Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 12/9/2016, 12 settembre 2016
LEADER SEPOLTI DALLE MACERIE
L’unica volta che il terremoto non ha preso a spallate mortali la politica, oltre che la povera Italia, è stato nel 1976, quarant’anni fa. Era di maggio. Alle nove di sera di giovedì sei, la terra si aprì nel Friuli Venezia Giulia, nelle province di Udine e Pordenone. L’epicentro fu a Gemona. Decimo grado della scala Mercalli, 6,4 secondo quella di Richter. Distruzione, in una sola parola. E 989 morti e tremila feriti. Il governo era un monocolore democristiano, presieduto da Aldo Moro. Al Viminale c’era Francesco Cossiga. Al Bilancio e Mezzogiorno, Giulio Andreotti, con Salvo Lima sottosegretario. Fu Cossiga, alla sua prima vetrina mediatica, a inventare il personaggio che divenne il simbolo istituzionale del sisma friulano: Giuseppe Zamberletti, nominato commissario straordinario della Protezione Civile.
LA SALDATURA DELLE DUE “CHIESE”
I palazzi romani, però, proprio in quel frangente erano distratti dalla campagna per le elezioni politiche. Si votò il 20 giugno, una data fatidica nella Prima Repubblica. Le urne premiarono, come mai era avvenuto, il bipartitismo imperfetto formato da Dc e Pci. Oltre il 70 per cento dei consensi per le due grandi “chiese” avversarie nella guerra fredda all’italiana. Fu questo il certificato di nascita di una nuova era. La solidarietà nazionale. Il compromesso storico. Da un lato Moro, dall’altro Enrico Berlinguer, sobrio e riservato pontefice rosso. A incarnare la storica collaborazione, con la “non sfiducia” dei comunisti, fu il terzo governo di Giulio Andreotti. E quando poi il Friuli ricominciò a tremare nel successivo settembre, Andreotti andò in pellegrinaggio sulle macerie e venne contestato duramente: addirittura alcuni senzatetto si buttarono sulla sua auto.
“NON FAREMO LA FINE DEL BELICE”
In realtà, proteste a parte, la ricostruzione post-terremoto in Friuli è stata l’unica eccezione positiva nella secolare narrazione politico-sismica nel nostro Paese, al punto da parlare di “modello Friuli”. Un modello vincente proprio perché Roma non pretese, meglio, non riuscì ad avere il ruolo di protagonista principale della tragedia. Ecco perché non ci fu alcuna spallata, sia nel breve periodo, sia in quello medio-lungo. Il governo centrale fu costretto a lasciar fare ai sindaci e ai comuni colpiti, che con velocità stabilirono le priorità: prima le fabbriche, per tornare a lavorare, poi le case. In dieci anni la ricostruzione fu completata. Certo, non mancarono piccoli scandali di corruzione, ma il “modello Friuli”, paragonato a un miracolo, trionfò all’insegna del “ce la faremo da soli”. Non a caso, su uno dei cartelli che furono issati lassù con orgoglio profetico c’era scritto: “Non faremo la fine del Belice”. Il terremoto nella Valle del Belice, Sicilia occidentale, c’era stato nel gennaio del 1968: 296 morti. Al governo centrale, sempre la Dc e sempre Aldo Moro. Le ultime baracche, nel Belice, sono state smantellate dieci anni fa, nel marzo del 2006. L’autarchia friuliana nella ricostruzione non è solo una specificità tipicamente settentrionale dell’Italia ma costituisce in nuce l’ideologia del fenomeno federalista destinato a manifestarsi, un decennio dopo, con la fondazione della Lega di Umberto Bossi.
IL LAMENTO CAMPANO: “FATE PRESTO”
Il 23 novembre del 1980 era una domenica. In Campania il sole tramontò di un rosso insolitamente acceso. La botta arrivò dopo qualche ora. Alle 19 e 34. Un’intensità appena superiore a quella del sisma in Friuli, quattro anni prima: 6,5 della scala Richter. L’epicentro fu in Irpinia ma la devastazione colpì anche altre due province della regione, Salerno e Napoli, e la Basilicata. Il primo, immediato dramma fu di realizzare la portata della catastrofe. Tremila morti e centinaia di comuni danneggiati. Il Mattino scolpì un titolo passato alla storia: “Fate presto”. Le polemiche sui ritardi dei soccorsi spinsero il capo dello Stato, Sandro Pertini, socialista, ad andare in tv per difendersi, all’indomani della sua visita nelle zone del sisma: “Ebbene, a distanza di 48 ore, non erano ancora giunti in quei paesi gli aiuti necessari. È vero, io sono stato avvicinato dagli abitanti delle zone terremotate che mi hanno manifestato la loro disperazione e il loro dolore, ma anche la loro rabbia. Non è vero, come ha scritto qualcuno, che si sono scagliati contro di me, anzi, io sono stato circondato da affetto e comprensione umana. Ma questo non conta”. Fu il passo successivo del messaggio di Pertini a provocare le dimissioni di un ministro.
