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 2016  settembre 14 Mercoledì calendario

MATTI DA LEGARE

Il 15 giugno 2006 Giuseppe viene ricoverato, in regime di trattamento sanitario obbligatorio (TSO), nel Servizio psichiatrico di diagnosi e cura (Spdc) dell’ospedale Santissima Trinità di Cagliari.
Originario di Quartu Sant’Elena, Giuseppe è un venditore ambulante di frutta e verdura, che esercita il suo lavoro forse più per socializzare e trascorrere il tempo che per vendere la propria merce. Sessantenne, è seguito dal servizio di salute mentale da una decina d’anni. E una persona amichevole e descritta da chi lo conosce come non violenta, anche se qualcuno racconta che nei giorni precedenti ha assunto atteggiamenti aggressivi e minacciosi.
Quella mattina, esasperato dall’ennesima multa per abusivismo, protesta con maggiore energia, forse anche aiutato da una bottiglia di moscato che ha con sé, tanto da indurre gli agenti della Polizia municipale a richiedere l’intervento di un medico, che giunge sul posto insieme a una pattuglia di Carabinieri.
Dopo una discussione, nel corso della quale Giuseppe tiene banco fumando il suo amato sigaro e intrattenendo gli astanti, il medico ravvisa la necessità di cure psichiatriche che il paziente non è disposto ad accettare volontariamente e, come da prassi in questi casi, dà avvio all’iter per il ricovero obbligatorio, che consiste in una proposta scritta, convalidata da un secondo medico appartenente al servizio sanitario nazionale e ratificata con un’ordinanza dal sindaco, in qualità di autorità sanitaria locale. Giuseppe è quindi caricato a forza su un’ambulanza e trasportato all’ospedale, dove viene ricoverato nel servizio psichiatrico, sedato e legato al letto con fasce applicate alle mani, ai piedi e al petto. Al paziente, che soffre di un disturbo di personalità e di una forma di epilessia sotto controllo farmacologico, viene diagnosticato uno stato di eccitamento maniacale.
► Tutti assolti
Il primo giorno può vederlo solo la moglie, mentre la figlia riesce a incontrarlo nei giorni successivi, notando che suo padre è molto assonnato, confuso e parla a fatica.
11 secondo giorno viene rimossa la fascia pettorale, ma mani e piedi non vengono mai slegati per tutta la durata del ricovero: una settimana. Giuseppe è quasi sempre sedato, tanto da rendere difficile l’effettuazione di colloqui di approfondimento diagnostico. Quando riceve le visite dei parenti si lamenta, e in un momento di lucidità dice «mi hanno preso per pazzo, chiamate i Carabinieri»; ma i suoi familiari, che non hanno motivo di diffidare degli operatori sanitari, accettano le rassicurazioni e le decisioni di questi ultimi, convinti che il paziente sia ancora troppo agitato per poterlo slegare.
A Giuseppe viene somministrato aloperidolo, un farmaco antipsicotico tra i più usati, ma che richiede l’esecuzione preventiva di un elettrocardiogramma a causa della sua potenziale tossicità per il cuore. Anche se viene sottoposto alle consuete analisi, quell’esame non viene mai effettuato, e il 22 giugno, dopo sette giorni di ricovero, Giuseppe muore, forse a causa della terapia farmacologica, o forse per una tromboembolia polmonare legata al prolungato stato di immobilizzazione forzata. L’evento che ha causato la sua morte non viene mai chiarito, anche perché nel corso dell’autopsia alcuni reperti spariscono e l’anatomopatologo autore dell’indagine è accusato di frode, mentre gli psichiatri che ave- vano in cura Giuseppe subiscono l’accusa di | sequestro di persona e omicidio colposo.
Presentata come un tragico caso di malasanità, la vicenda di Giuseppe Casu si conclude dopo più di nove anni con l’assoluzione in Cassazione di tutti gli imputati, di cui la Corte sancisce la correttezza della condotta professionale; ma rimane aperta la questione dell’uso della contenzione, pratica largamente diffusa in ospedali e istituti di tutto il mondo – non solo in psichiatria – la cui liceità da un punto di vista etico e utilità sul piano clinico sollevano non pochi interrogativi, anche quando sia messa in atto al fine di frenare comportamenti agitati o aggressivi.
► Le prime riflessioni
Già a partire dal XVIII secolo aveva cominciato a diffondersi l’idea di togliere le catene ai pazienti psichiatrici: è celebre il gesto simbolico dello psichiatra francese Philippe Pinel, che nel 1795, ispirato dai valori illuministici di libertà, uguaglianza e fratellanza, aveva liberato dai ceppi i malati reclusi nel manicomio di Bicêtre, rischiando comunque il linciaggio. E nel 1844 il suo collega inglese John Conolly aveva affermato «non vi è ricovero al mondo in cui ogni costrizione meccanica non possa essere abolita».
