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 2016  settembre 11 Domenica calendario

“RACCONTO ANCORA I DICIOTTENNI, SARANNO SEMPRE PIÙ FRAGILI” – [Intervista a Gabriele Muccino] – Due ignari adolescenti italiani, un viaggio americano che li cambierà per sempre, la libertà, i pregiudizi, la scoperta, il dolore, l’eterno studio sull’età acerba di Gabriele Muccino, 50enne tra un pugno di mesi per mero dato anagrafico: “Volevo girare un film su un passaggio esistenziale che è forse il più tremendo in assoluto

“RACCONTO ANCORA I DICIOTTENNI, SARANNO SEMPRE PIÙ FRAGILI” – [Intervista a Gabriele Muccino] – Due ignari adolescenti italiani, un viaggio americano che li cambierà per sempre, la libertà, i pregiudizi, la scoperta, il dolore, l’eterno studio sull’età acerba di Gabriele Muccino, 50enne tra un pugno di mesi per mero dato anagrafico: “Volevo girare un film su un passaggio esistenziale che è forse il più tremendo in assoluto. Fino a quando hai il paracadute dello studio, il tuo unico dovere, il confine del tuo successo o del tuo fallimento di fronte alla società è essere promosso o bocciato. Dopo cambia tutto e senza che tu abbia modo di prepararti a dovere, finita la scuola, ti trovi di fronte a un universo vastissimo e angosciante. Una galassia nella quale trovare te stesso, collocarti e definirti misurandoti sul campo. È lì, in quel passaggio, in quella finestra di tempo brevissima in cui non sei ancora posseduto dalle cose che possiedi e di mutui, figli e case pignorate non sai ancora niente che si decide il tuo destino. Cosa vorresti diventare e cosa invece, ineluttabilmente, diventerai”. Presentato al Festival di Venezia, prodotto da Marco Cohen, Fabrizio Donvito e Benedetto Habib per Indiana e in sala con O1 Distribution da mercoledì prossimo, L’estate addosso è il decimo tassello di un regista che in un solo mosaico ha dipinto molte vite. Prima che il vento portasse via tutto, come nell’omonima canzone di Lorenzo Cherubini che al film ha dato titolo e musiche, Muccino ha voluto ricordare com’era: “Ho girato L’estate addosso proprio perché volevo tornare a vedere le cose e a metterle a fuoco con lo sguardo di ieri”. Com’era il suo sguardo di ieri? Uno sguardo che avevo dimenticato di possedere. Le infiltrazioni della vita appannano la vista, cancellano i sogni e costringendoci alle responsabilità ci fanno scordare a chi avremmo voluto somigliare e chi avremmo il diritto di continuare a essere. Lei chi era a 18 anni? Uno che voleva fare il regista ad ogni costo e con molta fatica e una certa dose di imbarazzo bussava a tutte le porte, ma che fino a 23 anni sopravviveva ancora con le diecimila lire prestate da papà. Prima di diventare genitore e passare dall’altra parte, sono stato figlio anche io. Un figlio problematico? Ero molto solitario e nella mia solitudine costruivo quotidianamente le mie proiezioni e i miei mondi paralleli. Visto da fuori, ero un bambino che d’estate camminava nelle campagne assolate fino al tramonto e durante l’anno si perdeva nei vicoli con il suo cane e giocava in mezzo alla via in una strada in cui passava un auto ogni 10 minuti. All’epoca non c’erano computer, televisioni satellitari e videogiochi. Apparentemente non c’era un cazzo, eppure c’era tutto. C’era la fantasia. Parla di quei tempi con nostalgia? Lo so, sembra un racconto neorealista. Sembra di ascoltare un Monicelli parlare della sua giovinezza. Devo essere invecchiato terribilmente. (Ride). Ma lei ha solo 49 anni. Che le posso dire? L’età avanza e il dato non mi fa simpatia. In realtà nel raccontare storie mi sento ancora in panchina, come quando feci il mio primo film. Mi metto sempre in ascolto dei miei sentimenti. Come quando avevo 18 anni. A quell’età non c’è altro a governarti: solo il cuore. Per quali altre ragioni fa il regista? Per riflettere su come sono. Quando mi chiedono se sono felice o realizzato, rispondo che provo a stare in quiete che è già una grande aspirazione. Uso il mio mestiere in funzione quasi terapeutica, ma ovviamente mi sento profondamente, anzi direi tragicamente lontano dalla perfezione. In questo acrobatico corpo a corpo con il vortice della vita e con i valori che penso di avere e spero di non perdere, immaginare film è una maniera per riflettere su ciò che mi accade senza lasciarmi trascinare via dall’onda. Ci ha detto che da ragazzo era molto solo. Quella solitudine le pesava? Nella solitudine elaboravo molte passioni e stando per conto mio non soffrivo, ma crescevo. Oggi i genitori tendono a preoccuparsi se il figlio sta in silenzio: “Secondo te il bambino è normale? Dobbiamo andare da uno specialista?”