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 2016  settembre 10 Sabato calendario

001AAA PRSMLUIGIDIMAIOAPPUNTI APERTURA PER IL FOGLIO ROSA – ANNALISA CUZZOCREA, LA REPUBBLICA 10/9/2015 – «Perché mi avete invitato qui? Che ci sono venuto a fare?»

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APPUNTI APERTURA PER IL FOGLIO ROSA – ANNALISA CUZZOCREA, LA REPUBBLICA 10/9/2015 – «Perché mi avete invitato qui? Che ci sono venuto a fare?». Beppe Grillo mette su la faccia ammirata mentre osserva quelli che continua a chiamare «i ragazzi». La senatrice Nunzia Catalfo, il deputato Daniele Pesco, ma soprattutto lui, Luigi Di Maio, il vicepresidente della Camera che in conferenza stampa parla più di tutti e fa il discorso più politico. Fa il papà orgoglioso, il fondatore del Movimento. Ripete, come tutte le volte che va in Parlamento: «Chiedete agli uscieri quanto studiano, chiedete loro quanto sono preparati. Abbiamo compiuto un miracolo». Un discorso che fa un po’ a pugni con quell’«Abbiamo incamerato di tutto» detto a Brescia pochi giorni fa. Ma si sa, Grillo è così, e le contraddizioni del Movimento sono ormai accettate da parlamentari e attivisti come un ineluttabile dato di fatto. «Casaleggio è scappato», dice l’ex comico rivolto ai giornalisti. E racconta del pranzo cui sono andati entrambi con i sette ambasciatori di Lettonia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Lituania, Estonia, Danimarca. «Abbiamo parlato di reddito di cittadinanza che per loro è preistoria, poi volevano sapere da me cos’è il Movimento. Che dovevo dire? Come fai a spiegare il jazz? O il buddismo?». In vena poetica, parla di una povertà che è piuttosto miseria, del reddito come primo diritto («perché nella società non ti tiene dentro il lavoro, ma il reddito»). Vecchi discorsi da comizio che tornano buoni per far da cornice alla nuova offensiva in Parlamento. La richiesta di Luigi Di Maio è chiara: «Le strade sono due:o la commissione Lavoro del Senato si muove a unificare le proposte di legge e portare un testo in aula, o il governo dà un segnale e si inserisce la misura nella prossima legge di stabilità». A quel punto sarebbero pronti a votarla? «Sarebbe la stabilità più bella del mondo», risponde pronto. «Ma solo se la proposta resta la nostra, 780 euro al mese ai 9 milioni di poveri di questo Paese». Non cerca intese con chi si è offerto di farle, il Movimento, come Sel o la minoranza pd: «Le leggi si fanno con la maggioranza – spiega il vicepresidente della Camera – è dal governo che aspettiamo un segnale. In questi giorni stanno pensando a una bad bank per salvare le banche, noi pensiamo al reddito che salva le persone». Discorsi che non portano lontano, visto che Matteo Renzi si è più volte detto contrario per principio a una misura che considera assistenzialista. I 5 stelle spiegano che non lo è, che farebbe ripartire i consumi, il mercato della casa, che produrrebbe come minimo un punto di Pil in più all’anno, che si può coprire coi tagli alla spesa già proposti dall’ex commissario Cottarelli. Grillo chiama l’applauso. Insiste, in una posa ormai usuale: «Io non sono in ballo adesso. Io non sono più disponibile a convincere le persone su questo reddito, che dovrebbe scaturire dal cuore di tutti». Passa platealmente la palla a quel ragazzo che ha incontrato prima per mezz’ora negli uffici del gruppo (dopo essersi lamentato del pranzo pesante: «Non mangiate mai Silikat Suomalaisen»). Luigi Di Maio ha un completo blu impeccabile che cozza con la cravatta prestata al suo capo politico dai commessi. «Maledetto, sei il leader», scherza Grillo sul finale. Solo che, per la prima volta, conclusa la conferenza stampa, le telecamere non sono davvero più tutte per lui. La metà va in cerca di Di Maio, che – sondaggi alla mano – è ormai il volto istituzionale del Movimento. E che potrebbe presto diventarne il candidato premier. A Imola, tra un mese, quando i 5 stelle chiederanno – come ha fatto ieri il loro fondatore – «dateci fiducia, mandateci al governo». Annalisa Cuzzocrea, la Repubblica 10/9/2015 *** EMANUELE BUZZI, CORRIERE DELLA SERA 11/5 –  Leader, volto, anima istituzionale. Negli ultimi mesi le definizioni – tra i militanti e non solo – di Luigi Di Maio si sono moltiplicate. L’investitura di Beppe Grillo è solo una conferma, anche se lui, il più giovane vicepresidente della storia della Camera, si defila dalle discussioni. Gli attivisti? «Non ripongono fiducia in me, ma speranza in noi». La stima del capo politico dei Cinque Stelle? «Non è una novità. Ricordo che già a marzo 2014 disse “Di Maio è un Casaleggio senza i capelli”: lavoriamo insieme e ci fidiamo l’uno dell’altro, così come si fidano di me molti miei colleghi. E questo è un onore e ne sento la responsabilità». Lui, ventinove anni, avellinese di nascita, ma una vita trascorsa a Pomigliano d’Arco, «la Stalingrado del Sud», ha conquistato il Movimento partendo dalle 59 preferenze ottenute alle Comunali 2010 (non venne eletto e incontrò Grillo per la prima volta) e dalle 189 alle Parlamentarie del 2013, chiave di volta per accedere a Montecitorio. Eppure la scintilla per la politica per Di Maio non l’ha fatta scoccare Grillo o Gianroberto Casaleggio, ma Antonio Cassese, suo professore di Storia e filosofia ai tempi del liceo. Il deputato Cinque Stelle l’ha raccontato a Brescia, un paio di settimane fa. «Mi disse che fare politica non significava essere rosso, bianco o nero, ma occuparsi delle cose concrete come il riscaldamento della nostra scuola». Primi anni duemila: Di Maio diventa rappresentante degli studenti del liceo Imbriani per tre anni consecutivi e poi si ripete anche all’università Federico II dove è presidente del consiglio degli studenti. Abbandona la passione per il nuoto. Si immerge in letture che diventano i suoi punti di riferimento. La storia d’Italia di Indro Montanelli (scritta con Roberto Gervaso e Mario Cervi), Il libretto rosso di Pertini: un doppio pilastro a cui Di Maio aggiunge, in seguito, La cura di Michele Ainis. Proprio al periodo universitario (2007), risale la folgorazione per il Movimento. Una strada senza troppi frutti agli inizi. Anche suo padre Antonio, fedele al centrodestra – ex dirigente d’area An – non se la sente di votare il figlio. Tra banchetti, serate da cameriere in pizzeria per raccogliere fondi e kermesse vissute da spettatore – come la Woodstock 5 Stelle del 2010 a Cesena – fa il suo cammino. Si arriva ai giorni successivi all’elezione. Il Movimento deve scegliere un rappresentante istituzionale. Al ballottaggio vanno Di Maio e Massimo Artini, futuro dissidente, espulso dai Cinque Stelle lo scorso novembre: il deputato campano strappa il 70% dei consensi tra i suoi colleghi. Da lì è un crescendo. Partecipa ai tavoli con Matteo Renzi (che lo bolla come «tosto» nell’incontro-scontro con Grillo), diventa uno dei membri del direttorio. La base lo sostiene. Pochi mesi dopo lo sbarco in Parlamento, al Giffoni Experience, dichiara: «Mi sento un po’ come Superman che sta capendo che poteri ha». Oggi commenta: «Mi riferivo all’aiuto che stavo dando a degli operai di Caivano. Era la prima volta per me e sono riuscito a rendermi utile. Ora conosco bene le mie prerogative. E si può fare tanto, anche se siamo all’opposizione». *** FRANCESCO VERDERAMI, CORRIERE DELLA SERA 10/9 – Forse non la immaginava così lunga e pericolosa, la strada che dal Campidoglio porta a Palazzo Chigi. Però Di Maio è convinto che la «falsa partenza» nella Capitale si rivelerà per il Movimento «il primo passo verso una nuova era». La crisi romana — nell’analisi del dirigente a cinque stelle — è stata la conseguenza di un insieme di errori di valutazione, di problemi di affiatamento, che sono il prezzo pagato da una forza inesperta, finita peraltro nell’«inferno» di una macchina amministrativa «dove non si sa chi sia il buono e chi il cattivo». E al caos del Campidoglio si è aggiunto il caos nel Movimento, dove c’era troppa gente intorno alla Raggi, troppe sovrastrutture: «Tutti dicevano di voler dare una mano al sindaco, ma in realtà tutti volevano fare il sindaco». Liberato il primo cittadino dalle ingerenze esterne e interne, è giunto il momento di amministrare la città. Perché se M5S vuole arrivare a Roma deve passare da Roma, sebbene Di Maio sostenga che — per quanto la Capitale rappresenti «la cartina di tornasole delle nostre capacità» — al