In Italia le condizioni inumane nelle quali versavano i pazienti in manicomio erano state svelate da un’inchiesta sugli ospedali psichiatrici veneziani condotta tra il 1901 e il 1902 da Ernesto Belmondo, professore di psichiatria all’Università di Padova: era emerso che nel manicomio di San Servolo gli infermieri erano «rozzi, maleducati e in cinica attitudine di carcerieri», e che i malati venivano abitualmente «tenuti colle catene e coi ceppi e le balze di ferro... sulle nude carni contuse, intormentite e sanguinose, per settimane, per mesi, per anni... perché nessuno si ricordava più di loro e dell’ordine una volta dato di tenerli chiusi». Il direttore del San Servolo si era difeso precisando che gli anelli di ferro erano «ben ricoperti di cuoio» e che servivano «per quelli che hanno la tendenza a tirare calci».
► Il rimosso della psichiatria moderna
Sull’onda dei risultati dell’inchiesta di Belmondo, nel 1904 la mozione conclusiva del XII congresso della Società freniatrica italiana – divenuta poi Società italiana di psichiatria – aveva auspicato che fosse attuata «anche in Italia come ormai nella maggior parte delle altre nazioni, l’abolizione dei mezzi di contenzione per gli alienati». E nel 1909 il regolamento applicativo della legge Giolitti del 14 febbraio 1904 «sui manicomi e sugli alienati» all’articolo 60 aveva esortato ad «abolire, o almeno ridurre, i mezzi di contenzione», limitandone l’impiego a circostanze «assolutamente eccezionali» e sempre previa «autorizzazione scritta del direttore o di un medico dell’istituto»; l’autorizzazione doveva indicare anche la natura del mezzo di contenzione e la durata del provvedimento.
Da allora nessuna iniziativa di legge nel nostro paese si è più occupata del problema della contenzione. Né la Legge Basaglia del 1978, che ha sancito la chiusura dei manicomi, né i due «progetti obiettivo per la salute mentale» (1994-1996 e 1998-2000) elaborati dal Ministero della Salute, fanno esplicito cenno a questa pratica che, come sottolinea lo psichiatra Pietro Sangiorgio, direttore del Dipartimento di salute mentale della ASL Roma H dal 2001 al 2013, pur essendo ancora oggi in tutto il mondo «il trattamento routinario di un gran numero di pazienti agitati», rappresenta «il rimosso della psichiatria moderna», che ha difficoltà a confrontarsi scientificamente con questo fenomeno, mantenuto di solito sotto un silenzio che nasconde le posizioni più disparate, anche opposte, spesso sostenute da approcci puramente ideologici.
La questione è tornata d’attualità da quando i mezzi di comunicazione hanno acceso i loro riflettori su episodi di abuso o di gravi eventi avversi, come il caso di Giuseppe, sensibilizzando l’opinione pubblica su una realtà precedentemente ignorata o semplicemente accettata come immodificabile.
Negli Stati Uniti il tema è arrivato all’attenzione del Congresso nel 1999, dopo che una serie di articoli dell’«Hartford Courant», il più importante giornale del Connecticut e quello di più antica pubblicazione continuativa in tutti gli Stati Uniti, ha identificato almeno 142 casi di morte dovuta a contenzione nei reparti di psichiatria nel decennio 1988- 1998; e nel 2001 la commissione nazionale per l’accreditamento delle strutture sanitarie ha pubblicato nuovi standard restrittivi per l’uso della contenzione e dell’isolamento, manifestando la volontà di dare assoluta priorità alle segnalazioni di pazienti e familiari circa un eventuale abuso di simili provvedimenti da parte delle strutture stesse.
► Complicazioni mortali
Le più frequenti complicazioni mortali in corso di contenzione sono l’asfissia da compressione, l’ipossia cerebrale, la tromboembolia polmonare dovuta all’immobilità, le aritmie cardiache e la rabdomiolisi – ossia la distruzione dei muscoli striati – legate all’azione tossica dei farmaci.
Se l’introduzione degli antipsicotici a partire dalla metà del secolo scorso ha infatti permesso di ridurre drasticamente i comportamenti aggressivi dei malati mentali e quindi la necessità di ricorrere alla coercizione fisica, il loro impiego ad alti dosaggi, come avviene spesso nei reparti ospedalieri in presenza di gravi sintomi acuti, si può associare a complicazioni pericolose se non riconosciute tempestivamente, come la cosiddetta «sindrome maligna da neurolettici», caratterizzata da febbre, rigidità, danno muscolare e confusione mentale, che può essere scambiata per un peggioramento della sintomatologia psicotica e indurre erroneamente i medici a continuare o addirittura a incrementare la somministrazione dei farmaci. Il paziente contenuto non va abbandonato, ma richiede una cura particolare: deve essere monitorato continuamente dagli operatori riguardo la funzionalità cardiorespiratoria, l’idratazione, l’integrità della cute; la trombosi deve essere prevenuta garantendo il movimento degli arti e, quando l’immobilizzazione si protragga, mediante l’uso di anticoagulanti.