. Riempire di stimoli e sollecitazioni un bambino che in silenzio cerca di capire chi è mi pare sbagliato e un po’ nevrotico. Io nei vuoti sono cresciuto e mi sono formato. Quando ha cominciato a pensare al cinema? Avrei voluto diventare un veterinario, ma il percorso universitario si presentava molto complesso, lungo e ambizioso. Avevo anni di esami davanti e non essendo un grande esemplare di studioso, mi orientai presto altrove. Andavo spesso in una sala d’essai a due passi da casa, il cinema Labirinto. Vedevo Dreyer, Kubrick e Truffaut, ma non pensavo ancora di fare il regista. Quando iniziò a pensarci? A 17 anni interpretai una parte nella recita del liceo ed ebbi un’epifania. Una rivelazione. Capii che volevo rappresentare le cose per gli altri e non più soltanto rappresentarmele nella mia testa. Lei esordì come attore per Pupi Avati. Volevo propormi come assistente alla regia, ma Pupi mi fece interpretare una parte in una sit-com di cui c’è ancora qualche traccia negli archivi Rai e di cui ho ancora vergogna a parlare. Perché? Non certo per Avati che è una persona deliziosa, ma perché soffrii come un cane. Sapevo che ero il peggiore tra gli attori possibili e avrei voluto fare un altro mestiere. Ma in quel passaggio complicatissimo che è la messa in scena di se stessi e la perdita di controllo necessaria a diventare un altro, osservando meccanismi, paranoie e liturgie di chi recitava, imparai tantissimo e affinai un talento che mi riconoscono anche i detrattori più feroci: saper dirigere gli attori. Il suo primo film, Ecco Fatto, con un giovanissimo Santamaria è del ‘98. Andai da due produttori, Domenico Procacci e Leo Pescarolo, e dopo tantissimi tentativi li convinsi a darmi retta. Bussavo, venivo mandato via e mi ripresentavo con faccia di bronzo una, due o cinque volte magari rientrando dalla finestra. Pescarolo era incerto e così mi industriai: “Se mi faccio venire un’idea, forse lo persuado”. Che idea le venne? Pescarolo e Procacci avevano il tavolo pieno di sceneggiature, perché avrebbero dovuto dare attenzione proprio alla mia? Sembravo un matto, ero molto insistente e anche un po’ balbuziente, quando parlavo non si capiva niente. Così lasciai stare le parole e girai un cortometraggio con Stefania Rocca, lo intitolai Io e Giulia e in soli 7 minuti condensai la storia del film che avrei voluto girare. “Sette minuti a qualcuno – pensai – probabilmente riesco a rubarli, ma per convincerlo a leggere 130 pagine di copione non mi basterebbe neanche una grossa mano dal cielo”. L’espediente funzionò e partimmo. Cinematograficamente, di Procacci e del cinema che produceva ero infatuato. E tra lui e Pescarolo, alla fine, mi appoggiai a Domenico. Lui aveva pensato a un film per la tv, alla fine uscimmo in sette sale. Per un regista che con i suoi primi due film americani incassò 470 milioni di dollari, 7 sale sembra un numero lunare. All’epoca era così, le sale con i miei film erano numeri della tombola. E anche gli incassi erano relativi. Il mio secondo film, Come te nessuno mai, uscì in 25 cinema e incassò poco più di mezzo milione di euro, ma ebbe una grande circolazione in dvd e in vhs e al pubblico dei ragazzini, dei pischelli, si aggiunse nei mesi a venire quello dei loro genitori. Il successo de L’ultimo bacio, il mio film successivo, lo spiego solo così. “È andata così; ci sono quelli che partono e quelli che restano. Io ho deciso di restare”. Stefano Accorsi osserva la mano di sua figlia in coda a rimpianti, fughe e ritorni. L’Ultimo bacio venne considerato il racconto di una generazione. Il cinema della fila fuori dalla sala e della gente che litiga per entrare lo conobbi con L’ultimo Bacio. Medusa lo distribuì in modo industriale. Rimase in programmazione da febbraio a luglio. Ero incredulo. Ne L’ultimo bacio, come in tutti i miei film, c’ero io. Cambio sesso, cambio età, cambio identità, vesto molti panni. In quel film ero Stefania Sandrelli, ma anche Claudio Santamaria. Ero quello che restava a casa, quello che fuggiva, quello che tornava e quello che si pentiva. È successo anche ne L’estate addosso. Sono la ragazza del film che felice di essere corteggiata pensa di poter cambiare tutto e tutti e anche il ragazzo che crede di non aver l’energia sufficiente per conquistare gli altri. Perché all’apice del successo decise di andare in America? Perché quando siamo vicini al traguardo sentiamo di essere vicini alla morte. Rimettersi in gioco è un modo per far girare nuovamente la giostra. Tornai al punto di partenza e fu proprio come ricominciare da zero, dall’ufficio di Pescarolo. Per 4 o 5 anni, dover dimostrare a me stesso che avrei potuto farcela nonostante le condizioni fossero molto avverse, mi piacque molto. Una delle poche cose vere, delle poche cose reali che esistono e che ho toccato con mano in America è la meritocrazia. Se vali qualcosa, anche se come me all’epoca parli un inglese da turista, puoi sperare che ti diano retta. Molto più importante che pronunciare bene l’inglese è avere talento. Io volevo un’occasione e l’occasione mi venne data. La ricerca della felicità incasso nella sola America più di 150 milioni di dollari. Amy Pascal, la numero uno di Columbia, non aveva alcuna intenzione di farmi fare il film e davanti a tutti, senza giri di parole, me lo disse brutalmente: “Voglio che Will Smith vinca l’Oscar. Perché mai dovrei assumere un ragazzo che non parla inglese, che non hai mai girato in inglese e non ha mai lavorato con una stella del cinema e affidargli un film con un budget da 55 milioni di dollari ?”