dunque gli italiani chiedono una cosa al Movimento: qual è l’idea di Paese che ci proponete? È una domanda di governo, e la risposta non può arrivare attraverso un approccio radicale ai problemi: «Serve realismo». La crisi romana — secondo il vicepresidente della Camera — aiuterà a far passare questa linea nei Cinquestelle, perché proprio la falsa partenza non solo «ha obbligato tutti noi a un bagno di umiltà», ma ha dimostrato anche come l’idea che tutto sia semplice e che tutto si possa fare subito «non regge alla prova dei fatti». È chiaro dove passa la linea di frattura, quale sia il tema dello scontro in atto dentro M5S. Tuttavia Di Maio non sembra avere dubbi sull’esito del confronto e sull’approdo a una «nuova era», che porterà a un «nuovo approccio politico» del Movimento. Non si può sempre sparare a zero su ogni cosa, non si può pensare di cambiare un Paese in qualche mese: «I processi hanno bisogno di tempi lunghi. E avere questa idea di trasformazione non vuol dire diventare trasformisti». Così dicendo l’interprete dell’ala istituzionale di M5S dà corpo a un disegno che sarebbe condiviso da Grillo e Di Battista. Perché, certo, non si perderà il contatto con la base ma questo «approccio nuovo» servirà «ad esplorare mondi nuovi», consentirà di parlare e di farsi capire da quella massa di elettori catalogati come moderati che oggi «sono timorosi» rispetto al Movimento. È una «prova di crescita» che varrà nel Paese e che verrà testata persino nel Palazzo. Per Di Maio infatti non c’è dubbio che se M5S vuole andare al governo deve dimostrare di saper dialogare, di essere aperto al confronto, capace di misurarsi con altri progetti politici. La parola compromesso resta tabù, così come resta nel codice genetico del Movimento la vocazione alla solitudine: «Non ci alleiamo con nessuno». Che però è diverso dal non parlare con nessuno. E allora, se per esempio in Parlamento dovesse avviarsi il dibattito sulla modifica dell’Italicum, i gruppi Cinquestelle dovrebbero «partecipare da protagonisti» al processo di stesura di una nuova legge elettorale. Se così fosse, sarebbe una rivoluzione copernicana per chi nel 2013 volle lo streaming dell’incontro con Bersani, in modo da far sapere in diretta che il Movimento non avrebbe dato sostegno a nessuno. Quella era l’epoca del «non possumus», la massima espressione del radicalismo grillino. Quell’epoca finirebbe se vincesse l’ala «realista», e su questo Di Maio è pronto ad andare fino in fondo, sfruttando proprio la crisi di Roma che tra i Cinquestelle è stata usata per affossare il suo progetto e le sue ambizioni. «Voglio portare il Movimento al governo dell’Italia», ha detto ieri in piazza, come a ribadire che non farà passi indietro rispetto al suo obiettivo, come a sottolineare di avere alle sue spalle anche Grillo. È vero che solo qualche sera prima, e sempre in piazza, Di Maio aveva dovuto fare pubblica ammenda per gli errori commessi nella gestione capitolina, in un clima che ricordava i processi stalinisti: «Meglio scusarsi in piazza. Almeno qui c’erano testimoni», ha detto scendendo dal palco. E dietro il sorriso si celava il dispiacere per quella fuga di documenti offerti alla stampa «da chi voleva azzopparmi». Ma se fosse vero che per Grillo «Luigi non si tocca», se fosse vero che «Dibba è al mio fianco», allora la battaglia per «una nuova era» potrebbe rivelarsi vincente nel Movimento. Cambiare la natura dei Cinquestelle è la sfida che si incarica di portare avanti Di Maio per arrivare a Roma dopo aver vinto a Roma. Mica facile. Non a caso il vicepresidente della Camera si è attrezzato: «Mi sono comprato un giubbino antiproiettile». Francesco Verderami TOMMASO CIRIACO, LA REPUBBLICA 8/9 – C’è sempre una bugia di troppo, nel braccio di ferro ingaggiato da Luigi Di Maio con la realtà. Un gioco dell’oca in cui il reggente del Movimento è puntualmente un passo indietro alla cronaca. Cambia versione una, due, tre volte. Si contraddice. E ogni volta una dichiarazione, una mail o un messaggio si incaricano di smentirlo. Un disastro di comunicazione, una sequenza di acrobazie crollate dopo i messaggi pubblicati ieri da Repubblica in cui lo stesso Di Maio chiedeva alla deputata Paola Taverna e all’europarlamentare Fabio Massimo Castaldo notizie su Muraro e ne riceveva una risposta chiarissima: «È indagata». Ieri il castello di bugie è crollato. Dal palco di Nettuno, non potendo più negare, Di Maio ammette di aver letto i messaggi e di aver sbagliato a non avvertire i suoi compagni di direttorio. Di aver «sottovalutato» le informazioni ricevute: «Ho commesso un errore. Pensavo che l’accusa alla Muraro venisse da un manager del Pd (Alessandro Fortini di Ama, ndr)». Nei fatti, il prescelto del grillismo accetta il brutale commissariamento imposto dai suoi avversari interni, fino a mettere a repentaglio anche la sua corsa verso Palazzo Chigi. Ma pure la sua ultima versione ha un baco: se anche fosse stato un esposto del massimo dirigente dell’Ama a provocare l’indagine sull’assessora, perché nascondere la notizia? Il primo tassello pubblico di questo serpentone di menzogne è datato 4 settembre. Durante la festa del Fatto quotidiano, Di Maio si aggrappa a un distinguo lessicale per dribblare il problema: «A oggi Muraro afferma di non aver ricevuto alcun avviso di garanzia – giura – Non esistono le carte per poter valutare e io non dichiaro sui “se”». Quando poi l’assessora - accompagnata dalla Raggi - ammette in commissione ecomafie di essere indagata, allora filtra alla stampa una seconda bugia: «Il direttorio non sapeva». Sempre un passo indietro, Di Maio, perché quasi subito spunta invece una mail con cui il direttorio romano aveva informato il reggente. E la situazione sfugge davvero di mano. Il vero spartiacque, però, è un altro. Due sere fa, nel chiuso di un piccolo ufficio del gruppo grillino di Montecitorio e al culmine di un processo che assomiglia a un massacro, i big del Movimento concordano con Di Maio una nuova versione. Che filtra puntualmente alla stampa, così: il vicepresidente ha sottovalutato le informazioni, sbagliando a leggere la mail del mini direttorio romano. Il tentativo, studiato nei dettagli, ha l’ambizione di invertire la rotta. Se non fosse che Repubblica svela che oltre alla mail esistono anche dei messaggi che inchiodano Di Maio. «Quale reato viene contestato a Muraro?», domanda il leader il 4 agosto scorso all’eurodeputato Fabio Massimo Castaldo. E lui: «Attività di gestione dei rifiuti non autorizzata». E poco dopo, stavolta rivolgendosi alla senatrice Taverna: «Muraro è iscritta nel registro degli indagati?». «Posso essere più precisa domani ». Il reggente insiste: «Posso almeno sapere se il 335 è pulito o no?». Risposta: «No, non è pulito ». Tradotto: l’assessora è indagata. Di Maio non ha più spazio per i non detti. E l’unica strada resta il lavacro di Nettuno. La reazione a questo ennesimo inciampo è cronaca di ieri. Beppe Grillo è costretto a catapultarsi sulla Capitale. Assieme al direttorio, incontra il vicepresidente della Camera. La distanza tra quanto accade nel chiuso del vertice e lo show serale è siderale. Davanti alla platea grillina Di Maio si scusa con i vertici del direttorio: «Non l’ho detto a Roberto, Carla, Carlo, Alessandro, l’ho sottovalutato e sono qui a dirvelo negli occhi». Ma in privato occorre un mea culpa ben più corposo per siglare la tregua interna. «Virginia mi ha fregato – dice, riferiscono – e io ho sbagliato a fidarmi». Basta poco ai suoi nemici interni per circondarlo. «Archiviato un Di Maio se ne fa un altro», ripete in privato Carla Ruocco nel pieno dello scontro. Come lei, anche il resto dei pesi massimi grillini considerano indispensabile ridimensionare il reggente. Come? L’idea appartiene ad Alessandro Di Battista, e si tratta di un vecchio pallino confidato a diversi interlocutori anche nelle scorse settimane a Montecitorio: «Chi l’ha detto che dobbiamo avere un candidato premier? La legge elettorale non ce lo impone, possiamo candidare il Movimento e decidere il capo del governo dopo aver vinto le elezioni». Un ultimo dettaglio, infine. Di Maio ha sottovalutato, parole sue, la notizia dell’indagine su Muraro perché presumeva fosse riconducibile a un esposto di un uomo del Partito democratico. Con modalità simili all’assessora (alcuni esposti di un senatore del Pd) è finito sotto indagine anche Federico