Nicola Calzaretta, Guerin Sportivo 10/2016, 13 settembre 2016
A MANI NUDE HO PRESO BERLINO [Intervista a Ivano Bordon] Ivano Bordon, nato il 13 aprile 1951. Portiere per vocazione di Inter, Sampdoria, Sanremese e Brescia
A MANI NUDE HO PRESO BERLINO [Intervista a Ivano Bordon] Ivano Bordon, nato il 13 aprile 1951. Portiere per vocazione di Inter, Sampdoria, Sanremese e Brescia. Dal 1970, anno del debutto in A con i nerazzurri, al 1989, ultima stagione con i cadetti bresciani. In mezzo molte nazionali, perfino la defunta Under 23, e un record eccezionale: due volte campione del mondo con l’Italia. La prima nel 1982 come vicario di Dino Zoff; la seconda nel 2006 come preparatore dei portieri a fianco di Marcello Lippi. Ci incontriamo a Monza, a casa sua. Seduti in giardino, ombra e venticello ad alleviare la calura estiva. I ricordi affiorano nitidi nella sua memoria. Nerazzurro nel cuore, e ancora oggi legato, anzi legatissimo alla sua Marghera, seppure lasciata cinquanta anni fa. «Pochi mesi fa sono tornato nella mia cittadina per una rimpatriata della mia prima squadra, la Juventina. Eravamo in piazza, ho preso il microfono e ho detto: Spero di aver dato soddisfazioni e gioie ai miei compaesani e ai miei genitori». Pensieri in libera uscita, in presa alta, altissima. Partiamo da lì allora nel nostro amarcord, proprio dai suoi primi passi a Marghera. La prima domanda è di rito: tu sei nato portiere? «Sì, ini piaceva tuffarmi per terra ed il mio idolo era Roberto Anzolin. Mio padre giocava a calcio, ha fatto il difensore, è arrivato fino alla Serie C. Da piccolo capitava che mi portasse ai suoi allenamenti: io mi mettevo dietro la porta ad osservare il portiere. Una volta presi una pallonata nello stomaco e diventai nero come il carbone». A che età hai iniziato? «A 12 anni, e sono stato precoce, perché a quei tempi fino ai 14 non potevi fare campionati ufficiali. Mio zio ini portò alla Mestrina, dove trovai il signor Bossetto che l’anno seguente mi volle con sé al Murano. Mi portava lui al campo con la sua auto. E’ stato il mio primo maestro: tiri, esercizi a terra. Ad ogni modo i patti con la mia famiglia erano chiari: nessun vincolo, a fine stagione liberi tutti». Quindi? «Alla fine dell’anno non ci fu accordo, io rimasi fermo. Finché non si presentò la Juventina che cercava un portiere per gli Allievi. Vennero a casa mia e parlarono con mia madre. Stessi patti. Ci si allenava nei campi vicino alla fabbrica. Finito l’allenamento, via all’oratorio, una vera palestra in tutti i sensi che mi è servita moltissimo per la mia formazione». E l’Inter come e quando spunta fuori? «Con gli Allievi stavo andando bene e mi selezionarono per la rappresentativa veneta. Mi vide Gianni Invernizzi, all’epoca tecnico del vivaio nerazzurro. Fu tutto molto veloce. Nel gennaio del 1966 mi chiamarono per un provino ad Appiano Gentile. Andai in treno a Milano accompagnato da mio padre. Era la prima volta che mi allontanavo da casa. Ci fecero giocare contro la De Martino. Mi presero». Immagino tu fossi al settimo cielo «Insomma. Avevo il magone. L’idea di lasciare i miei mi pesava. Avevo 15 anni. Ricordo che quando tornammo a casa mio padre disse contento: “Siamo dell’lnter!’.’ Mia madre lo gelò: “Non è solo figlio tuo’.’ Il tempo di ragionare con calma e prendemmo la decisione: ciao Marghera, Milano arrivo». Ricordi i risvolti economici di quel passaggio? «So che per il mio cartellino l’Inter dette un milione e duecentomila lire. Qualcosa toccò anche a noi, ma non so quanto di preciso. So che comprammo due pellicce: una per mia madre, una per mia sorella». E per te? «Io vivevo al pensionato di Viale Famagosta, al numero 19 dove cerano gli Allievi. La Primavera era al 21. Ero iscritto a Ragioneria e mi davano 20.000 lire al mese, più 3.000 lire a vittoria. L’anno dopo 23.000 lire al mese e 5.000 a vittoria». Erano i primi soldi che vedevi? «Con il pallone si. Solo una volta, avevo 13 anni, cercai un lavoro durante l’estate. Volevo comprarmi la bicicletta, ma costava troppo. Allora trovai un impiego clandestino in una bottega di vetrai. Dieci ore a soffiare il vetro, vicino al forno per fare le gocce dei lampadari. Tornavo a casa e avevo le sopracciglia bruciate. Ressi un paio di settimane». E la bicicletta? «Riuscii a comprarla. Con un piccolo aiuto dei miei». Meglio il pallone, eh? (sorride) «Molto meglio, anche se la lontananza era un bell’ostacolo. Dall’inizio del ritiro estivo sono tornato a casa la prima volta per Natale. Però tutto stava andando per il meglio. C’era Gianni Invernizzi, feci due buone stagioni con gli Allievi e una con la Primavera con cui nel 1969 vincemmo lo scudetto di categoria superando in finale il Torino al sorteggio. Con me c’erano Oliali, Spadetto, Oscar Damiani. Come premio ci dettero 100.000 lire a testa». Ma tu in quell’anno eri spesso con la Prima Squadra. «Sì, mi volle il mister Alfredo Foni. Ero di fatto il terzo dietro a Girardi e Miniussi. Per l’ultima di campionato contro il Palermo era previsto il mio esordio, ma c’era da giocare la finale scudetto con la Primavera alla quale non volevo rinunciare». Qualche apparizione l’avevi comunque già fatta. «Il torneo “(Zitta di Milano“ e alcune amichevoli, tra cui quella contro il Santos di Pelé». 1969-70: sei nella rosa della Prima Squadra a pieno titolo. «E’ stata la stagione in cui sono diventato “grande’.’ Addio vivaio, addio pensionato. Pochi soldi in più e molte spese da sostenere, in primis l’affitto dell’appartamento. Andai a vivere con Mauro Bellugi, un personaggio unico. Girava con la Dune Buggy e d’inverno indossava la pelliccia. Grande tecnica, una rarità per uno stopper in quegli anni, e una vita “giocosa” fuori dal campo, al contrario del sottoscritto». Quante volte gli hai dovuto coprire le spalle? (ride) «Ti dico solo che una volta tornò a notte fonda, e al mattino la sveglia non suonò. Arrivammo in ritardissimo all’allenamento. 11 mister, Heriberto I ferrerà, propose una multa pesante, che solo per miracolo ci fu tolta. Sarebbe stato una sciagura con quel che si guadagnava». 1969-70, dicevamo: terzo portiere a tutti gli effetti. «Sì. Rimase Girardi e presero Lido Vieri. E io mi sono messo dietro di lui ad imparare. Aveva 30 anni, già una grande esperienza e una personalità spiccata. Con alcune fisse. Per combattere il mal di testa che aveva spesso, si metteva una fetta di patata sulla fronte e la teneva stretta con una fascia. E faceva la doccia gelata, inverno e estate che fosse». In quel tuo primo campionato non giochi mai, ma dal 70-71 rimani solo tu con Vieri. «Per sei stagioni abbiamo vissuto in simbiosi. Mi ha insegnato molto. E io sono cresciuto a sua immagine e somiglianza, a tal punto che se oggi vedo dei filmati di partite dell’Inter di quegli anni, faccio fatica a capire se sono io o Lido, tanto il mio stile assomigliava al suo. Ho ereditato anche dei vezzi, come il cappellino che lui portava spesso, anche quando non c’era il sole». E Delia sua fidanzata “messicana” che sai? «Non so nulla. Ti dico però che quando andammo in Messico per una tournée estiva anni dopo, lui dopo l’allenamento spariva senza dire niente a nessuno». Torniamo a te: quando hai usato per la prima volta i guanti? «I primi sono stati quelli di lana con la gomma delle racchette di ping pong sulle dita ai