di Dina Lauricella, il Fatto Quotidiano 16/9/2016, 16 settembre 2016
NEL NARCO-STATO DELLA ’NDRANGHETA PIÙ DI 200 DONNE UCCISE IN 25 ANNI
Quando pensiamo sia tutto finito, tutto finisce per davvero. Anche la vita di una ragazzina di 13 anni, condannata a vivere con dolore, vergogna e frustrazione il suo essere donna. Non siamo in Pakistan o in Africa centrale. Siamo in Italia, a Melito di Porto Salvo, nella città metropolitana di Reggio Calabria, ma potremmo essere anche a Rosarno, cento chilometri più a nord, a Roma, a Torino o a Milano. Potremmo essere ovunque esista un presidio mafioso di stampo ’ndranghetista, perché quella recalcitrante rassegnazione di cui parla il gip di Reggio Calabria, Barbara Bennato, nelle 130 pagine di ordinanza di arresto sugli abusi che una bambina di tredici anni è stata costretta a subire, è figlia della paura, dell’ignoranza e dell’emarginazione di pezzi d’Italia dimenticati, dove la cultura mafiosa miete vittime e terrore. Dove il silenzio è l’unica possibile risposta.
PUNITA DAL FRATELLO PER L’ABBIGLIAMENTO
Cos’è che ci fa più paura, l’idea che una bambina sia stata ripetutamente violentata per tre anni di fila o che tutto ciò sia accaduto sotto gli occhi dei genitori, della scuola e della società civile che è rimasta inerme, sia prima che dopo?
Appena due settimane fa, sempre in Calabria, a Oppido Mamertina una ragazza di 21 anni è stata punita dal fratello “per quel suo vezzo” di portare le minigonne. Marisa Purtorì, quel pomeriggio lavorava al bar e tra un ordine e l’altro si era concessa una pausa sigaretta. In quel momento, davanti a tutti, è arrivato il fratello con un fucile e le ha sparato alle gambe. “Volevo solo darle una lezione”, ha spiegato il giovane agli inquirenti. La sorella si è salvata per un pelo, il proiettile le ha reciso una vena e c’era il rischio che non arrivasse neanche in ospedale. La madre non parla, però si è precipitata dal figlio scambiando con lui un sorriso d’intesa o di perdono. Pur sempre un sorriso, come a coprire una simpatica marachella. Lui, Demetrio, non risulta appartenere ad alcun ambiente malavitoso, ma resta da chiarire dove e come si sia procurato il fucile. Di sicuro, come abbiamo appreso un paio d’anni fa con l’inchino della Madonna sotto casa del boss, Oppido Mamertina è del tutto piegata alla cultura arcaica della ’ndrangheta che ha una concezione della donna simile a quella di una bestia da soma. La femmina è un oggetto che serve a soddisfare i bisogni pratici e sessuali del maschio, sia esso il padre, il fratello o il marito. In mancanza di queste tre figure di controllo e di dominio, entrano in gioco anche i figli, maschi ovviamente. È il caso di Franca Bellocco, moglie di Salvatore Barone, già agli arresti domiciliari in provincia di Brescia.
UCCISA DAL FIGLIO: AVEVA “TRADITO” IL MARITO
Colpevole di aver tradito il marito, la notte del 17 agosto 2013, la donna viene uccisa dal figlio Francesco. Un ragazzo di 28 anni che ne dimostra 16. Freddo, per nulla scosso dall’omicidio della madre, presumibilmente fiero di aver pulito l’onta del quel tradimento, aggravato dal fatto che l’amante era anche un rivale di cosca.
Oggi la ’ndrangheta è una Spa che fattura circa 44 miliardi di euro l’anno, veste bene, parla più di una lingua e ha colonie sparse in tutto il mondo, dall’Italia all’Australia, dall’Oceania all’America. Ovunque essa vada porta con sé il suo know how nel business della droga e della armi. Si evolve, ma resta fedele ai suoi codici.
STUPRATA DALLA ZIO NEL SILENZIO DELLA MADRE
Maria Stefanelli è nata in Calabria, ma tutta la sua vita si è svolta tra Genova e Torino. Moglie di Francesco Marando, spietato boss in affari con i Piromalli nella gestione delle piazze del nord negli anni 80. Maria venne stuprata dallo zio quando aveva 12 anni, l’incubo finì solo quando lei si sposò. Fu proprio lui, l’orco a portarla all’altare a braccetto, uno accanto all’altra, sotto gli occhi lucidi della madre che con cura, davanti alle telecamere, provvede a sistemarle il velo. Eppure quella madre era lì, nella stanza accanto tutte le volte cha Maria era costretta ad accogliere lo zio. “Piangevo, urlavo, chiamavo mia madre, ma lei non è mai venuta”, racconta con rabbia Maria che oggi vive in una località protetta. “Non potevo parlarne apertamente, queste cose si sapevano, si capivano, ma la paura era tanta. Penso che anche mia madre in passato sia stata vittima di abusi, immagino che per lei fosse una cosa normale e comunque, se avesse parlato avrebbe solo preso botte”.
QUELLE DONNE CHE SVANISCONO NEL NULLA
È complicato fare una stima delle donne vittime della cultura ’ndranghetista. Botte, umiliazioni, segregazioni, femminicidi e abusi avvengono sempre in silenzio. Nessuno denuncia, spesso queste donne spariscono e non se ne sa più nulla. Questo avviene perché nella maggior parte dei casi i loro aguzzini, addirittura i loro killer, sono dei familiari stretti. Denunciarne la scomparsa sarebbe come accusarsi dell’omicidio. Meglio tacere. Una stima ufficiale e puntuale dunque non esiste, ciò che è certo è che negli ultimi 25 anni la ’ndrangheta ha ucciso più di duecento donne. Il sommerso potrebbe essere anche il doppio a giudicare il lavoro del tribunale dei minori di Reggio Calabria. Il presidente, Roberto Di Bella, da più di un anno ha messo in atto misure per togliere ai mafiosi la patria potestà. Si contano una trentina di casi di allontanamento di bambini strappati alle loro famiglie ’ndranghetiste e affidate a strutture o famiglie del nord. Un lavoro complicato sotto il profilo etico, ma che, assicura Di Bella, sta cominciando a dare i suoi frutti. “La ’ndrangheta non arruola, piuttosto si eredita. I nomi sono sempre gli stessi. Oggi combatto con i figli dei giovani ’ndranghetisti che arrestavo 30 anni fa. Bisogna pur fare qualcosa per cambiare il corso degli eventi, noi ci stiamo provando e in qualche modo, stiamo anche facendo scuola per altre realtà”.
LA DIGNITÀ DELL’INDIVIDUO TUTELATA DALLA COSTITUZIONE
Se, però, il problema di Melito è parte di un codice che non ci appartiene ed è lontano da noi, Tiziana Cantone – la ragazza suicida per i video diffusi online – ci ricorda che le nostre vite non sono a tenuta stagna. Ignoranza e arroganza non sono un’esclusiva della ’ndrangheta e forse, quella recalcitrante rassegnazione della quale parla la dottoressa Bennato, è soprattutto la nostra.
Quando il ministero della Salute decidesse di avviare una campagna di sensibilizzazione nei confronti di questi temi, sui diritti delle donne dentro e fuori dal letto, sarebbe facile prospettarne il successo. La Costituzione non tutela solo la procreazione cosciente e responsabile, in primis – è il caso di ricordarlo – tutela la dignità dell’individuo.
di Dina Lauricella, il Fatto Quotidiano 16/9/2016