Pizzarotti, scaricato dai cinquestelle per non aver comunicato l’avviso di garanzia ricevuto. L’unica differenza? Il sindaco di Parma è stato sospeso dal Movimento. *** EMILIO MARRESE, LA REPUBBLICA 10/9 – «Giggì nun dà retta, futtatènne». L’accento non è esattamente quello della Bassa modenese, dove Gigino Di Maio arriva all’ora dell’aperitivo serale, ma quello dei tanti conterranei che lo accolgono come un Maradona della politica. Il messaggio al vicepresidente della Camera, in questi suoi giorni di penitenza, da parte delle centinaia di fans in estasi accalcati in piazza Italia è chiaro. E lui segue il consiglio: «Mi dicono tutti di non mollare, e chi ci ha mai pensato?» si consola Di Maio, galvanizzato dal tripudio popolare alla prima uscita dopo il mea culpa, per andarsi a riprendere il consenso e la credibilità perdute, quelle azioni scese in picchiata nel borsino di Grillo. «Stanno usando Roma come un manganello mediatico per danneggiare il Movimento ma non ci riusciranno, stanno usando la questione della mail che ho sottovalutato per affossare me e il Movimento ma non ci riusciranno ». Nessuna parola, ancora, sul suo scambio di sms su Muraro con Paola Taverna in cui non c’era molto da equivocare (“E pulito o no?” “No, non è pulito”). La Raggi deve chiedere scusa? «C’è un sindaco a Roma, chiedetelo a lei, io mi sono scusato, io ho risposto per me». Il direttorio si deve dimettere o deve essere allargato? «Quando una forza politica inizia a parlare di cariche interne quella forza politica è morta: non è il nostro caso». E’ sempre Di Maio il candidato in pectore al governo? «Il nostro obiettivo è sempre governare l’Italia». In mattinata perfino l’ex candidato sindaco M5S di Bologna, Max Bugani, fedelissimo di Grillo, aveva ammesso «non stiamo dando una bella immagine a Roma: qualcosa non sta funzionando». Ma Di Maio quelle parole non le ha lette, non le ha sentite: «Non ho ancora avuto modo». Ultimamente col web ha qualche problema. Almeno non avrà avuto nemmeno tempo di leggere De Luca che gli dà del “chierichetto” e “mezza pippa”. Non è successo nulla, o quasi, insomma, e in effetti la sensazione che si può ricavare dal tonificante bagno di folla qui nella Bassa modenese, dove è arrivato per una tappa del tour #iovotono per il referendum costituzionale, è questa. E’ tutto un “Luizi” sei grande, “Luizi” sei forte, Giggì nun dà retta, dai un bacio alla bambina, fai l’autografo per mio figlio di 14 anni… Due ore da rockstar, soffocato dall’abbraccio di centinaia di militanti, attivisti, simpatizzanti, che lo stordiscono di selfie, lo sballottano qua e là, finché – proprio come un pop idol, ma inossidabile nel suo completo istituzionale nero con cravatta bordeaux – è costretto a rifugiarsi nel retro di un bar attendendo il suo turno per parlare sul palco. Non proprio tutti sono calorosissimi. Una decina di rappresentanti del M5S di Parma, in un angolo della piazza, con le loro magliette blu, in silenzio, sollevano nove cartelli, per comporre la scritta “108 giorni”. Da 108 giorni stanno aspettando, nella Parma del dissidente reprobo Pizzarotti, un incontro chiarificatore. Una contestazione gentile. Di Maio li vede, va a salutarli, stringe la mano a ognuno di loro e senza dire nulla ritorna sui suoi passi. L’idillio è rotto solo da qualche domanda, nella ressa, dei cronisti: «Autocritica? C’è sempre bisogno di fare autocritica. Ma avete mai sentito parlare di Mafia Capitale? Stiamo cercando di amministrare Roma, non so se avete presente? Quello che si è creato mediaticamente è spropositato. A Roma stiamo cambiando assessori come tanti altri sindaci cambiano assessori ». E sul palco Di Maio rafforza la sua difesa: «Non è con questo assedio mediatico che riusciranno a distruggerci. Più fanno così e più ci fanno forti. Si possono commettere errori, si chiede scusa e si va avanti. Governare non è facile, ma i presupposti sono l’onestà e le mani libere per non farsi ricattare dalle lobby. Il cammino è pieno di insidie e di trabocchetti della stampa e dei pezzi di istituzioni guidati dalla politica». E via, su una utilitaria rossa, «proprio come noi». *** FRANCO GIUBILEI, LA STAMPA 10/9 – Uscito con le ossa rotte dal gran pasticcio capitolino, Luigi Di Maio si è ripresentato in pubblico nel completo blu dei tempi d’oro, evocando il Complotto di media e poteri più o meno forti: «E’ stata usata Roma come un manganello contro il Movimento», ha detto a Formigine, nel Modenese, davanti a 400 simpatizzanti, molti dei quali bramosi di selfie col leader dimezzato. «Si è usata la questione della mail per affossare me e il M5S, ma non ci riusciranno». Un timido accenno di scuse, «sbagli e poi riparti», e un ancor più timido saluto ai contestatori che gli ricordavano, con la scritta «108 giorni», da quanto tempo il sindaco di Parma Pizzarotti attenda una decisione sulla sua sospensione. JACOPO IACOBONI, LA STAMPA 8/9 – Dal papà fascista al mito di Che Guevara e al Sudamerica, certo. Ma a parte questo, chi è davvero Alessandro Di Battista? Ci sono moltissimi dettagli della vita di «Dibba» che non sono così tanto noti, e delineano i tratti di un camaleonte abbastanza incredibile. Nasce a Vigna Stelluti, quartiere tendente abbastanza a destra, da una famiglia benestante sì, ma non ricca; il papà, quello che disse «non sono di destra, sono fascista», aveva una piccola azienda di sanitari. Di Battista lo ha sempre amato e odiato. Mentre invece dicono sia legatissimo alla madre e alla sorella Titti, che fa l’insegnante di educazione fisica. Sono originari di Civita Castellana, nel viterbese, e nella casa di papà la prima cosa che trovi, entrando, è un busto di Benito Mussolini. Non doveva essere facile invitare gli amici a casa. Se dovessimo dire un’esperienza fondativa è però nella parrocchia, non nella destra. Dibba prende fin da ragazzo a frequentare assiduamente Santa Chiara, in piazza dei Giochi delfici (per i cultori della materia, la stessa parrocchia dove Aldo Moro si fermava a pregare, e dove le Br, raccontò Barbara Balzerani, pensarono a un certo punto di sequestrarlo; ma questa è un’altra èra). In Santa Chiara, dove transita anche Marianna Madia (in posizione defilata), il giovane fervente cattolico diventa a modo suo un personaggio, uno dei due catechisti, in quel periodo, l’altra catechista era la moglie dell’ex governatore di Bankitalia Fazio. È della Lazio. Sì, ha fatto l’animatore nei villaggi, in Calabria e in Sicilia sicuramente, esperienza formativa da non disprezzare. Ma suo zio ha un’associazione di volontariato, e gli apre quel mondo, qualche anno più tardi. Quando decide di partire per un viaggio di un anno in Sudamerica, con la sua allora fidanzata, ha intorno ai 25 anni, dal Guatemala alla Colombia. Si innamora di quei posti e delle loro incredibili storie. Torna e, naturalmente, s’atteggia. Comincia a suggerire di interessarsi a Che Guevara, o a Marx, a gente che magari l’aveva letto a 17 anni. È così, Alessandro: tocca una cosa e comincia a raccontarsi di esserne esperto da una vita. «Non vi dovete mettere i jeans, sono sfruttamento del capitale», dice ai ragazzi che trova tornando; gente magari un po’ più di sinistra di lui. Dibba è così. Quando diventa deputato confida a un nostro amico: «Qua dovremo far fuori metà dei deputati che abbiamo. Su questa roba dei rimborsi cadranno tanti». Sembra ora di sentire non il Che, ma Casaleggio. Come l’ha conosciuto? Li introduce Mario Bucchich, uno dei soci originari dell’azienda. Casaleggio incontra Dibba intorno al 2011. Gli piace, quel ragazzo. Gli offre tremila euro per andare in Colombia e scrivere un libro che poi loro, con l’editrice Adagio, pubblicheranno, «Sicari a 5 euro». Doveva fare un’altra esperienza in Portogallo, parte, ma mentre è lì lo richiamano. «Ti vuoi candidare?». A Roma era già stato candidato (trombato) nel suo municipio: questo gli permette di correre alle politiche. Ma gli attivisti romani poco lo conoscono, quando nel 2013 viene eletto; e quando risulta quarto a Roma, enorme è la sorpresa nella capitale tra militanti storici. “E questo chi è?”