di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 12/9/2016, 12 settembre 2016
Tags : Afghanistan Talebani Donne
DONNE, ULTIME VITTIME DI 40 ANNI D’INFERNO
Portava appuntata sui capelli corvini una veletta vezzosa, il compromesso più avanzato tra la femminilità e l’islam del nord-ovest, dove i mullah vogliono le donne a capo coperto ma sono disposti a trattare. Alta, slanciata, una rosa nera nella città delle rose rosse, Mazar-i-sharif. L’ansia le sgranava gli occhi mentre discutevamo dei Taliban ormai alle porte, e tetri i suoi compagni dell’università, i ragazzi non meno delle ragazze. In quel 1996 Mazar, la seconda città dell’Afganistan, era il regno del generale Dostum, un rapace signore della guerra. Sotto Dostum la vita era uno schifo ma nessuna dittatura del pianeta pareva ai suoi giovani sudditi peggiore della tirannide che avrebbero instaurato i Taliban. E non perché i Taliban fossero più feroci di altri guerrieri afghani, perlomeno non stupravano; però avrebbero proibito anche le poche libertà ancora concesse, una soprattutto: la libertà biologica di cercare l’amore e di innamorarsi.
Due anni dopo, quando i Taliban occuparono definitivamente Mazar, l’università fu chiusa e le ragazze sparirono sotto i burqa. All’ora della preghiera i mullah della polizia coranica le sospingevano verso la moschea colpendole con catene di bicicletta. Le colpivano senza odio, nel modo svagato e impassibile col quale un pastore frusta le sue capre.
Vent’anni dopo non riesco a immaginare cosa ne sia di Roxana, si chiamava così. Potrebbero essere stata ammazzata dai Taliban quando presero Mazar e sterminarono centinaia di non-pashtun. Oppure uccisa quando i bombardamenti americani permisero a Dostum di riprendersi la città e massacrare a sua volta centinaia di Taliban. Forse è annegata nel Mediterraneo, come altri afghani. O magari è riuscita a raggiungere l’Italia, dove avrà appreso da alcuni di appartenere all’esercito invasore islamico (dunque tornatene al tuo Paese, che ci contamini i nostri valori), da altri che il burqa è l’abito tradizionale delle ragazze afgane (dunque non fare lagne e consegnati ai Taliban, che noi siamo contro la guerra).
Ma se vent’anni dopo è ancora a Mazar, Roxana dev’essere inquieta come allora. La Nato, questo deve esserle evidente, non è più in grado di chiudere la grande mischia afgana. La pace è impossibile, l’anarchia militare aumenta. È comparso l’Isis, verso cui ora gravitano le bande del terrorismo pakistano che fino a ieri lavoravano con i Taliban. Gli occidentali friggono dall’impazienza di rimpatriare prima del termine previsto (2020) i loro tredicimila militari, tra i quali un migliaio di italiani. Li tengono ancora laggiù per ragioni in parte geo-strategiche ma soprattutto simboliche. L’Alleanza atlantica non può ammettere di aver sacrificato le vite di cinquemila soldati e un trilione di dollari per consegnare l’Afghanistan alle bande fondamentaliste che vogliono Roxana sotto il burqa.
Non che a molti di noi importi delle afghane, figuriamoci. Ma il ritorno alla prigione di cotone delle donne che nel nord oggi possono lavorare e andare a scuola sarebbe l’immagine più esplicita di un fiasco clamoroso.
Le ragazze dell’Afghanistan sono diventate un fattore del conflitto fin dal suo inizio: nel lontano 1979 i sovietici invasero il Paese e, nel più puro stile imperiale, decisero di civilizzarlo. Volenterosi insegnanti, in genere mossi da autentico slancio pedagogico, si sparsero per le più sperdute lande come chierici itineranti, per portare la nuova verità: uomini e donne hanno pari dignità, l’amore o è libero o non è.
I ragazzi furono incoraggiati a flirtare, a convivere. Nulla che risultasse sorprendente all’alta borghesia di Kabul, che già aveva sperimentato la minigonna nel chiuso dei propri salotti. Ma nella gran parte dell’Afghanistan quei nuovi costumi parevano non solo scandalosi ma anche sovversivi, rompevano le tradizioni patriarcali, minavano l’autorità dei genitori. Gli imam guidarono la ribellione, le loro prime vittime furono gli apostoli dell’era nuova, gli insegnanti. L’impero sovietico reagì con la solita ferocia, appena fuori da Kandahar c’è ancora una collinetta bassa, quanto rimane di un villaggio raso al suolo dai bombardieri di Mosca perché da lì qualcuno sparacchiava sui convogli russi.
