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 2016  settembre 12 Lunedì calendario

ARTICOLI SU SIMONA VINCI


RAFFAELLA DE SANTIS, LA REPUBBLICA 12/9 –
Dopo il trionfo la scrittrice spiega la genesi del suo romanzo sui manicomi. “E ora vorrei raccontare le storie dei profughi”
Ha voluto questo libro così come lo aveva pensato. Ci ha lavorato otto anni, ha difeso la sua idea con l’editor di Einaudi. «Non credevo di vincere il Campiello, anche se l’accoglienza dei lettori in questi mesi in giro per l’Italia è stata da subito positiva. Eppure è un libro complesso, ci sono dentro tante storie, tanti stili. Un romanzo che nasce dall’esigenza di ridare voce a chi non l’ha avuta ». E sugli altri candidati ha parole di apprezzamento: «Una buona cinquina, libri di grande intensità».
Simona Vinci aveva partecipato al Campiello due volte, nel 1999 con In tutti i sensi come l’amore e nel 2003 con Come prima delle madri, sfiorando la vittoria senza però riuscire a conquistare il podio. Stavolta ce l’ha fatta, con uno dei suoi libri più elaborati, in cui la prosa si mescola ai versi, ma sul dolore non c’è sconto. Voleva raccontare i folli, le persone rinchiuse nei manicomi, quelli che nessuno vede. Ora che La prima verità (Einaudi Stile Libero) ha vinto la cinquantaquattresima edizione del Campiello, la scrittrice, si rilassa e spiega l’importanza di un romanzo che ha toccato la sua vita personale in profondità, forse più di altri scritti nel passato: «Sono maturata. Quando ho finito di scrivere ero diversa. In mezzo ci sono stati tanti traslochi, è arrivato un figlio. Venivo da un periodo difficile». Un periodo lungo, iniziato molto tempo prima, quando stava lavorando a
Strada provinciale tre, uscito nel 2007: «Quel romanzo non ha avuto molto successo, ma la protagonista, la donna che viaggiava da sola lungo una strada provinciale, ero io. Stavo attraversando un grande momento di incertezza sulla mia identità. Non potevo più continuare a vivere in quel modo. Soffrivo di attacchi di panico, ero un po’ anoressica. Clinicamente mi era stata diagnosticata una “depressione ansiosa reattiva”».
E allora si è messa a scrivere più di prima, il risultato è un libro spiazzante, in cui l’autrice si osserva attraverso le esistenze di sconosciuti. La cura per Simona Vinci è stata sempre il suo lavoro: «Il mio legame più forte con la vita è dato dalla scrittura, ma il parlare solo di me stessa non mi dava più risposte. Avevo bisogno di specchiarmi nella vita degli altri. Lo scrittore è uno che guarda, ascolta. Dentro il suo Io ci sono tante altre storie, tanti stili diversi. Come nel mio romanzo».
La prima verità narra pezzi di vite altrui, racconta del manicomio di Leros, un’isola dell’Egeo, dove venivano rinchiuse persone con problemi psichiatrici ma anche dissidenti politici e handicappati: «Il libro è il risultato di un lungo percorso di analisi. Anni che mi hanno portata ad interessarmi del disagio psicologico. La storia di Leros si è intrecciata con la mia. Nel paese in cui sono cresciuta, Budrio, in provincia di Bologna, c’erano due istituti psichiatrici ». In realtà oltre a servirsi delle esperienze dirette, per il romanzo Simona Vinci ha utilizzato documenti di archivio, studiando le cartelle cliniche disponibili dei ricoverati, sia a Budrio che a Leros: «Avrei voluto consultarne di più, ma dopo la chiusura dei manicomi molte sono state fatte sparire».
È riuscita anche a conoscere Franco Rotelli, uno dei principali collaboratori di Basaglia, artefice con lui della riforma che aprì i cancelli dei manicomi: «È stato bello poterlo incontrare, anche se ci siamo visti solo dopo la pubblicazione del libro. Mi ha raccontato altre storie, che potrei utilizzare in futuro». Dunque non è finita qui: «La partita con l’isola di Leros non è chiusa. Vorrei tornarci. Ora nel luogo del vecchio manicomio ci sono i profughi. Voglio andare, raccogliere le loro testimonianze. L’isola mi chiama».