. Invenzioni casaleggiane. Jacopo Iacoboni, La Stampa 8/9/2016 *** ANDREA MALAGUTI, LA STAMPA 8/9 – Lo amano. Lo adorano. Lo vogliono. E’ del tutto ovvio che da oggi il Sovrano è lui. C’è l’intera piazza di Nettuno che si schiera ai piedi di Alessandro Di Battista. Di Battista è giunto all’ultima tappa del suo tour di cinquemila chilometri per dire No ai quesiti del referendum costituzionale, a chiarirlo senza ombra di dubbio. Il passaggio di consegne con Luigi Di Maio forse non è nella forma, di certo lo è nella sostanza. «Dibba, Dibba, Dibba, Dibbaaaaaa». E’ il boato scaricato in cielo con un fanatismo da concerto vascorossiano al termine di questo curioso processo cinese organizzato da BeppeMao nel Lazio, in cui il colpevole - Di Maio Luigi, vicepresidente della Camera - ben accolto e tiepidamente applaudito, viene condannato prima del dibattimento ed è costretto a cospargersi il capo di cenere di fronte alla platea, per consentire al Movimento di proseguire purificato il proprio processo rivoluzionario. «Ho sbagliato, scusate». C’era Di Maio. Oggi c’è Di Battista. E’ questo il primo risultato del dilettantesco pasticcio di Roma, che finisce per penalizzare Di Maio più della confusa e incomprensibile sindaca Virginia Raggi, due delibere in ottanta giorni. E anche Beppe Grillo, l’antico Capo Tribù piombato nei dintorni della Capitale per rimediare al disastro, finisce per sparire davanti al sorprendente potere ipnotico del nuovo Capobranco, che attacca la Rai, le banche, Renzi, la Merkel, la Boschi, invocando più Italia, più sovranità, una moneta propria e soprattutto ribadendo l’ennesimo definitivo No alle Olimpiadi. «E’ questa la vera battaglia che si sta combattendo a Roma. Ma noi non molliamo. Mentre loro, le lobby, i palazzinari, la politica, sentono le sirene della Polizia e cercando di scappare con il malloppo». Piove e Nettuno è di Alessandro Di Battista. E’ lui il primo a salire sul palco per introdurre i compagni della serata, è lui l’ultimo ad andarsene dopo più di un’ora. In mezzo il comizio-processo, organizzato per dare l’immagine di un universo ancora unito, solido e solidale, pensato apposta per nascondere sotto il tappeto la polvere soffocante delle risse interne, delle gelosie, dei piccoli tradimenti, e soprattutto delle scelte discutibili di assessori piombati nella giunta capitolina da galassie da sempre ritenute mefitiche dai Cinque Stelle: il previtismo, l’alemannismo o la palude dei dirigenti buoni per tutte le stagioni. Ci sono i cinque del direttorio sul palco con Grillo e sparso tra la folla anche qualche parlamentare tendenza Di Maio, ma il buco, enorme, non è tanto quello dei senatori - che non hanno mai digerito il piccolo gruppo dirigente incardinato alla Camera - o della Raggi, quanto quello lasciato da Gianroberto Casaleggio. Senza di lui il tavolo è zoppo. Le idee più pigre. Gli schemi più prevedibili. Eppure proprio Di Maio e Di Battista sembravano destinati a clonare lo schema dei Fondatori nella staffetta generazionale. Non è ancora così. Forse non sarà mai così. Di Maio ha una camicia bianca e il viso tirato e per non sembrare un cocker con la faccia da duro prova a darci dentro con la voce e con la mimica, ma quello che dice è poco e un filo imbarazzante. Sintetizzando: la Muraro è indagata per colpa del Pd, ho visto la mail e non ho capito. «Vi chiedo scusa, ho sbagliato, ma noi non ci simo mai messi un soldo in tasca. E anzi ne restituiamo». I cattivi sono loro. Bravo, coraggioso, Applausi. Grillo lo abbraccia, Fico lo gela: «Il movimento non ha leader, è fluido, noi siamo il popolo, niente più di questo». E’ questo il messaggio di fondo. Ma poi comincia lo show del Dibba e allora un nuovo leader è proprio lì. Racconta il suo tour da nord a sud, parla di ospedali che si chiudono, di ottanta euro che sono mancia elettorale, di tg che sono Pd. Il caso Roma è per i giornali di regime e per i poveri di mente. «Oggi goccia di pioggia che scende sui vostri volti diventerà una goccia di sudore freddo sul volto del premier», giura. Di Maio applaude rigido. Qualcuno grida il nome di Di Maio. «Vai Luigi, non ti buttare giù». Che non è esattamente la frase che si urla a un leader. Di Battista invece bacia, stringe mani, firma autografi, si ferma per i selfie, finché la marea montante rischia di soffocarlo. e allora per la prima volta arrivano i carabinieri e la polizia, perché il servizio d’ordine non basta più. «Dibba. Sei il nostro premier». Forse. O forse non sarà né lui né Di Maio, perché ambienti molti vicini a Grillo fanno sapere che anche un altro nome è in corsa: Chiara Appendino, sindaca di Torino, 162 delibere e zero polemiche. Non è mai vero che uno vale uno. *** ANNALISA CUZZOCREA, LA REPUBBLICA 8/9 – E’ costretto a rimetter su la maschera del padre buono che conforta e perdona, Beppe Grillo. Voleva star fuori dai guai romani, ma è dovuto correre nel giorno in cui tutto stava per crollare. Il fondatore del Movimento e i 5 ragazzi cui aveva dato la responsabilità di coordinarlo si sono visti in un posto che - per la prima volta in tre anni - è rimasto segreto. Perché il patto era questo: basta trucchetti, soffiate ai giornali, linee contrapposte. Occhi negli occhi, telefoni al centro del tavolo, Roberto Fico, Carlo Sibilia, Alessandro Di Battista e Carla Ruocco hanno tirato fuori tutto: la rabbia per quanto accaduto nella gestione del caso Muraro e delle lotte interne al Campidoglio. La fuga in avanti di Luigi Di Maio, nel coprire Virginia Raggi e nel darle troppa autonomia. Il caso della lettera del direttorio alla sindaca di venerdì scorso, che doveva essere un modo per chiederle di rientrare nei ranghi, ma che è stata diffusa alla stampa prima ancora di essere chiusa e per questo bloccata dall’ira del presidente della Vigilanza Rai. Una lunga sequenza di errori che il fondatore ha ascoltato cercando di sedare gli animi: “Ora dobbiamo mostrarci uniti”, ha detto. “Ammettiamo i nostri errori, saliamo sul palco insieme e tutto si risolverà. Non dobbiamo permettere che ci massacrino, non aspettano altro”. Lo sguardo su Di Maio è severo, ma alle otto e 45 della sera, dopo il mea culpa del vicepresidente della Camera, arriva un abbraccio: la camicia nera di Grillo intrecciata a quella bianca di colui che un giorno definì “un mostro di bravura” concludendo “mi farà fuori”. Tutto è cambiato, lunedì. Le decisioni solitarie del vicepresidente della Camera su strategie, incontri e linea politica sono il passato. “Condividere”, è la parola d’ordine che conduce al patto della finta unità. Un ritocco al direttorio potrebbe arrivare presto, magari con l’ingresso di un senatore. Palazzo Madama è in fiamme. Si sono visti in dodici, in Senato, pronti a chiedere presto un “riequilibrio nel Movimento”. Lo chiama così la senatrice Barbara Lezzi. “Una volta decidevamo le cose tutti insieme, magari trapelava qualcosa, ma è anche giusto”, ricorda Gianluca Castaldi. Quanto ai deputati sono infuriati con Virginia Raggi e con chi l’ha protetta: “Ci sono assessori che mandano pizzini a quelli dello studio Previti”, sbotta un parlamentare. “E Marra, che senso ha se si limita a spostarlo?”. E’ anche per questo, che la linea sulla sindaca di Roma cambia. Grillo decide all’ultimo momento di non incontrarla, di chiamarla soltanto. Non è ancora arrivato il momento di giocare la carta della sfiducia, ma una distanza va messa. Così, Virginia resta fuori dal palco di Nettuno. E decide di non andarci neanche la senatrice Paola Taverna. Ha visto Grillo, ha spiegato che lei non c’entra nulla con le prove mostrate dai giornali su quel che Di Maio sapeva dell’indagine su Paola Muraro. Non se la sente, però, di salire sul palco del perdono. Sa che qualcuno ha pensato di dare la colpa a lei. Ma non tutti fingono, su quel palco. Roberto Fico parla di “momenti durissimi”. “Il Movimento è un’utopia, non ci sono leader, se facciamo una rivoluzione a metà sarà una rivoluzione fallita”. Sono tutti ospiti di Alessandro Di Battista e dell’ultima tappa del suo tour. Lui li aspetta nervoso. Lascia loro la parola mentre Carlo Sibilia gli fa una carezza. Poi se la riprende introdotto da Grillo che fa l’elogio di “un ragazzo che ha fatto 5mila chilometri e finisce qui nella piazza della giustizia e del perdono”. Lui parla di errori in buona fede, suda, si arrossa. Mentre abbraccia un Di Maio rigido e teso, Grillo lo guarda come un figlio che alla recita, a scuola, azzecca tutte le battute. Il nuovo frontman è “il Diba” già da un po’. Il passo falso di Di Maio, che lui chiama “fratello”, potrebbe costringerlo a prenderne il posto. *** TOMMASO CIRIACO, LA REPUBBLICA 7/9 –  Lo processano in una stanzetta umida e un po’ claustrofobica del gruppo di