► Una pratica radicata
In Europa lo studio EUNOMIA, finanziato dalla Commissione Europea, ha monitorato l’uso delle misure coercitive in psichiatria in dieci nazioni, coinvolgendo più di 2000 pazienti per un periodo di due anni e mezzo. I risultati, illustrati dallo psichiatra Jiri Raboch, dell’Università Carolina di Praga, rivelano che quattro pazienti su dieci – quasi sei su dieci in Italia – lamentano di aver subito in occasione del loro ricovero misure coercitive, dall’immobilizzazione fisica alla somministrazione forzata di psicofarmaci.
Per Raboch i fattori che portano all’uso della coercizione possono essere legati alla gravità della malattia, all’estrazione sociale dei pazienti o alla legislazione vigente, ma anche alla struttura, all’organizzazione e all’orientamento degli operatori all’interno dei reparti psichiatrici. È su queste ultime variabili che si è concentrato Sangiorgio, coordinatore di una ricerca che ha coinvolto 23 servizi psichiatrici per pazienti acuti della regione Lazio lungo un arco temporale di sei anni. I risultati di questa rilevazione sistematica del fenomeno indicano, pur nella notevole disomogeneità tra i diversi servizi, che si tratta di una pratica diffusa e costante nel tempo, e che una strategia volta al suo superamento risulta di difficile attuazione per molte ragioni: se il numero degli episodi di contenzione è diminuito (oggi un paziente su dieci rischia di essere legato al letto in occasione del ricovero in psichiatria), la durata degli stessi resta alta (dalle 12 alle 24 ore) e, soprattutto, non si intravede una tendenza alla sua diminuzione.
Le cause di queste difficoltà sono, secondo Sangiorgio, strutturali e organizzative, ma anche culturali e politiche: carenza di personale infermieristico e soprattutto di formazione su pratiche alternative alla contenzione per la gestione delle emergenze comportamentali, come le strategie di «de-escalation», volte a risolvere i conflitti riducendo le occasioni di tensione: assenza di leadership mediche e dirigenziali efficaci, motivate e preparate; scarsità di integrazione tra servizi ospedalieri e territoriali e di interventi attivi e i propositivi sulla crisi da parte di questi ultimi;
approccio al problema in modo prevalentemente ideologico, che nasconde spesso inerzia e mancanza di proposte costruttive.
Per Sangiorgio, che ritiene la contenzione «un fallimento della cura più che un atto medico», il ricorso a questa pratica non dovrebbe rappresentare una reazione automatica e difensiva legata alla percezione di minacce o alla difficoltà di instaurare una relazione terapeutica con i pazienti gravemente disturbati, ma essere limitato solo a quei casi di effettiva necessità nei quali l’immobilizzazione del paziente, finalizzata all’esecuzione di una terapia, è l’alternativa meno dannosa tra tutte quelle disponibili. Occorre però che le istituzioni sanitarie e scientifiche promuovano la ricerca in questo campo in un’ottica non ideologica ed etica, identificando le strutture nelle quali si fa uso delle contenzioni e obbligandole ad adottare strategie volte alla loro prevenzione, facendo di queste un indicatore primario della qualità dell’assistenza.
Il rischio è che enunciati programmatici, connotati ideologicamente ma non fondati sul confronto con la realtà quotidiana dei servizi di salute mentale, non riescano a tradursi in pratiche operative e restino lettera morta, contribuendo a mantenere l’opacità sulla reale diffusione della coercizione in psichiatria. Con conseguenze negative prima di tutto per i pazienti, ma anche per gli operatori, schiacciati da un mandato sociale ambiguo e da un’opinione pubblica ondivaga, pronta a scandalizzarsi sia quando un paziente con disturbi mentali compie atti di violenza, sia quando «scopre» che nei reparti di psichiatria la devianza comportamentale viene spesso repressa con l’uso della forza.
Sembra che dopo più di un secolo siano ancora attuali le parole dello psichiatra fiorentino Jacopo Finzi, che già nel 1898 scriveva: «Oggi ancora, nonostante la convinzione che le malattie mentali si debbano studiare con gli identici criteri e dallo stesso punto di vista di tutte le altre malattie, la letteratura psichiatrica fa l’impressione come se l’antico alienista, filosofo-carceriere, viva sempre accanto al moderno, anatomico-sperimentatore, ma i due non sappiano ancora fondersi in uno».