di Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 10/9/2016, 10 settembre 2016
I GUASTI DELLA SCUOLA DI MASCHI – [Intervista a Edoardo Albinati] – «Mi scusi se ho tardato a rispondere: sono arrivati improvvisamente i miei figli»: Edoardo Albinati è al telefono, da Roma, per dare l’ennesima intervista a partire da La scuola cattolica (Rizzoli), il libro monumentale, 1294 pagine, che gli ha fatto vincere lo Strega in luglio
I GUASTI DELLA SCUOLA DI MASCHI – [Intervista a Edoardo Albinati] – «Mi scusi se ho tardato a rispondere: sono arrivati improvvisamente i miei figli»: Edoardo Albinati è al telefono, da Roma, per dare l’ennesima intervista a partire da La scuola cattolica (Rizzoli), il libro monumentale, 1294 pagine, che gli ha fatto vincere lo Strega in luglio. Un romanzo sui cui si scrive ancora, perché è il sensazionale affresco di un pezzo di Roma, borghese, cattolico, in una scuola, maschile e confessionale, quella frequentata dallo stesso Albinati. Senonché, dallo stesso istituto, il San Leone Magno, arrivarono i tre massacratori del Circeo, Gianni Guido, Angelo Izzo e Andrea Ghira, i protagonisti di uno stupro mortale che, nel 1975, rese attonita l’Italia. Domanda. Albinati, molte delle recensioni del suo libro si occupano molto di quella vicenda, di quel sangue, di quell’orrore. E di quel quartiere che ha fatto in qualche modo da incubatore. Risposta. Sì incubatore credo sia la parola giusta. O forse quel quartiere era un recinto, per tenere a bada la violenza. E un recinto, solitamente, limita il tasso di aggressività, perché forse, il mio, è più un discorso sull’aggressività laddove viene controllata. Finché non esplode. E non è un caso... D. Non è un caso? R. Non è un caso che, quando la violenza esplode in popolazioni e ambienti più civilizzati di altri, diventi anche più efferata. Non è un caso, che il paese più avanzato d’Europa, culturalmente, filosoficamente, musicalmente e anche tecnologicamente, abbia creato le camere a gas. D. La Germania degli orrori nazisti. E anche il quartiere Trieste era un luogo civile e progredito in quella Roma... R. Guardi, se nella persone, negli ambienti, dove si pensa che questa aggressività sia rimossa, riaffiora in un modo perverso, che dà l’impressione che nessun mondo ne sia esente. Peraltro quel delitto, che non è nemmeno l’argomento del libro, ma sta nell’origine del suo spunto, come una specie di centro di gravità, quel delitto, dicevo, non può essere raccontato da uno scrittore. D. Perché? R. Perché è stato raccontato con vari strumenti: giornalistici e documentaristici, per cui, alla fine, non si può più parlare di quel fatto, tutto è stato già detto. E poi la letteratura, meglio la parola, non può raggiungere la significatività di quella foto di Donatella Colasanti (la vittima sopravvissuta, l’altra Rosaria Lopez, morì dopo giorni di sevizie in una villa del Circeo, ndr) D. Quel terribile scatto in bianco e nero, in cui il suo volto insanguinato e quasi assente, che riemergeva dalla bauliera di una 127. R. Esatto. Ci puoi mettere sopra parole sopra parole, centinaia di pagine e non arrivi a niente, al confronto di quell’immagine. D. E allora perché riscriverne? R. Perché puoi farlo su tutto il resto, sulle famiglie, sull’ambiente, sugli amici, sulla piscina, su tutto quello che sta intorno a quell’immagine, ma quell’immagine è intoccabile. E la caratteristica di quella storia fu il suo potere di contaminazione. D. In che senso? R. Quella storia mostrò come fosse contaminata una parte della società che si considerava a priori sana. D. Un ambiente sociale. R. Ma non perché sia stato l’ambiente ad averla prodotta quella trageida, o quella scuola. Semmai lì qualcosa aveva impedito che si manifestasse, il luogo che più a lungo ha resistito a che si manifestasse un fantasma violento che era soltanto dormiente. D. Com’era questa scuola, tutta maschile, forse legata a certi stereotipi? Che ruolo ha avuto in quella vicenda? R. Un grande ruolo. Infatti, prima ancora dell’elemento borghese, di quello della scuola privata ossia dell’elemento economico, prima ancora dell’elemento religioso, cioè il fatto che fosse cattolica, la discriminante, secondo me, è