tempi della Juventina. Vieri indossava quelli da sci, sottili e di seta, praticamente mono-uso. Io lo imitavo. Ma in genere, specie se i campi erano asciutti, giocavo a mani nude. Cercavo la presa. I palloni di vero cuoio che si usavano allora lo permettevano». Dal taschino tiro fuori una data: 8 novembre 1970. (sorride) «Il mio esordio in A, all’improvviso, subentrando a Vieri infortunato. Nel derby con il Milan. Eravamo già sotto di un gol, io purtroppo ne presi due, ma francamente senza colpe, anzi feci anche un mezzo miracolo respingendo il primo tiro a botta sicura di Rivera nell’azione del 2-0». Non hai avuto il tempo di emozionarti. «Questo è vero, entrai a freddo, ma per fortuna io sono sempre stato un tipo che non si è lasciato mai condizionare dall’emozione. Ho sempre dormito prima delle partite, non ho mai patito la tensione. Prima della famosa gara contro il Borussia Mönchengladbach, so che il mister Invernizzi si preoccupò perché non mi vide con gli altri. Ma io ero già in camera a letto». Stavi sognando il tuo giorno da eroe? (sorride) «Non credo. Ricordo però una cosa. La domenica precedente avevamo perso il derby per 3-2. Con il famoso gol di polpaccio di Bigon, che segnò rimpallando in quel modo il rinvio di un difensore. Mi tornano in mente adesso le rassicurazioni di Giacinto bacchetti dopo quella gara: alle volte bastano poche parole per rimetterti in pista». Torniamo alla storia del Borussia. «Occorre una bella premessa. L’Inter vince il campionato ’70-71 e io gioco nove partite, tra cui alcune di quelle decisive. Dopo il derby del mio debutto, fu esonerato Heriberto Herrera e la squadra fu affidata a Invernizzi che mi conosceva benissimo e aveva piena fiducia in me». Tuttavia le gerarchie non erano mutate. «Vieri titolare, io riserva. E così anche la stagione dopo, che ci vede impegnati in Coppa dei Campioni. Dopo il primo turno contro i greci dell’AEK, ci tocca il Borussia di Netzer, un osso duro. Il 20 ottobre 1971 si gioca l’andata in Germania. Sul 2-1 Boninsegna cade per terra colpito da una lattina». Tu l’hai vista? «Io ero in panchina. Ho visto Bonimba semisvenuto e lui non era tipo da commedia. Poi una confusione enorme con Mazzola che consegna all’arbitro una lattina di coca cola. Ma non so se è proprio quella che ha preso in testa il nostro centravanti». Andiamo avanti. «Eravamo sul 2-1 per loro. Quell’episodio ha condizionato la gara. In particolare Vieri che prese altri 3 gol e dette l’impressione di essere frastornato. Così Invernizzi mi disse di scaldarmi. Mi ero appena affacciato all’ingresso degli spogliatoi, vidi Boninsegna sdraiato sul lettino, ma tornai subito in campo per il riscaldamento. Faccio il secondo tempo, prendo due gol, di cui uno su rigore tirato sulla mia destra da Sieloff. 7-1 per loro, ma poi gara annullata grazie al nostro avvocato Prisco che approfitto per ricordare con tanta nostalgia». Procediamo ancora. «A quel punto si gioca a Milano. In porta ci sono io e vinciamo 4-2, quindi il primo dicembre 1971 c’è la ripetizione in Germania, loro scelgono Berlino, uno stadio più grande. Al 15’ del primo tempo paro un rigore. Lo tira ancora Sieloff. Io gli faccio una doppia finta, lui abbocca. Mi tuffo sulla sinistra e blocco in due tempi. Mi carico alla grande, e la mia carica si trasferisce a tutta la squadra. Nel secondo tempo è un assalto. Mi tirano da ogni posizione. Ma paro tutto. 