Montecitorio. «Luigi – si infuria davanti agli altri big Carla Ruocco - ma ti rendi conto che ti stai comportando come la Raggi? Anzi, no, come una Raggi al quadrato!». Frana l’impero di Di Maio, sotto i colpi dell’ala rosa del Movimento. Dodici ore infinite, un massacro. «Nessuno può incolparci di nulla – si sgola, così raccontano, Paola Taverna - non ti azzardare a dare la colpa a noi, Luigino! Non è più tempo di ragazzini che si sono montati la testa». Colpevole di reticenza, sentenziano a nome di Beppe Grillo. E lui, la speranza grillina per Palazzo Chigi, rotola rovinosamente. Non basta la clamorosa fuga dal programma tv Politics in prima serata, né il silenzio nel quale si inabissa trattenendo il fiato fino a sera. Fugge, ma non è mai stato così solo. Fino all’inevitabile tregua serale con il direttorio, che ha comunque il sapore della resa: «Pensate forse che senza di me cambierebbe qualcosa? - domanda amaro - Perderebbe solo il Movimento». Il reggente abbonato al completo blu ha il volto scavato. Pallido, nonostante l’abbronzatura. Gli occhi umidi a un millimetro dalle lacrime, forse oltre. Alle nove e trenta abbandona il suo studio, al primo livello della Camera. Due piani più in alto lo attende la resa dei conti. Si avvicendano in molti, nel tribunale a cinquestelle. Taverna e Ruocco, ma anche Stefano Vignaroli. E ancora Roberto Fico, Andrea Cecconi e Giulia Grillo. «Eri stato avvertito – gli ripetono fino allo sfinimento - come hai fatto a tacere se sei il responsabile degli enti locali?». È un attimo di estrema solitudine. «E poi che fai, ti metti a giocare su due tavoli con noi?». Fino a poche ore prima, in effetti, il volto istituzionale del grillismo aveva preferito il catenaccio: «Della richiesta di accesso agli atti non sapevo nulla, aspettavamo di leggere le carte». Con il direttorio, riferiscono, agita addirittura il sospetto di una manovra ai danni del Campidoglio. Di certo dice: «Non capisco perché Virginia insista così tanto su Marra». Tutto cambia per una mail, quella che informa il reggente del pasticcio Muraro. Una comunicazione in mano a tre o quattro big del Movimento. Da quel momento Di Maio diventa temporaneamente afono. Fatica a ricostruire, ammette una sfilza di errori. Serve comunque una soluzione, per questo dal summit si tenta di uscire scaricando la colpa su un equivoco. Quale? Il vicepresidente della Camera avrebbe interpretato la mail del mini direttorio romano centrata sulla notizia del fascicolo su Muraro come frutto dell’esposto del numero uno di Ama Daniele Fortini, rimbalzato sulla stampa il 2 agosto. Nessuna novità e nulla di cui informare il board nazionale, dunque. Nonostante la toppa, resta nell’aria polvere di battaglia. Alessandro Di Battista fa rientro nella Capitale in fretta e furia: «Ci sono problemi a Roma», scrive, cancellando una tappa del suo tour anti riforma. Esultano i nemici di Raggi come Roberta Lombardi. E si fa sentire anche un senatore di peso come Nicola Morra. «Che cos’è il Movimento domanda - se non partecipazione, condivisione, trasparenza? Per Roma qualcuno se l’è forse dimenticato. Si vince quando si è squadra, non se si è individualisti ». Non c’è spazio per l’indulgenza, non stavolta. «È una grande opportunità - esulta spietata la senatrice Elisa Bulgarelli - non per sostituire cerchi e cerchietti magici, ma per rimettere al centro l’intelligenza». *** ANNALISA CUZZOCREA, LA REPUBBLICA 10/9 – «Se salta il direttorio salta tutto. Ragazzi, non possiamo permetterci tutti questi veleni. Non voglio ricevere i senatori. Non voglio vedere nessuno». Beppe Grillo è andato via da Roma rifiutandosi di incontrare coloro che - nei giorni del disastro - hanno pensato che fosse il momento di cambiare le cose. A Palazzo Madama, Nicola Morra, Barbara Lezzi, Elisa Bulgarelli avevano chiesto chiaramente un riequilibrio all’interno del Movimento. Meno potere ai «cerchietti magici» (copyright Bulgarelli) e più decisioni condivise. Appoggiati da una Paola Taverna ancora furente per lo scontro con Virginia Raggi e con Luigi Di Maio. («Sono devastata psicologicamente e umanamente », ha confidato agli amici la parlamentare romana dopo aver sancito la fine del minidirettorio che avrebbe dovuto controllare la giunta della capitale). I senatori 5 stelle torneranno a vedersi e a parlarne lunedì, quando ci saranno tutti. E lo stesso dovrebbero fare i deputati, prima che ricomincino i lavori parlamentari. Quel che è certo, è che il Movimento non è mai stato così diviso. La prima faglia - profondissima - si è aperta al vertice. Con la lite furibonda tra Roberto Fico e Luigi Di Maio il giorno in cui si è scoperta la bugia su quel che il vicepresidente della Camera sapeva riguardo all’indagine di Paola Muraro. Con le parole pesantissime di Carlo Sibilia e Carla Ruocco (che sul palco della finta pace di Nettuno non ha neanche voluto dir nulla), sempre rivolte al candidato premier in pectore del Movimento. L’unico a non infierire ancora una volta - è stato l’amico Alessandro Di Battista, che però fa intravedere delusione e scoramento e sulla pagina Facebook costantemente aggiornata annuncia: «Stacco per due giorni, ne ho davvero bisogno». Le continue sfide di Virginia Raggi sono così riuscite a spaccare il Movimento più di quanto Beppe Grillo non avesse mai immaginato. E hanno costretto colui che voleva mollare tutto a rivestire panni che non gli appartengono. «Beppe è stato straordinario - racconta chi ha partecipato alle riunioni degli ultimi due giorni - ha rassicurato tutti, ha frenato gli sciacalli, sembrava quasi si fosse trasformato in Gianroberto. Ci fosse stato Casaleggio, questa cosa non sarebbe mai successa. E Virginia non avrebbe mai osato tanto». La sindaca di Roma è arrivata a dire al fondatore che le decisioni sono sue: «Ho preso il 65 per cento. Non potete dirmi cosa fare, altrimenti siete voi a tradire i valori del Movimento. Solo io posso decidere di chi fidarmi e con chi voglio lavorare per far funzionare la città». Parole che sono state uno schiaffo per Grillo, che ha però mantenuto la calma. Da qui, il rifiuto di invitarla sul palco di Nettuno. La frase a denti stretti all’Adnkronos: «Virginia ha la mia fiducia». E la fuga da Roma senza incrociarne lo sguardo, facendo invece uscire sul blog un post che dice un secco no alle Olimpiadi. «Sul programma non facciamo sconti», è il messaggio. Quanto alle persone, il pressing sull’alemanniano Raffaele Marra (il cui spostamento a capo del personale è considerato una beffa) e l’assessora ai Rifiuti Paola Muraro, è destinato a continuare. Sull’ex consulente Ama, i parlamentari M5S hanno ora una nuova preoccupazione: «E se le arrivasse un avviso di custodia cautelare? Se la arrestassero perché nella sua posizione potrebbe inquinare le prove su Ama? Come ne usciremmo?». A prendere le distanze dalla sindaca è ormai anche Luigi Di Maio. Le cui truppe in Parlamento sono spaesate: se il fedelissimo e cattolicissimo senatore Sergio Puglia si spinge a fare un post in sua difesa, molti dei deputati a lui vicini (come Manlio Di Stefano e Giorgio Sorial) hanno taciuto sull’intera vicenda. Mentre il fronte ortodosso si allarga: con Fico ci sono Carla Ruocco e Carlo Sibilia, la “nemica” di Virginia Raggi Roberta Lombardi (che tace, ma sceglie un’immagine significativa per il profilo WhatsApp: una vignetta che dipinge un canuto Gianroberto Casaleggio, con tanto di cappellino, mentre si affaccia da una nuovola e dice: «Ehi voi laggiù, se avete finito di cazzeggiare è il momento di ricominciare a lavorare per i romani! »). Un fronte ortodosso cui - a sorpresa - si unisce proprio Davide Casaleggio attraverso un suo fedelissimo. Max Bugani, il capogruppo M5S al comune di Bologna che con il figlio del cofondatore e con David Borrelli presiede l’Associazione Rousseau, diceva ieri: «Guardiamo in faccia la realtà, su Roma qualcosa non sta funzionando ». E poi: «Spero proprio che non si arrivi a togliere il simbolo del Movimento alla giunta Raggi e che ci siano i margini per fare bene ciò che fino a oggi non è stato fatto bene». Facendo intravedere, per la prima volta ufficialmente, la minaccia della scomunica. *** FRABRIZIO RONCONE, CORRIERE DELLA SERA 9/9 – Arriva per ultimo, tutto fresco, sbarbato, abbronzato, la camminata ciondolante, piacionesca, e i basettoni, basettoni anni Settanta: il casco in mano. Ragazzi, guardatemi il casco. Il casco