. La sua domanda in realtà prevedeva una sola risposta. Quale? “Hai ragione, non sono il regista adatto, fossi in te non mi darei mai fiducia”. Invece impapocchiai altro e alla fine sibilai la frase giusta: “Perché con me le dissi – non vinci – una, ma due volte”. Era una frase roboante. Una frasona senza nessun senso. Uno slogan. Si misero tutti a ridere e venni ingaggiato per un film molto complicato, ambientato durante una grave crisi economica nell’era reaganiana che raccontando la parabola di un padre finito in miseria e poi riemerso dal gradino più basso toccava le corde di sentimenti ancestrali. Dentro misi i miei riferimenti: Umberto D. e Ladri di Biciclette e visto che ero in ballo, ballai. Smith perse l’Oscar per soli 15 voti, ma il film divenne un blockbuster. La gente piangeva e piangeva, come in un meccanismo a orologeria, sempre negli stessi momenti. Con Will, a Tokyo, ci mettemmo in fondo alla sala per osservare le reazioni del pubblico e assistemmo a uno spettacolo incredibile: a un tratto vedemmo aprirsi le ali sulle teste degli spettatori. Si asciugavano le lacrime all’unisono con le braccia creando un effetto ottico che non ho mai più rivisto in seguito. Diventando grandi e celebri si perde il diritto di parlare? Quando azzardò un parere sul cinema di Pasolini le saltarono al collo. Anche se non fosse stato condivisibile, era un parere. Avere opinioni e metterle in gioco è una cosa importante perché è solo nella dialettica che si migliora e forse si cambia idea. Una ricchezza che si è persa drammaticamente con l’uso dei social. Il problema è più vasto di quel che si pensi perché nascondersi dietro a un’identità ti permette di attaccare frontalmente il tuo bersaglio, ma non prevede la possibilità di confrontarsi guardandosi negli occhi. Si discuteva da due milioni di anni e in un decennio è cambiato tutto. Il nodo non è nelle cazzate più o meno discutibili che posso dire, ma nel fatto che non c’è più nessuno che ti dica “non sono d’accordo” senza darti dello stronzo. I ragazzini non si telefonano, ma si scambiano messaggi vocali su WhatsApp. Inconsapevolmente, evitano il dialogo. Non è affatto detto che domani di fronte alla realtà non si scoprano fragilissimi come ad esempio è l’America di oggi. Stasera sarà in tv su La7 da Labate e Parenzo per parlare di America e 11 settembre. Un ciuffo di settimane e poi gli Stati Uniti eleggeranno il loro nuovo presidente. Mi pare che in Italia di Trump sia arrivato solo il folclore. Lui confonde il Belgio con una città, ma il problema è molto più serio e riguarda la sicurezza mondiale. Trump non può gestire i problemi del pianeta. Ha visto cosa accade in Corea del Nord? Qui rischiamo di andare a gambe all’aria in quindici giorni. È pessimista? Le stesse cose, con gli stessi toni, le dicevano anche di Reagan. Credo che l’attuale sia una delle epoche più buie di sempre. E Trump – che non è Reagan – non è solo un ignorante e un narciso. È qualcosa di più. È qualcosa di peggio. È narciso anche lei? Non credo, ma se fai l’artista non ti accontenti di appenderti il quadro nel tinello. Vuoi che venga visto. Una necessità che nasce dal pensare che la tua esperienza sia interessante anche per gli altri. Usi il tuo ego talmente a fondo che non ti basti più. Poi nel mostrarsi c’è una componente masochistica: è come mettersi nudi in una pubblica piazza e dire: “Vi piaccio?”. Uno potrebbe legittimamente dire: “Non puoi denudarti a casa tua?”. E la risposta? La risposta è che la voglia di essere giudicati e di dire “esisto” è più forte di tutto il resto. Una pulsione che all’ego deve essere per forza parente prossima. Le critiche la fanno soffrire? Un tempo molto, oggi meno. Mi fanno soffrire se sono ben scritte e ben argomentate, ma ogni mare, dopo che lo hai affrontato, ti è familiare. Come ne L’estate addosso, non sempre il finale consola. Accade anche nella vita, nei suoi rapporti familiari, nelle note diatribe con suo fratello Silvio? Non ne parlerò mai più, ma le cose stanno così. Si vive, ci si incontra, ci si perde, all’improvviso non ci si capisce più e poi si va a nero. Come nei film. Ma senza lieto fine. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 11/9/2016