E su questo sfondo propizio il trio più nefasto della storia occidentale, Reagan-Thatcher-Feisal dei Saud, applicò la sua strategia: potenziare il fondamentalismo per combattere il comunismo. Nei campi dei profughi afghani scappati in Pakistan arrivarono libri di scuola ideati nell’università del Nebraska, introducevano perfino attraverso l’aritmetica l’ideologia del Jihad come guerra santa contro i senza-dio. Si sposava perfettamente con le tradizioni guerriere delle regioni pashtun e neppure tentava di mitigarle con impacci come i diritti universali o i diritti delle donne. Molti anni dopo, quando a Kandahar trovai un camionista dalle mani enormi che al tempo della guerra santa era il mujahid addetto a strangolare i prigionieri, pareva dispiaciuto d’averne soppressi diverse centinaia. Però aggiunse, con un candore che mi parve sincero: perché non ci diceste che i prigionieri non andavano fatti fuori?
Tuttavia i Mujahiddin, sconfitto il regime lasciato dai sovietici, nel nord non vietarono alle donne di lavorare né le espulsero dagli impieghi pubblici, come invece fece il mullah Omar appena i Taliban presero Kabul. Il suo editto provocò il collasso di quel minino di welfare sopravvissuto alla guerra. Una settimana dopo, quando andai all’orfanotrofio di Kabul lo trovai puzzolente di orina e straboccante di bambini abbandonati a se stessi. Poiché il personale femminile era stato licenziato, tutte le incombenze ricadevano su un custode desolato, incluso il compito di ricevere vedove straziate che avendo perso il lavoro supplicavano di prendere un loro figlioletto, almeno avrebbe mangiato. Ma anche l’orfanotrofio era alla fame. Quando andai a sollecitare un intervento della Merhamet, la Croce rossa afgana, si era già insediato il nuovo direttore, un Talib grasso e arrogante. Disse che gli importava un accidenti dell’orfanotrofio, se ne occupassero gli occidentali. Negli anni successivi l’indifferenza dei Taliban alle sofferenze della popolazione, sommata alle loro ossessioni puritane e ad una totale inettitudine, ha prodotto più morti della guerra.
L’editto contro le donne del mullah Omar decise la storia. La reazione dell’opinione pubblica americana costrinse l’amministrazione Clinton a rinnegare la benevolenza accordata ai Taliban. A sua volta Omar rifiutò qualsiasi compromesso, perfino i “ritocchi cosmetici” suggeriti dalla delegazione inviata da un’agenzia dell’Onu, UNDC. Fu l’inizio di uno scontro che vent’anni dopo è ancor meno maneggiabile di quanto fosse allora. Dal 2013 si cerca si tenta di avviare un negoziato tra Kabul e i Taliban, che però non parte. Un mese fa per la prima volta una donna, la senatrice Sediqa Balkhi, è stata cooptata nella delegazione governativa: occorreva placare l’apprensione di molte afgane per la presentazione di disegni di legge sulla ‘pubblica moralità’ che parevano ammiccare ai Taliban e ad altri assassini fondamentalisti, un genere ben rappresentato anche nel parlamento afgano. Ma il rischio che elementari diritti siano sacrificati sull’altare della ‘pace’ è soltanto teorico, gli unici Taliban che credono nella trattativa sono alcuni intellettuali della vecchia guardia – acuti come mullah Zaif, moderati come Sher Mohammed Stenakzai, ma irrilevanti. Gli altri, i guerrieri, conoscono solo il mestiere delle armi e considerano la pace una disgrazia esistenziale. Ormai sono definitivamente asserviti al servizio segreto pakistano, l’Isi, che li controlla attraverso un suo uomo, il vice-emiro Sirajuddin Haqqani, capo delle operazioni militari. Hanno un portavoce che li spaccia per patrioti e li dichiara disposti a tollerare che le bambine imparino a leggere e a scrivere. Nei territori che controllano continuano ad ammazzare donne con un certo compiacimento, confermano i video che poi mettono in rete. Adultere, ragazze scappate di casa per non essere date in mogli ad uno spasimante disgustoso, femmine variamente ribelli anch’esse colpevoli di amare liberamente. Se riescono a raggiungere i rifugi di organizzazioni afghane o internazionali sono salve: e questa, nella storia afghana, è una clamorosa novità. Se le intercetta la polizia finiscono in galera, prigioniere ma vive. Più spesso sono ammazzate dalla famiglia, senza troppo chiasso, o dai Taliban nei territori che controllano: sepolte fino al petto e lapidate, oppure fucilate nella schiena dentro il loro burqa azzurro, un povero cencio abbandonato nella polvere (le loro storie sono nel sito di un gruppetto marxista, Rawa).
È una guerra nella guerra, dilaga e inferocisce ogni anno di più. Secondo l’AIHRC, un comitato indipendente afghano, le violenze contro le donne sono aumentate del 7% rispetto all’anno precedente, una media di 400 al mese. Sembrerebbe in corso una silenziosa, solitaria, ‘rivolta delle ragazze’, che provoca la reazione feroce dei fondamentalismi. Se questo è vero, in questa storia ci siamo anche noi. Bene o male la speranza che guida la ribellione è un prodotto involontario della presenza della Nato in Afghanistan. Non che fosse questo l’obiettivo occidentale, ma è successo: e adesso il futuro delle ribelli in qualche modo riguarda anche noi.
di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 12/9/2016