0-0 e turno passato». E Sandro Mazzola ti ribattezza “Pallottola”. «Perché schizzavo come un proiettile. E’ vero. Quella è stata la mia partita perfetta. I .’unico rammarico è aver poi trovato in finale l’Ajax di Cruyff. Quel 2-0 brucia ancora. Ma va bene così: avevo 20 anni, e non ero ancora titolare». Già: il balletto in tandem con Vieri è durato sei anni: troppi? «E chi può dirlo? Lui non mollava, per la società era comunque un patrimonio, lo ho sempre saputo stare al mio posto. Certo, dopo tre stagioni di altalena, ho iniziato anch’io a pormi delle domande. Poi nel 1974 Suarez puntò su di me. Ma l’Inter di quegli anni non dava molte garanzie e nel campionato ’75-76 giocai meno di Lido». La svolta vera alla fine di quel campionato. «A Vieri venne data la lista gratuita. Per me si apriva finalmente la nuova vita con il numero uno fisso sulla maglia». A proposito di maglia, avevi qualche preferenza nei colori? «Amavo il nero con i bordi azzurri. Poi il grigio e il verde. Ricordo che avevamo la Puma come sponsor tecnico, ma la divisa da portiere me la confezionava un maglificio privato». Adesso ti butto lì un nome: Eugenio Bersellini. «Il Tiger. È stato l’allenatore del cambio di passo. Un uomo onesto. Con lui si lavorava tantissimo e si mangiava poco. Ho partecipato anch’io ai raid notturni alle cucine di Appiano Gentile. Una notte che stavano per scoprirci, presi una stincata in un mobiletto che rischiai di non giocare la domenica. Con lui c’è stato un progetto e le vittorie». La prima è la Coppa Italia del 1978. «Ma io la finale non la feci. Ero in Argentina, ai Mondiali, terzo portiere dietro Zoff e Paolo Conti, unico interista nei 22». Parliamo di Nazionale adesso: il bello e il brutto della tua carriera di calciatore «Il bello è essere stato nel giro per molti anni, prima con le Under e poi, dal 1978 al 1985 con la selezione maggiore con la meraviglia del mundial ’82. Al gol di lardelli in finale intervenne la polizia per farci tornare in panchina, ma pensa te». Il brutto? «L’epilogo. Feci l’ultima gara nel giugno 1985. Poi mi richiamarono per una trasferta in Irlanda tempo dopo per fare il vice a Tancredi e soprattutto perché Zenga non fu trovato. Poi solo silenzio. Bearzot con me non fu onesto. Ci rivedemmo tempo dopo, all’addio al calcio di Cabrini. Tornammo sull’argomento e mi chiese scusa». Anche l’epilogo all’lnter non credo sia tra i tuoi ricordi migliori. «No. Mi fecero passare per mercenario, lo stesso trattamento riservato a Oriali. Niente di più falso e scorretto. Cera la nuova regola dello “svincolo” potevamo trattare direttamente con le società. Ma io aspettavo un segnale dall’Inter». Che doveva lanciare Zenga. «Nessun problema, Walter era pronto, so che da raccattapalle stava dietro la mia porta. Ma a me nessuno disse niente. E nell’attesa rinunciai alla Juventus. Andai poi alla Sampdoria, dove sono stato benissimo». Torniamo a sorridere: qual è il ricordo più bello con l’Inter? «Metto lo scudetto del 1979-80. Ero tra i più esperti, mentre nel 1971 mi ero appena affacciato al calcio che conta. Realizzai il record d’imbattibilità di 686,’ superando il mio . vecchio amico Vieri di un minuto. Comandammo il campionato dalla prima giornata all’ultima. E poi, in quella rosa, eravamo in otto cresciuti nel vivaio nerazzurro: io, Oriali, Bini, Canuti, Baresi, Ambu, Muraro, Pancheri più Occhipinti che giocò l’ultima di campionato. Ecco, vorrei che questo dato fosse rimarcato. E visto che ci sono vorrei correggere un errore sul mio profilo di Wikipedia». La matita rossa è in mano tua. «Nel 1993-94 non sono stato al Napoli come preparatore dei portieri, ma all’Udinese. Con Lippi ci siamo incontrati alla Juve, ci conoscevamo dai tempi di una tournée di fine stagione con l’Inter, lui venne con noi in prestito dalla Sampdoria. E con Lippi ho vinto poi tutto alla Juve e con la Nazionale. Nicola Calzaretta, Guerin Sportivo 10/2016