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 2016  settembre 11 Domenica calendario

SUPERMUCCHE ED ETICHETTE COL REBUS: IL LATTE OSCURO

È il primo sapore che conosciamo, e una volta terminato l’allattamento materno, continuiamo bevendo quello vaccino. Di latte nel 2015 ne abbiamo consumati 47 chili a testa (ha una densità superiore all’acqua e si misura a peso). Un dato in calo, anche a causa dei nuovi stili di consumo e di una maggiore consapevolezza sulle sue proprietà: erano 49 chili pro capite nel 2014, 50 nel 2013, 51 nel 2012. Resta comunque una del voci più importanti della nostra alimentazione, ed è importante sceglierlo bene. I nodi da sciogliere non mancano.
Come denunciaRoberto Bennati della Lav: “Ormai le mucche non sono più animali ma macchine da latte. Ne producono dieci volte la quantità necessaria per nutrire i propri vitelli: un abuso metabolico che ne consuma il corpo. In natura vivrebbero fino a quarant’anni, in allevamento vengono macellate dopo sette, otto anni ormai sfinite”. Secondo Gaetano Pascale, presidente di Slow Food: “Per le mucche non ci sono periodi di riposo. Producono latte tutto l’anno. Negli allevamenti intensivi ne vengono munti fino a 95 quintali per ogni lattazione (il periodo in cui la mucca produce il latte, ndr), contro i 40 che una mucca da latte produrrebbe naturalmente”. In queste condizioni si ammalano più facilmente, e hanno più bisogno di medicine. E poi c’è il cibo: “Vengono utilizzati gli insilati, per esempio mais fermentato e concentrato, quindi un nutrimento molto meno vario di quello che un animale mangia al pascolo”.
Il discorso è diverso nel biologico. I disciplinari impongono che gli animali passino almeno parte della giornata al pascolo e l’alimentazione deve essere biologica. L’uso preventivo di medicinali chimici o di sostanze per stimolare la crescita non è consentito. I prodotti bio sono certificati e indicano la provenienza del produttore. Per gli altri latti è quasi impossibile informarsi. “Sull’etichetta – dice ancora il presidente di Slow Food – sono riportati soltanto i valori industriali: grassi, proteine, calcio. Ma non ci sono tracce di altre componenti, come gli omega 3”. E ancora: “Dall’etichetta non riesco a sapere niente dell’allevamento e dell’animale. Dove è vissuto, cosa ha mangiato?”. Il ministero dell’Agricoltura ha preparato uno schema di decreto per l’indicazione obbligatoria della provenienza in etichetta. Vedremo. Per ora, “anche nel latte fresco molti mischiano latti diversi”, dice ancora Pascale.
Qualche garanzia, oltre al biologico, la dà il latte Alta qualità. I requisiti sono rigorosi. Secondo il centro studi specializzato Clal: “Il contenuto proteico non deve essere inferiore a 32 grammi per litro, mentre il tenore in grasso deve essere almeno del 3,6 %. Deve essere prodotto in allevamenti autorizzati a questa produzione, sottoposto a severi controlli e verificato dai veterinari ufficiali delle Asl. Inoltre, a differenza degli altri tipi di latte pastorizzato subisce una pastorizzazione particolarmente blanda (di circa 2 gradi inferiore a quella utilizzata per il normale latte fresco pastorizzato); in questo modo le frazioni sieroproteiche solubili costituiscono almeno il 15,5% delle proteine totali”. Grande disputa invece sul latte Uht (Ultra high temperature), quello sterilizzato portando per pochi secondi la temperatura oltre i 100 gradi, rendendolo conservabile fino a sei mesi. Spiega Giorgio Apostoli di Coldiretti: “Ci sono stati casi di truffe, di reimmissione sul mercato di latte già scaduto. Con il latte fresco non è possibile. Inoltre dalle etichette non è possibile capire se il prodotto arriva dall’Italia oppure no”. Nei prodotti a lunga conservazione il 75% del latte viene dall’estero: “Niente di illegale o di rischioso – dice ancora Apostoli – ma il latte italiano fa un viaggio molto più breve per arrivare sulle nostre tavole”. Sulla questione Uht anche gli esperti si dividono in partiti e correnti. Non è d’accordo sulla dubbia qualità del latte che giunge dall’estero Dario Bressanini, studioso dell’università di Como e autore dei libri Pane e bugie e Le bugie nel carrello (Chiarelettere): “Ci sono paesi del Nord Europa dove il latte è squisito. L’Italia è famosa per i formaggi più che per il latte in quanto tale. Valutiamo il prodotto, non difendiamo il made in Italy per partito preso”.
In effetti il latte noi soprattutto lo mangiamo. Il 50% del latte fresco italiano serve alla produzione di formaggi dop. Ma ci sono tanti formaggi italiani che il latte liquido non lo vedono neanche in foto: “Un terzo delle mozzarelle di latte di mucca, soprattutto in regioni come Campania e Puglia, sono prodotte con cagliata che generalmente arriva dalla Lituania. Potremmo quasi dire che senza le nostre mozzarelle l’industria zootecnica lituana non esisterebbe”, arriva a dire Coldiretti. Ancora niente di illegale. Ma è diverso un formaggio fatto con latte fresco e uno prodotto con panetti da dieci chili di cagliata surgelata che hanno fatto tremila chilometri di viaggio. Comunque il consumatore deve sapere. Ma come? Ancora Apostoli: “Bisognerebbe indicare nell’etichetta se è di prima o seconda lavorazione”. Insomma, se viene utilizzato latte o cagliata. Ancora l’etichetta. E qui l’Unione Europea non ci aiuta. “È possibile utilizzare sottoprodotti del latte e non c’è modo per indicarlo chiaramente. Nessun danno, ma certo per la flora batterica, le proteine e i nutrienti è diverso”, ricorda Giorgio Calabrese, presidente della sezione sicurezza alimentare del Comitato Nazionale Sicurezza Alimentare.
(4 – continua)
di Ferruccio Sansa, il Fatto Quotidiano 11/9/2016