***

STEFANIA VITULLI, IL GIORNALE 12/9 –
Campiello 2016 in rosa: dopo cinque finaliste al Campiello Giovani, è stata Simona Vinci, classe 1970, con La prima verità (Einaudi), a trionfare sabato alla Fenice per la 54^ edizione del Campiello, il premio di Confindustria Veneto. Ce l’ha fatta dopo che per due volte - nel 1999 con In tutti i sensi come l’amore e nel 2003 con Come prima delle madri, era entrata in cinquina ed era stata molto vicina alla vittoria. Elisabetta Rasy, classe 1947, l’altra scrittrice in finale, arriva seconda con Le regole del fuoco (Rizzoli).
Scritto in otto anni, il romanzo della Vinci, a metà tra narrativa classica, auto e docu-fiction, sfiora a tratti la sperimentazione con salti spazio-temporali e differenti piani narrativi. Non è dunque il classico plot da giuria popolare, tanto che la favorita nei pronostici era invece la Rasy, con un delicato amore tra volontarie mediche, al fronte nel 1917. Al centro di La prima verità c’è comunque un altro tema scomodo: la chiusura dei manicomi e gli scandali legati alla follia. La malattia mentale e il passato oscuro degli ospedali psichiatrici vengono narrati in un viaggio ideale tra Budrio, dove la Vinci vive attualmente, e l’isola di Leros, oggi meta turistica, ma dal 1958 agli anni Novanta manicomio-lager, che ha ospitato fino a 1000 persone.
Come mai Leros?
«Mi sono documentata dopo aver letto alcuni articoli sull’isola, che oggi ospita un campo per migranti. E ho trovato un servizio fotografico scattato di nascosto quando il manicomio era aperto».
All’interesse per la malattia mentale come è arrivata?
«Attraverso il disagio mentale di mia madre. E poi attraverso il mio. Ho fatto un percorso psicoanalitico di sette anni, dopo una serie di attacchi di panico che mi hanno tenuta chiusa in casa a lungo. Il lavoro sulla mia depressione mi ha fatto capire che uscire da me stessa per andare incontro al dolore degli altri poteva aiutarmi».
Quindi «La prima verità» è ancora autofiction?
«In realtà la parte autobiografica non esiste. La letteratura cambia sempre tutto. Non è importante come sia avvenuta la mia esperienza diretta con il disagio mentale. Certo, se non mi fosse successo non avrei scritto questo romanzo».
Come mai ha vinto lei sulla Rasy?
«Il romanzo è andato bene fin dalla sua uscita e qualcuno si è stupito che un libro di una certa qualità letteraria riesca a raggiungere il grande pubblico. Ma io ho lavorato per ottenere questo risultato, perché un libro a strati, denso, complicato permettesse al lettore di arrivare fino in fondo».
La giuria del Campiello rispecchia il lettore medio italiano?
«I lettori non hanno più voglia di farsi menare per il naso. Cercano storie contemporanee. Come la mia, come quella di Tarabbia».
Vecchioni, neogiurato, ha detto più volte che non se ne può più di storie tristi.
«Non ritengo che il mio sia un libro triste. Il disagio psichiatrico è storia di molti, che leggendo si sentono liberati. Ho cercato di non calcare troppo la mano sul dramma».
Ma è vero che in Italia il romanzo classico ha lasciato il posto alla cronaca?
«Non mi pare, le classifiche son piene di gialli e storie d’amore. E poi la forma del romanzo si evolve, cambia: dipende da come lo scrivi».
È nato un femminismo della letteratura?
«Ci siamo prese uno spazio importante, sì, con donne come Michela Murgia, Loredana Lipperini, Concita de Gregorio. Fin dal primo libro, comunque, io sono stata trattata come uno scrittore. Per me la letteratura non ha sesso. Le quote rosa mi disturbano. Il lavoro culturale consiste nel capire che siamo tutti uguali nelle differenze».