che fosse maschile. D. La scuola maschile, anziché la scuola cattolica. R. Se dovessi fare una graduatoria delle caratteristiche che possono aver creato una mentalità di quel tipo, degli assassini cioè, al primo posto metterei senza dubbio il fatto dell’omosocialità, del vivere, del crescere, dell’essere educati in una comunità esclusivamente maschile. D. Che tipo di mentalità? R. Una mentalità che era molto comune e che peraltro non era solo lì, ma che lì era indubbiamente concentrata. E chi ci cresceva dentro, poteva pensare a una totale alterità del femminile, con una idea di inimicizia di fondo, di nemico, di principale avversario da combattere, da disprezzare, da distruggere. È qualcosa da topi di laboratorio, non c’è neppure il bisogno di grandi sottigliezze psicologiche o psicanalitiche. D. Una misoginia allevata, insomma. R. Che sia l’educazione dei preti, una camerata di una caserma o qualsiasi altra comunità, che siano i guerrieri spartani, il risultato è lo stesso: il deprezzamento del femminile, lo sgomento e l’aggressività di fronte a questa sua totale alterità. D. Il femminicidio dei nostri tempi, è un fenomeno che discende in qualche modo da quei sentimenti? R. Mi chiedono tutti giorni di scrivere qualcosa su questo tema. D. E lei che ne pensa? R. Vedo una continuità, una pervasività, di cui oggi ci si rende conto di più, ma non perché sia un fenomeno solo attuale. Anzi, semmai, oggi c’è più sensibilità di una volta. Ecco, mi sembra un segno della continuità dei tempi. È una lunga guerra di posizione, la guerra dei sessi. E in ogni momento siamo in un punto di questo lungo conflitto. E interpreto brutalmente il Circeo come una vera e propria rappresaglia. D. Perché rappresaglia? R. Perché, in quel momento, si incontrarono, in maniera esplosiva, la forma tradizionale della concezione del rapporto uomo-donna e l’emancipazione femminile che, nel bene e nel male, avanzava per conto suo. È come si fossero incontrate quell’anno. D. E che la prima si fosse orribilmente vendicata della seconda. R. Tra l’altro, quegli anni furono segnati da un fenomeno per certi versi analogo. D. Vale a dire? R. Quello dei rapimenti di persona. Vedevo l’altra sera un documentario sulla grande criminalità a Roma. In pochi anni, fra il 1972 e il 1977 ci furono decine di sequestri di persona. D. Ricordo il povero Trombini, il re del caffè, preso in ostaggio, ucciso, e tenuto in frigo a pozzo, dal quale la salma veniva più volte estratta e fotografata col giornale in mano, per dimostrare che fosse vivo... R. Il rapimento è un altro crimine, non voglio confonderlo con lo stupro. Però è basato, anche quello, sulla sottrazione di un corpo al proprio controllo, per ottenere denaro o per seviziarlo sessualmente. Lo schema è lo stesso: impadronirsi di un’altra persona, che è diverso, totalmente diverso, dall’impadronisti dei suoi soldi, della sua pelliccia, dei suoi diritti civili. Si tratta di avere l’altro in totale balìa. Furono anni, in cui si raggiunse una facilità estrema di questo meccanismo sostanziale di pensiero: voglio una donna, voglio i soldi e prendo un corpo per avere una cosa o l’altra. D. Che differenze c’è tra adesso e allora? R. Allora ci fu la massima compresenza e compressione, in un unico anno, unico mese, in un giorno, di tutto ciò che era il mondo arcaico tradizionale, i suoi valori familiari, e il rapporto uomo-donna, che stavano mutando e le sue stesse nuove mutazioni. Quando ci sono questi scontri di epoche, si crea il terremoto. Come le faglie. D. Partono improvvise fino a spaccare la terra. R. Si muovono e, in un certo punto, crolla tutta. In un certo momento. Questa figura del terremoto, del momentum in cui l’energia dormiente si scatena, rende bene quello che accadde. Poi ci sono scosse di assestamento, che durano anni, però poi l’evento catastrofico diventa sensibile. Per questo ho puntato tutto su quell’anno. È come se si scontrassero, due Italie. D. Quali? R. Una era ancora quella addirittura dell’ante-guerra, neanche degli anni 50, e l’altra, quella di oggi che, in quel punto, si incontrano e scontrarono, dando vita però non solo mostruosità, perversioni, ma anche creatività e