovani africane che avevano appena partorito in carcere. Loro accovacciate sulle stuoie, i due bambini avvolti in povere fasce accanto. Non parlavano altro che uno stretto dialetto dei loro villaggi, incomprensibile per le sentinelle libiche. «Non sappiano che fare di loro. Sono qui da quattro mesi, le abbiamo trovate incinte in un edificio abbandonato a Tawargha (presso Misurata, ndr) Nessuno si è fatto vivo per avere notizie. Non sappiamo chi siano i padri dei bambini», dicono.
È un’umanità alla deriva, abituata a soprusi e abusi di ogni genere, raccolta in vecchie scuole in disuso, dove alle finestre e alle porte sono state cementate solide inferriate. Ma anche in carceri veri e propri, come quello di Abu Saleem a Tripoli (noto per una delle battaglie più cruente nell’agosto 2011), dove le celle troppo piccole straboccano sotto la pressione di un numero di detenuti troppo grande. Qui un sudanese trentenne, magro, la camicia chiara pulita e l’aria da intellettuale spaesato nell’atmosfera di primitiva lotta per la sopravvivenza in cui è immerso, ripete che «ci deve essere un errore» perché lui è in regola. Afferma di essere un medico, gli è stato sequestrato il passaporto e attende che la sua famiglia spedisca la somma necessaria per comprarsi la libertà e il biglietto da Tunisi per il volo verso l’Italia.
I momenti di maggior attività nelle giornate sempre eguali della detenzione coincidono con la distribuzione del rancio: in genere zuppa di lenticchie bollita in enormi pentoloni, patate, qualche pezzo di carne e occasionalmente frutta. A Garabulli, luogo privilegiato di partenza dei barconi della speranza, una trentina di chilometri ad est della capitale, la milizia locale si fa pagare profumatamente per liberare chi cattura sulle spiagge o appena in mare. «Il nostro dramma è che tanti di noi sono arrivati qui sulla costa da oltre un anno. In tutto questo tempo abbiamo fatto ogni tipo di lavoro per guadagnare i mille euro necessari a pagarci i canotti verso l’Italia. Ora dovremo trovarne altri cinquecento per ottenere la libertà. Quindi dovremo rimetterci sotto per comprare un posto su un altro canotto, magari l’anno prossimo», racconta Othman, 26 anni, originario del Ghana, che da mesi neppure telefona alla famiglia a casa. Si vergogna di rivelare che non è ancora riuscito a passare sulle coste italiane. Le milizie interferiscono così pesantemente nelle tribolazioni della massa di gente che fugge verso nord. «Non posso negarlo. Purtroppo so bene che alcune delle nostre unità preposte a controllare il flusso dei migranti collaborano invece illegalmente con le bande dei trafficanti e degli scafisti. I giri d’affari dell’intero business hanno raggiunto proporzioni enormi. Un problema grave che riflette quello ancora più serio del collasso del sistema statuale libico. Difficilmente noi da soli potremo porvi rimedio. Necessitiamo dell’aiuto europeo», ammette apertamente in un’intervista Abdulrahman Swehli, 70enne presidente del Consiglio di Stato: 145 membri, una sorta di Senato che opera in assonanza con il governo del premier Fayez Serraj. Per contro, sono ancora i politici a Tripoli, assieme ai responsabili delle milizie che qui fungono da guardia costa, a puntare il dito contro l’assistenza ai profughi. «Le vostre navi stazionano poche miglia al di fuori delle nostre acque territoriali. Gli scafisti le contattano via telefono satellitare e voi italiani li andate a salvare. In questo modo la Libia è letteralmente invasa da migranti. Dovremmo coordinarci per limitare l’intero traffico», sostengono ai porti della capitale e Al-Khums.
La realtà si tocca con mano nelle nottate di bel tempo, specie da marzo a ottobre. È allora che partono i barconi. I «passeggeri» vengono raggruppati in povere baracche e ripari di fortuna presso le spiagge. Le bande più ricche e organizzate si sono assicurate di aver ben pagato il loro diritto di passaggio alle milizie locali. I loro canotti sono spinti da fuoribordo da quaranta cavalli con riserve di carburante sino a 400 litri per imbarcazione, che in teoria garantiscono la navigazione sino alle coste della Sicilia. Ma per ogni partito altri mille si accalcano sulla costa. I loro drammi sono anche nelle preghiere, poesie, o semplici lamenti d’aiuto, scritti sui muri delle celle. Molti in arabo, ma anche in inglese o francese. Tante sono invocazioni a Dio affinché «intervenga nelle menti dei poliziotti e li convinca ad essere più clementi con noi». Oppure «interceda per la nostra liberazione da queste torture infinite». Altri sono brevi racconti del lungo viaggio da casa, l’attraversamento del Sahara, l’arrivo nelle oasi di Sebha, Gat, Awabari. La perdita di un congiunto, di un amico, la nostalgia per un amore lontano.
Coloro che non sono in carcere vivono nel limbo del caos locale. Ogni libico sa dove trovarli. Al quartiere di Gargaresh, nelle zone costiere a ovest di Tripoli, sulle strada che porta a Zuwarah e Sabratha, cuore pulsante della malavita locale, di Isis e degli scafisti, sono perennemente accovacciati ai lati delle strade. Una folla scura in attesa di impiego. Paga media quotidiana: 10 euro, di cui quasi 5 spesi per sopravvivere in stanzucce dove dormono a turni. Si offrono come operai edili, meccanici, spazzini, facchini, ma anche guardiani e nei fatti qualsiasi altra attività. Quando appaiono i pick up delle milizie le loro «sentinelle» poste sui cavalcavia più alti danno l’allarme e scatta il fuggi fuggi generale. «Mi hanno già catturato tre volte e mi sono indebitato con gli amici per pagare il riscatto della mia liberazione», dice in francese Mohammad, arrivato dal Mali. La sua speranza è raggiungere un lontano cugino che ha trovato lavoro in Germania.