del tour Costituzione CoastToCoast (4141 chilometri in un mese, 28 comizi, The Times: «Di Battista accolto come una rockstar»). I cronisti intorno. Lui, l’aria un po’ sprezzante, soffia una mezza frase. «Vi risponderò quando chiederete alla ministra Boschi se fosse a conoscenza che suo padre incontrava il massone Flavio Carboni…». Si infila dentro l’hotel Forum, va su. Lo aspettano Beppe Grillo e tutti gli altri; Luigi Di Maio seduto in un angolo, pallido, stordito, dice che ha l’influenza, occhiaie e sudore freddo come l’altra sera, sul palco di Nettuno: dopo aver visto la folla ondeggiare eccitata – «Dibba! Dibba! Dibba!» – e Di Battista in felpa movimentista arringare sicuro sotto lo sguardo soddisfatto del capo, gli è toccato andare al microfono e chiedere scusa, nel silenzio calato improvviso, per i tremendi pasticci degli ultimi giorni. Qualcosa in più di un’umiliazione. Così ha pure sbagliato due congiuntivi: «Come se presentassi 20 esposti contro Renzi, lo iscrivessero al registro degli indagati, poi verrei in questa piazza e urlerei Renzi è indagato…». Sul web, le immagini: con Di Battista che si accorge dell’errore e mette su una smorfia eloquente. I due hanno sempre giocato partite diverse dentro il M5S: Di Maio in ghingheri, perfettino, sorriso indecifrabile, modi che sarebbero piaciuti molto al Berlusconi di venti anni fa, l’incarico di vicepresidente della Camera, la non celata ambizione di poter correre, un giorno, da candidato premier. Di Battista in eskimo nella parte del grillino gruppettaro di vera lotta, i toni duri, alla tivù sempre in polemica, molte certezze su tutto, una collezione di dichiarazioni a dir poco avventate. Il Foglio lo definisce «mitomane a 5 stelle». Il New York Times lo inserisce tra i politici «ballisti» quando dal palco del Circo Massimo afferma che «il 60% del territorio della Nigeria è controllato da Boko Haram e il resto da Ebola». Non soddisfatto, Dibba rilancia auspicando un dialogo con i jihadisti iracheni di Isis. L’ambasciatore iracheno a Roma Saywan Barzani replica promettendogli un visto per entrare nel Paese e andare a trattare con i tagliatori di teste. Lui, allora, precisa: «Ma io non pensavo a Isis, pensavo ad Hamas». Ricorda Adriano Zaccagnini, ex grillino, ora deputato di Sel: «Con Alessandro feci la campagna elettorale del 2013 e mi ci volle poco per capire che aveva un solo obiettivo: essere eletto per diventare famoso». Tutto sommato, non ci ha messo molto. Alcuni cenni biografici sono già piuttosto noti: catechista nella parrocchia di Santa Chiara, in zona Vigna Stelluti, dove nasce da famiglia benestante. Molto legato alla madre e alla sorella Titti, insegnante di educazione fisica; rapporto un po’ complesso con il padre, piccolo imprenditore ramo sanitari che ad un raduno M5S afferma: «Io di destra? No, di destra proprio no. Sono fascista. È un’altra cosa». A casa, entrando, su una consolle, il busto di Mussolini. A 25 anni – adesso Di Battista ne ha 38 – uno zio che gestisce un’associazione di volontariato lo strappa alla carriera di animatore nei villaggi turistici e lo spedisce per un anno in Sudamerica. Guatemala, Colombia, Bolivia. La suggestione di Ernesto Guevara de la Serna detto il Che. Si appassiona al mito. Legge qualche libro. Poi va al cinema e vede I diari della motocicletta, un film del 2004 diretto da Walter Salles e ispirato all’avventuroso viaggio per attraversare l’America Latina intrapreso nel dicembre del 1951 da Guevara e dal suo amico Alberto Granado, in sella a una sgangherata e rombante motocicletta, pomposamente battezzata «Poderosa». Il problema di Di Battista, ormai diventato deputato, è che ha la patente per guidare solo gli scooter. Decide che può bastare. Così s’inventa il suo tour contro la riforma della Costituzione. Parte il 7 agosto, da Orbetello. Subito, la prima notte, posta una foto di lui a letto che legge: tipo insomma la famosa immagine del Che che legge Goethe. Poi cede all’egocentrismo: e posta la foto di quando fa flessioni appoggiato ad un guard-rail. Ovunque lo aspettano a centinaia. Il sindaco di Jesolo osa negargli la piazza e riceve minacce sul web: «Andresti ucciso a colpi di lupara». La chiusura del tour, a Nettuno. Dentro polemiche roventi per il caso Raggi. Ecco, appunto. Sulla sua pagina Facebook (efficiente come nemmeno quella di Gianni Morandi) Elena Fanti gli scrive: «Dibba, ma perché non ti sei candidato tu a sindaco di Roma?». Buona domanda. *** EMANUELE BUZZI, CORRIERE DELLA SERA 9/9 – «Luigi non si tocca». Quattro parole scandite chiaramente per placare la guerra interna (e frenare le ambizioni degli ortodossi. Beppe Grillo anche ieri nell’incontro-pranzo all’Hotel Forum con il direttorio ha ribadito uno dei concetti cardine già espressi nel summit del giorno prima: Di Maio resta l’uomo di punta del direttorio, il candidato premier in pectore (anche se una votazione tra gli iscritti non è ancora in calendario). Il garante giudica insomma imprescindibile, per le aspirazioni a un ruolo di governo, tutelare il vicepresidente della Camera, anche per il lavoro svolto finora. Certo, nel direttorio, in questo momento splende la stella di Alessandro Di Battista, ma il deputato romano pur lusingato dall’interesse preferirebbe evitare una eventuale candidatura per la leadership. Specie se il rivale in campo è Di Maio: Di Battista, anche nelle ore più convulse, si è sempre mostrato al fianco del parlamentare campano. Un asse che segna anche la frattura interna ai cinque deputati. Grillo anche ieri ha richiamato all’ordine: «Bisogna ripartire» è stato il refrain dei suoi discorsi. Una ripartenza con il sapore anche dell’ironia, come è nel suo stile. Il garante, infatti, ha anche scherzato sul caso De Dominicis: «In questo Paese è difficile trovare qualcuno che non abbia avuto indagini a suo carico». L’ordine di scuderia del leader ha provocato un po’ di malessere in chi sperava ci fossero cambiamenti (anche quelli ipotizzati al momento, per evitare strumentalizzazioni, sono stati congelati). «La battaglia è solo iniziata», ripete con un filo di rassegnazione un ortodosso. Ma il nodo di queste ore coincide anche con una grande novità nel Movimento. Grillo ha cancellato il passo di lato — come commenta Dario Fo («Ha ripreso completamente in mano la situazione») — ed è tornato prepotentemente al centro della scena. Il leader, che oggi lascerà Roma, è tornato a ricoprire totalmente il ruolo politico che aveva abbandonato. Tutte le decisioni relative all’impasse e agli scontri, tutti i protagonisti (anche quelli che hanno solo chiesto udienza) sono dovuti passare da lui. Il direttorio è stato messo in secondo piano. La necessità di ridare ai Cinque Stelle compattezza e una visione strategica del futuro, ma anche il richiamo ad avere una figura carismatica in grado di aiutare i parlamentari nella gestione di situazioni complesse, hanno di fatto determinato il suo ritorno in prima linea, con un ruolo ancora in fieri. Di sicuro, ormai, l’aver calcato la scena sui palchi estivi e mercoledì sera a Nettuno non sono episodi isolati, semplici comparsate nella galassia del Movimento. E un altro tassello è l’intervista alla tv russa, rilasciata ieri all’Hotel Forum (con la clausola di non diffusione in Italia): un passo che ricorda molto da vicino i tempi dello Tsunami tour quando Grillo era in prima linea nelle piazze. «Per noi la sua presenza è fondamentale» ripetono stavolta all’unisono i due principali schieramenti all’interno del Movimento. La discesa a Roma, oltre ad aver restituito al Movimento un po’ di serenità dopo le forti tensioni nella Capitale, ha forse più di tutto restituito ai Cinque Stelle — e in modo inequivocabile — la voce del loro leader. *** MASSIMO FRANCO, CORRIERE DELLA SERA 8/9 – C’ è una vistosa incongruenza tra l’evocazione di un complotto da parte dei giornali, e il direttorio del M5S che chiede a Virginia Raggi di liberarsi di tre collaboratori e un assessore. E i vertici del Movimento che si riuniscono in piazza in una cittadina balneare a sud di Roma con Beppe Grillo senza incontrare la sindaca della Capitale, rafforzano l’impressione di una strategia da ricostruire. Grillo, Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista additano nemici intenti al sabotaggio. «Il sistema è compatto contro di noi», tuona Grillo, e insulta tutti. La Raggi lamenta di essere sotto tiro perché dà fastidio. Sono