movimento. L’energia, nello sprigionarsi può creare forme meravigliose e mostruose. D. Facciamo qualche esempio? R. Non so, la musica o il mondo giovanile, che non era fatto solo da assassini e stupratori. Quello è stato un momento effervescente. In una pagina del libro ci sono i film del 1975 che vidi: fa impressione per quanti furono. D. Beh, Francesco De Gregori e Antonello Venditti, in quegli anni, iniziavano a cantare al Folkstudio di Roma. R. Sì, ci furono tante, tante cose. Chi, come me, allora aveva 18 anni, subiva molte botte ma anche molti baci, molti suoni e molti stimoli. Stimoli che potevano essere dolorosi, catastrofici ma anche meravigliosi. D. C’era anche l’ideologia e nel libro lei ne parla. Le figure di Izzo, Guido e Ghira si iscrivevano di diritto nella più tipica fascisteria capitolina. Tuttavia sembrerebbe appunto, nel suo romanzo, che quell’appartenenza c’entri meno di altro. R. Dedico parecchie pagine al neofascimo, come movimento, ma soprattutto come mentalità. Nel caso di questi assassini, la militanza politica, in senso stretto, è veramente secondaria. Izzo ha cercato in seguito di accreditarsi, come importante pedina del mondo neofascista, ma non lo era affatto. I veri protagonisti dell’estremismo nero lo hanno sempre rifiutato, e non solo perché era uno stupratore, ma perché non aveva nulla a che vedere con loro, a livello cronachistico, politico, giudiziario. D. Ha cercato di mettercisi ex-post. R. C’entrava poco o nulla. C’entrava, invece, una mentalità. Quella hai voglia se ci aveva a che fare con quel neofascismo. Anzi trovo che, alla fine, quella specie di congerie politica, molto confusionaria, molto pasticciata e contraddittoria, fatta di tanti pezzi disparati, dalla tendenze aristocratiche di Julius Evola al fascismo sociale d’Er Pecora (Teodoro Bontempo, esponente missino e poi di An, ndr)... D. ...fosse accomunata da una stessa mentalità? R. Sì, e una caratteristica era il disprezzo per le donne, un elemento comune, c’è poco da fare. Come per gli omossessuali. Gli uni e gli altri grandi avversari che il maschio sano deve combattere, affrontare, sconfiggere. Si ricorda quella battuta di Francesco Storace? D. Quando gli chiesero di dire qualcosa di destra, parafrasando Nanni Moretti? R. Esatto. Lui rispose: «A froci!». Sembrava solo una battuta divertente e corriva, ma è esemplare di quella mentalità. D. Anche molto romanesca, via... R. Sembrerebbe, ma in realtà, che cos’è essere di destra: dare a un altro del frocio. Se lei ha notato, ancora adesso i residui di questa mentalità vengono sventolati in tv, questo machismo, questa omofobia. Ora, se da un punto di vista politico il neofascismo è una moneta fuori corso, da quello dei comportamenti etici ancora si può pensare così. Si può non credere più allo Stato corporativo, ma magari a qualcuno viene in mente di andare a menare i transessuali. D. Senta Albinati, ma lei in questa Roma di oggi, settembre 2016, vede tracce di fascismo? R. Nel dirlo rischio sempre il fraintendimento e la lapidazione, ma sono convinto che il fascismo sia la più grande invenzione che la politica italiana abbia dato alla dottrina politica planetaria. Un’invenzione che ha avuto forme intermedie che hanno funzionato in tutto il mondo, dall’Argentina all’Iraq. D. E dunque? R. Dunque penso che col fascismo gli Italiani, avranno sempre a che fare. Naturalmente con forme diverse. Più che in Casa Pound, vedo fascismo a manciate nella Lega, in alcuni cose del M5s, e anche altrove. D. Quali cose dei grillini? In certe prese di posizione sui migranti? R. Leggo i commenti dei lettori di giornale che promettono all’avversario di spazzarlo via, di farlo cessare d’esistere, di tagliarlo via con un bisturi. Queste metafore della sanità contro il marciume, sono una tipica fraseologia fascista: qualcosa di malato deve essere estirpato, siano essi gli extracomunitari o gli avversari. E il Paese torna sano. La salute è la vera, grande ossessione fascista, quella dell’integrità, del corpo sano, che si è liberato dei suoi parassiti, dei suoi germi, usando le maniere forti. E questo sentimento continuamente si riaffaccia. Ma c’è dell’altro. D. Vale a dire? R. Hanno qualcosa di