Federico Fubini, Corriere della Sera 10/9/2016, 10 settembre 2016
LO STRAPPO DI SIENA, IL TESORO E IL PARADOSSO UE
Se c’è un punto sul quale l’Unione bancaria in Europa per ora ha fallito in pieno, è quello iscritto nel suo nome: unire le banche europee. Da quando quasi tre anni fa si è messo in moto il sistema di vigilanza federale dell’area euro, tenuto insieme da regole uguali per 19 economie, non si conta una fusione di rilievo anche solo minimo fra istituti di Paesi diversi. In questo l’area euro rimane finanziariamente frammentata: ha più una vigilanza unica che un mercato unico del controllo delle aziende di credito. Le aggregazioni erano più frequenti prima, fino al 2008, quando i regolatori nazionali passavano il loro tempo a ostacolare scalate più o meno amichevoli da altri Paesi dell’area euro.
Non è lo scenario che si augurava la francese Danièle Nouy, quando ha accettato di guidare il cosiddetto «meccanismo unico di vigilanza» (Ssm) nella Banca centrale europea. Forse però il suo sistema di controlli spiega parte della paralisi che sembra scesa sulle fusioni in Europa e all’interno stesso dei singoli Paesi: in Italia la crisi bancaria e la riforma delle banche popolari per ora hanno prodotto un’unica aggregazione importante, fra la Bpm di Milano e il Banco popolare di Verona; in Germania i matrimoni in un sistema di migliaia di banche procedono a dosi omeopatiche.
I banchieri in Europa non osano comprare aziende concorrenti perché temono che la Bce chieda loro di rafforzarsi trovando subito più capitale, quindi diluendo e penalizzando gli azionisti attuali. Non si muovono perché temono di esserne licenziati. E i regolatori di Francoforte non li incoraggiano, anche per limitare rischi bancari di cui loro stessi potrebbero dover rispondere se una fusione finisse male. Quando un istituto europeo ha espresso interesse per almeno parte delle quattro banche nate dal crash di Etruria, Banca Marche, CariFerrara e CariChieti, il colpo di freno è arrivato dal «joint supervisory team»: la squadra di cinque regolatori europei che la Bce dedica a ciascuna grande banca. Poco importa che le quattro banche «nuove» oggi siano risanate, quei cinque non volevano dover rispondere domani di qualunque rischio preso dall’azienda a loro affidata. Meglio la certezza apparente di non investire nulla.
La vigilanza della Bce deve ancora entrare nella maturità, e non è una fortuna per l’Italia che questa crescita stia avvenendo nel pieno della sua crisi bancaria. Ma l’errore maggiore per i banchieri, grandi azionisti e per le autorità di Roma sarebbe ora di abbandonarsi alla litania del biasimo verso l’Europa per i problemi ancora irrisolti. Sarebbe una verità parziale. Lo sarebbe perché la strada di una ricapitalizzazione pubblica o semi-pubblica di Montepaschi era aperta a Bruxelles, se solo a Roma ci fossero state più risorse e soprattutto un sistema di partiti capace di unirsi attorno a questa priorità. Ancora di più, l’ostacolo alla soluzione rapida dei problemi oggi è soprattutto politico e domestico. Le quattro banche verranno probabilmente cedute prima del referendum costituzionale, a un prezzo non esaltante e limitato dall’incertezza che quello crea. La Popolare Vicenza e Veneto Banca minacciano perdite future per il fondo Atlante che le ha acquistate - inevitabili - ma restano attraenti per gli investitori. È soprattutto Montepaschi che non ha chance di trovare capitali fino a quando la nube d’incertezza del referendum non sarà dissipata, ammesso che questa poi non porti tempesta. E Unicredit a sua volta dovrà probabilmente attendere che l’incognita su Mps sia levata, prima di rivolgersi al mercato. Fare dell’Europa il capro espiatorio dei dilemmi italiani è sempre troppo comodo.