Salvatore Gaziano e Vincenzo Imperatore, il Fatto Quotidiano 14/9/2016, 14 settembre 2016
UN DIAMANTE È PER SEMPRE, COME LE PERDITE: LE BANCHE ALL’ASSALTO DEGLI IGNARI CLIENTI
L’opuscolo distribuito nella filiale della banca e consegnato al risparmiatore sembra un’allettante proposta d’investimento a leggere il titolo in copertina: “Il diamante, da sempre, ha contribuito a mantenere e trasferire nel tempo il patrimonio di regnanti e dinastie familiari”. Siamo in una filiale di Ubi, una banca che da qualche anno come tante altre (Unicredit, Carige, Mps, Bpm, Banco Popolare) ha aggiunto allo scaffale dei prodotti finanziari anche quelli che Marilyn Monroe definiva “i migliori amici della donna.”
In un periodo in cui le Borse danno spesso delusioni e le obbligazioni non rendono quasi nulla, vendere “diamanti d’investimento” può apparire un affare allettante per il risparmiatore che non sa più dove cercare riparo, terrorizzato dal bail in (la norma Ue che impone di far pagare le crisi bancarie ad azionisti e obbligazionisti e se serve anche ai correntisti più ricchi). L’investimento in diamanti come “bene rifugio” è la carta da giocare per gli istituti di credito e per i consulenti finanziari. Ed è molto apprezzata dalle direzioni commerciali: fra i 10.000 e i 20.000 euro il valore medio delle pietre vendute allo sportello, soprattutto nel nord est, dove in molti, dopo aver fatto incetta di azioni delle popolari non quotate, si buttano sui diamanti. Ma il rischio c’è.
Gli istituti, in realtà non li vendono direttamente, ma prestano un servizio di segnalazione (ricevendo una percentuale) a favore di società convenzionate. Tutto bene? Non proprio. In realtà è un business che fa ricchi soprattutto gli intermediari, in un mercato complesso e meno trasparente perfino di quello degli strumenti finanziari. Già nel 2002, per dire, nel protocollo di accordo tra una grande banca e una delle società specializzate si fa riferimento a un prodotto “fiscalmente neutro”, dove cioè al risparmiatore si può dire che non pagherà le tasse sui guadagni; un prodotto da vendere in bundling (abbinamento obbligatorio) con una polizza assicurativa contro furto o rapina; un prodotto che vincola il cliente per 6-7 anni a causa delle elevate “commissioni di uscita” (fino al 16%) che servono ad “ammortizzare” i guadagni della banca e della società di commercializzazione. Il tutto facendo riferimento a quotazioni sui giornali che in realtà sono uno spazio pubblicitario acquistato dalla società che poi vende i diamanti (non esiste un fixing ufficiale del prezzo ma solo stime degli operatori).
Eppure alcune delle banche più attive in passato hanno rallentato l’attività. Il motivo? L’andamento delle pietre preziose non ha regalato soddisfazioni ai risparmiatori: chi voleva disfarsene ha scoperto che, fra caduta dei prezzi e difficoltà di trovare compratori, il valore di vendita poteva discostarsi in modo significativo da quello di acquisto, perdendoci. Nessuno, però, vigila. Secondo diversi pareri della Consob (l’autorità che vigila sulla Borsa) è infatti possibile vendere diamanti ai risparmiatori senza dover fare troppo domande e ricorrere alla profilatura dei rischi per il cliente (Mifid): “Bisogna escludere che sia applicabile alle operazioni di investimento in diamanti la disciplina in materia di offerta al pubblico, ivi inclusa quella per la pubblicità”, recita un parere dell’Authority. Insomma, grandi guadagni, pochi rischi. Per la Consob, infatti, per gli investimenti finanziari si devono intendere “le proposte che implichino la compresenza di tre elementi, quali l’impiego di capitale, l’aspettativa di rendimento di natura finanziaria e l’assunzione di un rischio direttamente connesso all’impiego di capitale”. Evidentemente la cosa non ha nulla a che fare con il risparmiatore che acquista i diamanti, spinto da impiegati a loro volta pressati dalle direzioni. Gli istituti di credito incassano commissioni anche fra il 20 e il 40%. Cifre che dovrebbero spaventare qualsiasi investitore avveduto. Anche perché il mercato dei diamanti può anche scendere. L’ultimo anno, ad esempio, non è stato molto brillante, complice un calo della domande dei Paesi Emergenti e della Cina in particolare. Risultato? Il prezzo dei diamanti è sceso in media del 18% – dato peggiore dalla crisi del 2008 – costringendo le società del settore, come il gigante De Beers o la russa Alrosa Pjsc, a tagliare la produzione.
Secondo la società specializzata Rapaport, i prezzi scendono su tutte le carature, soprattutto sulle grandi: -4,7% per un carato e addirittura -16,5% per 3. Per il sito specializzato PolishedPrice dal 2011 il calo è stato del 30%. “In base ai canali di acquisto (e alla catena degli intermediari più o meno lunga) la stessa pietra preziosa la si può pagare 3.000 o 9.000 euro – spiega Marcello Manna, ad di Investment Diamond Company. Più sono gli intermediari, più alto è il prezzo. Nel mondo dei diamanti esistono circa 16 mila categorie, ognuna con specifiche caratteristiche, andamento dei prezzi e il proprio grado di liquidabilità. Qualcosa di simile a quello che accade in Borsa con le azioni”.
Quella dell’investimento che non soffre gli alti e bassi azionari e “l’inflazione nel medio-lungo periodo” è una balla secondo Beppe Scienza, matematico dell’università di Torino, che nei suoi corsi e libri spiega come i diamanti possono rivelarsi nel tempo un investimento tutt’altro che brillante. E nel futuro la scarsità della materia prima, che per anni ha sostenuto le quotazioni, potrebbe presto essere messa seriamente in discussione. Solo qualche mese fa, l’attore Leonardo DiCaprio ha lanciato una start up (Diamond Foundry) che conta soci importanti e che promette di realizzare nella Silicon Valley pietre preziose in laboratorio con le stesse proprietà di quelle estratte dalle viscere della terra ma “al 100% etiche”.
Salvatore Gaziano e Vincenzo Imperatore, il Fatto Quotidiano 14/9/2016