fascistoide anche le grandi soluzioni semplificatorie in politica, del tipo facciamo decidere tutto a uno. O la personalizzazione spinta: non si parla più di idee, di movimenti, ma di persone fisiche: Silvio Berlusconi, Beppe Grillo, Matteo Salvini, Matteo Renzi. Una forma di adorazione del capo, che ricorda molto il Ventennio D. La borghesia del libro, invece? C’è ancora? R. Vive la minaccia dell’impoverimento. Un meccanismo psicologico sottile: nessuno può provare un dolore maggiore della retrocessione in uno scacchiere sociale. Se è vero quello che è stato acquisito già non provoca più godimento, la perdita, invece, è dolorosissima. È quello che è successo ai figli dei benestanti di ieri, la mia generazione per esempio, che è più povera di quella dei padri. Alla paura dei rapimenti, abbiamo sostituito il terrore di arrivare sulla soglia, oltre la quale si perde la definizione di borghese. D. La scuola cattolica, di cui lei è il prodotto, viene raccontato con occhio asciutto. Sostanzialmente la rinnega. R. No, no. Non rinnego niente. E come si potrebbe fare, del resto, è come rinnegare d’essere italiano. D. Ma la reputa dissonante dalla realtà, come suggerisce qualcuno? R. Quella di oggi non la conosco. Ma pochi anni dopo rispetto a quanto l’ho frequentata, la caratteristica d’essere solo maschile è venuta meno. Ma allora si andava a studiare dai preti e dalle monache perché si pensava che facessero cose che in quella pubblica non si facevano. I miei non erano minimamente credenti, sono morti da laici, mi hanno mandato lì perché lo ritenevano un istituto di prestigio. Oggi quelle scuole sono di più «solo cattoliche»: la discriminante religiosa è ritenuta più importante, quando il resto è come fuori. Un lettore m’ha scritto che in fondo, a quell’epoca, era l’Italia stessa a essere una scuola cattolica. D. Una domanda sul libro: più che un romanzo, parrebbe un saggio raccontato. Alcune recensioni si sono viceversa impuntate sulla lunghezza, giudicata eccessiva per un romanzo. Che cos’è veramente questo libro. R. Avrei due risposte possibili. D. Prego. R. La prima. Il romanzo ha un natura ibrida poi, da Alexandre Dumas fino a Ken Follet, è diventato pura narrazione. Ma il romanzo nasce come genere che dovrebbe sussumere e riassumere tutti gli altri generi. In un romanzo dovremmo poter trovare pezzi di teatro, di filosofia, mescolati a una narrazione, ossia narrati invece che descritti e basta. D. L’altra risposta? R. È più provocatoria: e se non fosse un romanzo? Qual è il problema? Il problema è se è bello o brutto, noioso o interessante. O è un romanzo, e lasciatemi in pace, oppure non lo è, e giudicate se è interessante o no. Consiglierei ai lettori di lasciarsi guidare dal piacere o dispiacere. D. Qualcuno c’ha letto, nella parte finale, i segnali di una posizione religiosa, i prodromi di una conversione dell’autore. Infatti, in ogni, caso lei non risulta mai anticlericale. Chi è insomma, Albinati? R. Chi sia Albinati non è la materia del libro, è materia dei miei figli, dei miei amici, e chi se ne frega di chi è. C’è un personaggio che fa un percorso, si chiama Edoardo Albinati, e che conosce l’abisso e anche il sublime della vicinanza al religioso come tale. Penso che sia accaduto sempre un po’ a tutti, a parte qualcuno particolarmente ateo o particolarmente bigotto, tutti gli altri oscillano in un’incertezza che, secondo me, è un tipo di rapporto con il religioso. Ho letto da qualche parte.. D. ...ha letto da qualche parte? R. Di un culto degli indiani di America, dove il nome stesso di Dio era «colui la cui esistenza è dubbia». L’Albinati personaggio del libro, lo scrittore, forse anche lei, forse molto persone, quel dubbio lo nutrono. Questo non vuole dire che ci siamo convertiti o che siamo diventati miscredenti. Rimane un’interrogazione. Anche il libro è così. Se qualcuno ci legge una conversione, non so che romanzo abbia letto. D. Forse è saltato al finale... R. Forse (ride). Ma la più bella definizione romanzesca che io trovo in rapporto alla fede, sta nei Demoni di Fedor Dostojevski, in cui Satov, alla domanda se credesse in Dio, risponde: «Io crederò». di Goffredo Pistelli, ItaliaOggi 10/9/2016