messaggi che vogliono essere rassicuranti per il proprio elettorato; e che in parte riflettono la realtà, in parte la costruiscono artificiosamente per fornire un alibi di fronte ai pasticci e alle mezze verità di questi giorni. È chiaro che l’unica scelta possibile in una fase così confusa è la resistenza. Il tentativo mal riuscito è di presentarsi come forza compatta, concorde: al massimo un po’ ingenua. Ma in questi riflessi condizionati si colgono gli indizi di un pesante passo indietro del M5S. La telefonata di ieri tra la sindaca e Grillo conferma non solo una divergenza sul modo di trattare l’assessore all’Ambiente, Paola Muraro, inquisita, va oltre. Tocca due temi che esaltano le ambiguità del M5S. Il primo è il doppio standard sulle iniziative della magistratura, che oscilla tra giustizialismo verso gli avversari, e garantismo per i propri indagati. Il secondo riguarda l’opacità delle dinamiche che fanno scegliere una persona invece di un’altra. La pretesa di una totale trasparenza è umiliata dalla scoperta che dietro la Raggi si muovono interessi e personaggi dai contorni poco chiari. La questione non riguarda solo il Campidoglio dei Cinquestelle: lo si è visto nel sottobosco di Mafia Capitale e nelle giunte precedenti. Ma la connotazione antisistema dell’esercito di Grillo deve fare i conti col rischio di infiltrazioni da parte di interessi che non sembra in grado né di valutare né di controllare; e che sfruttano i vuoti di competenza e di classe dirigente di oggi. Il difetto di esperienza e di professionalità del M5S suona come virtù e elemento di forza, dopo i fallimenti degli «altri». Quando si passa dal successo elettorale all’amministrazione, però, il dilettantismo può rivelarsi letale. Il rischio vero del M5S non è di essere aggredito da partiti identificati con il malgoverno, e alle prese con una crisi economica che indebolisce tutti. La sua parabola potrebbe essere accelerata dall’ostinazione a non voler cambiare; a non rimettere in discussione il suo modello di leadership; e a non riconoscere gli enormi difetti di quella che chiama «democrazia della Rete». La Rete si sta smagliando perché quella «democrazia» è solo virtuale. Gridare al complotto non basterà a ricucirla. *** MARIO AJELLO, IL MESSAGGERO 9/9 – «Daje Dibba, facce Tarzan!». Glielo gridano spesso, al Di Battista, nei bagni di folla in cui egli si tuffa con carpiato e doppio avvitamento più sorrisini attraenti e occhiatine rimorchione, sentendosi l’ami du peuple (ma Jean-Paul Marat rispetto ad Ale era un principiante dell’ammiccamento) e poi afferra le liane del non sense su cui volteggia gridando «noi» e intendendo «Io». Chi c’è contro Io? Praticamente tutti – «Hanno paura di noi, ci vogliono fermare ma non ce la faranno perché gli italiani sono dalla nostra parte» – e insomma il Mossad e il destino cinico e baro che l’altra sera ha fatto piovere mentre dal palco di Nettuno parlava Io (cioè lui capace di salutare così le persone: «Ciao, come sto?»), l’Iran e il Kgb, «iclan-lecosche-lelobby-lebanchedaffari-iltrilateral-ilkappaggibbì-lamafia-lamassoneria» e pure «Verdini-LaBoschi-Napolitano» ma soprattutto «lavecchiapolitica» che stia attenta però. Perché ha giorni contati, assicura il Masaniello de’noantri: «È come il ladro che sta rubando dentro una casa privata e sente che si sta avvicinando la macchina della polizia che siamo noi». Noi? Io! Un tipo così a Grillo lo diverte. Mentre Di Maio lo teme. Anche se la vera competizione tra i due – e vincono entrambi – più che sulla premiership sembra sui congiuntivi. A Giggi che si lancia in uno strepitoso «come se verrei in questa piazza e urlerei...», l’insostenibile leggerezza dell’essere Dibba, che finge di scandalizzarsi per gli strafalcioni del rivale, contrappone con «soddisfamento» (cioè con soddisfazione) una doppietta micidiale che ha spopolato in tivvù: «Lei non mi interrompi!» (degno della scena in cui Fantozzi gioca a tennis e offre il servizio allo sfidante: «Che fa, batta lei?») e «non è giusto che le banche scrivino le manovre finanziarie». Ogni sgrammaticatura concettuale è buona per formare il Dibba-pensiero tra terzomondismo (in Ecuador è andato a studiare gli orti urbani e «la giustizia indigena», in Africa bacia i bimbi e a Cuba abbraccia la statua del Che anche se il papà ha il busto di Mussolini in casa); eco-equo-ego-solidarismo («Il mio sogno? Dare un reddito di cittadinanza a tutti»); slang televisionario (ma fu scartato dalla De Filippi quando fece il provino per Amici); profondismo modello dj («La piazza è tutto, stare insieme è tutto, stanotte vi lascio con un pezzo di Bruce Springsteen e.... a riveder le stelle!!!»); e autarchia da kilometro zero da casello a casello. «Vogliamo mangiare ciò che produciamo – è il suo vaste programme, come avrebbe detto De Gaulle (chi?) – e produrre ciò che mangiamo». Ma avrebbe tranquillamente potuto dire: «Io mangio del mio mangio e bevo del mio bevo». Peccato che Flaubert non è riuscito a conoscere un tipo così: il suo «Bouvard e Pécuchet» sarebbe venuto meglio. IL SORPASSO È un poco, Ale Dibba, il Bruno Cortona – in versione minuscola – che romba nel «Sorpasso» anche se Gassman aveva la scappottata e lui nel suo «Costituzione tour coast to coast» («Lo devo interrompere perché mi chiamano a Roma: c’è un problema da risolvere», ha proclamato l’altra sera quando stava crollando il Campidoglio) cavalca lo scooterone e ogni tanto, guardandosi con il casco in testa e la felpona combat, viene sfiorato dal dubbio: «Ma quanto mi piaccio?». «Dibbbaaaa....», gli gridano i fan esultanti, ora che l’unica stella non cadente, tra i 5 stelle, credono che sia questo onirico esemplare pop. Grazie a lui l’Italia può salvarsi, anzi nascere o rinascere come fu nel Risorgimento e infatti, forse perché sia chiamava a sua volta Ale, il Dibba ama recitare dal palco il «Marzo 1821» di Manzoni (ma non sarebbe meglio in versione karaoke magari con la Raggi ai cori gospel visto che Grillo la definisce «una negra del Mississippi anni 60»?) perché quanto è patriottico il nostro eroe. Sulla cui biografia, nella Navicella parlamentare, non c’è scritto disoccupato ma «scrittore» e in effetti la Casaleggio Associati gli commissionò un libro di viaggio sui fenomeni delinquenziali in Colombia («Sicari a 5 euro») e da lì è cominciata la sua grande scalata politica di cui un tipo arguto come il giornalista Luigi Barzini avrebbe potuto scrivere: «Fare il grillino è sempre meglio che lavorare». BUFALE & CHAMPAGNE Spumeggia il Dibba. E può vantare un’allure internazionale capace di far impallidire Di Maio che pure all’estero ci va e quando ha tentato di entrare a Gaza per salutare Hamas – anche per conto dell’amico-rivale – gli israeliani stavano per impallinarlo. Comunque Ale, unico italiano, è entrato trionfalmente nella classifica mondiale delle «grandi bufale», curata dal New York Times, quando ha affermato: «La Nigeria per il 60 per cento è sotto il controllo di Boko Haram e il resto è Ebola». Mentre quaggiù, a parte il Dibba che è anche cantante come lo fu Califano, tutto il resto è noia. *** SIMONE CANETTIERI, LORENZO DE CICCO, IL MESSAGGERO 8/9 – Ha gli occhi lucidi, Luigi Di Maio, quando incontra Grillo, insieme agli altri membri del direttorio M5S. Basta uno sguardo, poi subito l’abbraccio con il fondatore del Movimento, con la commozione ormai impossibile da trattenere. «Beppe, ho sbagliato. Ora ci devo mettere la faccia, fino in fondo. Parlo dal palco a Nettuno e mi prendo le mie responsabilità», dice il vicepresidente della Camera, nella giornata forse più difficile da quando è il leader in pectore dei Cinquestelle. Una leadership, quella del vicepresidente della Camera, messa a dura prova dalla email del 5 agosto, anticipata dal Messaggero, in cui Paola Taverna, componente dello staff romano che affianca la sindaca Raggi, lo ha informato delle indagini a carico di Paola Muraro, l’assessore all’Ambiente sotto inchiesta per reati ambientali. Dunque Di Maio o ha mentito o «non ha capito». Due precondizioni, la capacità e la sincerità, necessarie per chi ha l’ambizione di essere protagonista della scena politica italiana. «Ho commesso un errore, ho sottovalutato la situazione», ribadisce poi Di Maio, in serata, durante il comizio organizzato da Alessandro Di Battista sul litorale romano, parlando subito dopo «Beppe». Accanto a lui, ci sono proprio Carla