PERTINI PARLA, ROGNONI LASCIA
Disse l’allora presidente della Repubblica: “Quello che ho potuto constatare è che non vi sono stati i soccorsi immediati che avrebbero dovuto esserci. Ancora dalle macerie si levavano gemiti, grida di disperazione di sepolti vivi. E i superstiti presi di rabbia mi dicevano: ‘Ma noi non abbiamo gli attrezzi necessari per poter salvare questi nostri congiunti, liberarli dalle macerie’”. Era il 26 novembre, di sera. Dopo la mezzanotte il democristiano Virginio Rognoni rimise l’incarico di ministro dell’Interno. Era il governo quadripartito Dc-Psi-Psdi-Pri di Arnaldo Forlani che poi nella successiva primavera si sarebbe dimesso per lo scandalo della P2, aprendo per la prima volta le porte di Palazzo Chigi a un premier non democristiano: Giovanni Spadolini, leader dell’Edera repubblicana. Il messaggio tv di Pertini mise sotto accusa il Partito-Stato scudocrociato e nella direzione del 27 novembre il Pci berlingueriano seppellì per sempre la stagione della solidarietà nazionale, già archiviata con la tragedia di Moro. In nome della questione morale, i comunisti proposero un’alternativa di governo “per ridare fiducia al popolo, per mobilitare le forse sane, per liberare il Paese da un sistema di potere corrotto”.
IL GRANDE BANCHETTO
Il terremoto irpino ha inghiottito una cifra mostruosa di soldi: 60mila miliardi di lire, pari a 30 miliardi di euro. L’economista Ada Becchi Collidà ha scritto di “partito ed economia della catastrofe”. A sua volta la ricostruzione generò altri mostri. Come ha ricordato Paolo Mieli nel 2010, il sisma irpino fu uno “spartiacque” che tratteggiò lo “stereotipo di un Mezzogiorno inetto e corrotto”. Napoli divenne la capitale della peggiore politica poi abbattuta da Tangentopoli: Antonio Gava, Paolo Cirino Pomicino, Vincenzo Scotti per la Dc, i socialisti Giulio Di Donato e Carmelo Conte, il liberale Franco De Lorenzo. E furono i dc napoletani diventati classe dirigente nazionale a fare patti con la camorra per liberare uno sconosciuto assessore regionale di nome Ciro Cirillo, rapito dalle Brigate Rosse. Niente fermezza, stavolta, come nel caso di Moro. La ricostruzione post-terremoto fu al centro dello scambio, dapprima con la Nuova camorra organizzata di Cutolo, poi con i vincitori della guerra tra clan: la Nuova Famiglia di Alfieri e Galasso e il cartello di Nuvoletta e Gionta, alleato dei Corleonesi di Riina. Anche la Dc avellinese dei basisti non fu immune dai sospetti e il cosiddetto Irpiniagate segnò la parabola discendente del leader di questa corrente: Ciriaco De Mita, emulo di Fanfani con il doppio incarico di premier e segretario del partito.
UNO STRANO PARTIGIANO AD ONNA
Come ad Amatrice e nel resto dell’Italia centrale, anche all’Aquila, in Abruzzo, la scossa arrivò di notte, il 6 aprile del 2009, intorno alle tre e mezzo. Inizialmente, la gestione del sisma, tra le casette delle new town e l’astro di Guido Bertolaso, padre padrone della Protezione Civile, segnò in positivo nei sondaggi il governo di Silvio Berlusconi. Il suo indice di popolarità toccò il picco con il fatidico “spirito di Onna”. Lì, in un paese simbolo del terremoto, l’ex Cavaliere, fazzoletto partigiano al collo, tenne uno storico discorso pochi giorni dopo, il 25 aprile, mettendosi a capo di “un grande popolo coeso nella generosità, nella solidarietà e nel coraggio”. Ma il premier non riuscì mai a godere di questo successo: gli scandali sessuali di Noemi Letizia e Patrizia D’Addario furono il brusco abbrivio per la lunga fine del suo ultimo governo. E l’efficienza di Bertolaso, amico di Gianni Letta e Denis Verdini, fu ben presto smascherata dalle inchieste sulla cricca, simboleggiate dalla nota telefonata dell’imprenditore Piscicelli che la notte del sisma rideva pensando agli appalti della ricostruzione. I terremoti alla politica, non hanno mai fatto bene.
Fabrizio d’Esposito, il Fatto Quotidiano 12/9/2016