Ruocco, Carlo Sibilia e Roberto Fico. Gli altri membri del Direttorio che proprio di quella mail (e della Muraro indagata), hanno dichiarato di non saperne nulla. IL COLLOQUIO Ma c’è un prima e un dopo, nella giornata del parlamentare di Pomigliano che ha scalato le gerarchie del Movimento. È l’incontro con il comico genovese. Un colloquio franco, in cui anche le perplessità più forti del Direttorio verso la gestione del Campidoglio (vedi Carla Ruocco e Roberto Fico) vengono almeno temporaneamente smussate, alla ricerca di un compromesso. Anche Di Maio capisce che «non possiamo danneggiare il M5S». E ripete: «Dobbiamo crescere, se vogliamo arrivare al governo del Paese»; in questa fase serve «più umiltà, da parte di tutti». E alla fine è lui il primo a esercitarsi nel mea culpa. Sa che non ci sono altre strade per tentare di recuperare una leadership che da questa vicenda appare comunque azzoppata. E anche che certi equilibri sono destinati a cambiare: da una parte il ritorno sulla scena delle romane Taverna e Roberta Lombardi, dall’altra l’ascesa di Di Battista, ieri molto applaudito. Ecco perché, quando sale sul palco di Nettuno, Di Maio cerca di essere di nuovo solo «Luigi». Via l’abito blu d’ordinanza, via il profilo istituzionale tenuto negli ultimi mesi. «Devo delle spiegazioni al popolo del M5S», esordisce in maniche di camicia. «Sono qui per guardarvi negli occhi e dirvelo: ho sbagliato, ho sottovalutato». E va dritto al punto: «Paola Muraro è indagata. Ma non conosciamo le carte. Potrebbe essere un reato punibile anche con una semplice multa». Per questo, ripete, «dobbiamo leggere gli atti». Una concessione pubblica alla linea della Raggi, che svela l’intento di ammorbidire i toni, di non far emergere lo scontro frontale tra i vertici pentastellati e la sindaca della Capitale. Ma tutto il discorso del «leader in pectore» ruota attorno all’ammissione delle sue responsabilità, soprattutto nei confronti dei «colleghi» del Direttorio: «Quando ho letto la mail e i messaggi, pensavo che quelle denunce venissero dal vecchio presidente di Ama, nominato dal Pd, che ha presentato 14 esposti in Procura», dice Di Maio. Insomma, vicende «di secondo piano», come dirà ai suoi, originate da «attacchi strumentali dei democratici». Solo dopo, «a settembre - sostiene il vicepresidente di Montecitorio - ho capito che la Muraro era indagata già da aprile». Una versione che non convince tutti. La Taverna, nella mail rivelata da questo giornale, parla di «situazione delicata» di «imminente avviso di garanzia» che portino a «contestazioni di maggiori gravità». Ecco perché la storia pensavo che fosse tutta colpa delle denunce del Pd, recitata da Di Maio sul palco, ha delle falle. Nella coda dell’intervento, c’è la mossa studiata e soppesata durante tutta la giornata. Il No alla candidatura olimpica di Roma. Lo stop per cui la corrente Di Battista-Taverna è in pressing da settimane. Alle fine lo dice lui, che fino a ieri aveva sposato la linea della prudenza. Ma ieri, ragionavano nel suo entourage, serviva un cambio di passo, un cedimento che andasse incontro alla frangia (romana) più intransigente del M5S. Che ha già iniziato a smontare il piano Di Maio per Roma, inteso per il Campidoglio, chissà se vale anche per Palazzo Chigi. Simone Canettieri Lorenzo De Cicco *** MARCO FATTORINI, LINKIESTA 17/3/2014 – «Di Battista ha delle qualità straordinarie, ha i tempi, ha tutto. Rivedo in lui quello che potevo essere con trent’anni di meno». Mentre Luigi Di Maio «è un Casaleggio senza capelli». Parole e musica sono di Beppe Grillo, che in un colpo solo ridipinge i due parlamentari a immagine e somiglianza dei cofondatori del Movimento 5 Stelle. Uno tiene il palco e ha un’efficacia comunicativa quasi pari all’ex comico, l’altro esibisce doti gestionali vicine a quelle del guru. Non è un mistero che i vertici abbiano una predilezione per gli enfant prodige sopracitati, già lodati in diverse occasioni pubbliche e private. Ma questa volta l’endorsement viene cucito su misura per i delfini di domani che incarnano i leader di oggi. All’orizzonte c’è infatti la staffetta elettorale: il ticket Grillo-Casaleggio ai posti di comando nella war room lontana dalla Capitale, il tandem Di Maio-Di Battista in corsa per la volata grillina a palazzo Chigi. Sono la coppia del gol in casa Cinque Stelle. Unendo le forze Alessandro e Luigi contano trecentomila fan su Facebook e una sequela di reazioni bipartisan nel paese reale. Di Battista, laziale classe 1978, laurea al Dams e master in tutela dei diritti umani, si muove da capogruppo morale del Movimento, frontman della truppa e comunicatore per natura. A marzo sul suo sito ha avviato la rubrica «La legge del lunedì» in cui spiega le proposte di legge presentate dai pentastellati. Di Maio, annata avellinese 1986 e ancora oggi studente di Giurisprudenza a Napoli, è la voce grillina nelle istituzioni, vicepresidente della Camera «stimato e apprezzato» dal collega Roberto Giachetti del Pd. Presiede l’Aula e più volte gli è capitato di dover rimproverare se non addirittura sanzionare i colleghi movimentisti. Pacato e preparato, Grillo ha indicato lui quale esempio di comportamento anche perché, come spiega Di Battista, «a noi del Cinque Stelle non è concessa alcuna sbavatura, se parliamo normalmente nessuno ci ascolta, se invece alziamo leggermente la voce ci danno dei violenti». Doppiopetto e apriscatole, Di Maio è considerato «un fuoriclasse» tra i suoi mentre a Pomigliano, dove ha fatto il liceo classico, lo descrivono come un «ragazzo pulito». Giovanissimo eppure disinvolto nel ruolo istituzionale, egualmente risoluto nella battaglia politica pentastellata. A vederlo pare che bazzichi il Parlamento da anni e invece sono passati appena dodici mesi durante i quali ha puntellato una leadership lucida, sorridente e autorevole. Quelli del gruppo comunicazione hanno capito subito la stoffa del ragazzo spedendolo in tv come uomo simbolo dei Cinque Stelle e jolly dei palinsesti. Così Di Maio ha varcato gli studi di Otto e Mezzo, Bersaglio Mobile e Servizio Pubblico su La7, ha affrontato il faccia a faccia di In mezz’ora con Lucia Annunziata e quello di Che tempo che fa con Fazio, si è collegato con Agorà e La Telefonata di Belpietro. Poi L’Arena di Giletti su Rai Uno, Virus di Nicola Porro su Rai Due e la paludatissima terza Camera di Porta a Porta, che il giovane campano ha visitato più volte con performance che hanno «piacevolmente stupito» un navigato padrone di casa come Bruno Vespa. Di Battista ha resistito per mesi. «I talk mi invitano e il gruppo comunicazione mi consiglia di andare - dichiarava a Linkiesta - ma perché dovrei contribuire alla prosecuzione dell’agonia di un mezzo che crea distanza? Nessuno guarda Porta a Porta e poi ha voglia di scendere in piazza». Alla fine ha accettato gli inviti di La7 con un paio di apparizioni da Santoro e l’ormai famosa intervista alle Invasioni Barbariche. Buca lo schermo, confeziona risposte pungenti e slogan da applausi. In aula i suoi discorsi sono tra i più arrembanti, in piazza mostra il volto passionale. Non rinuncia al cordone ombelicale con gli attivisti: si commuove, s’indigna e s’infervora al punto giusto confrontandosi con tutti, al bar e per strada. Allo stesso tempo parla il linguaggio del «buon padre di famiglia», riscuote consensi trasversali grazie a un eloquio empatico che miscela onestà, buoni sentimenti, morale e legalità. Non a caso una signora della televisione come Maria De Filippi, intervistata da Tv Talk, ha detto che dopo Renzi un altro politico in grado di salire sul palco di Amici e parlare al pubblico giovane è proprio Di Battista. Uno il cappotto elegante, l’altro la giacca in pelle. Gemelli diversi, ma complementari nella missione per conto di Beppe: se Luigi è la testa, Alessandro è il cuore della comunicazione stellata. E di “uccidere il padre” non ne vogliono sapere. «Se il Movimento è arrivato fino a qui lo dobbiamo a Beppe», ripetono. Entrambi sono tra i custodi dell’ortodossia pentastellata, dalle battaglie parlamentari alle questioni interne. Per le espulsioni dei dissidenti hanno rispolverato l’artiglieria pesante: «Serpi in seno e mercenari», ma anche «persone animate dalla logica del dolo e della malafede». Siedono nel ristretto conclave dei parlamentari che hanno un rapporto diretto con lo staff milanese e i fondatori del Movimento. La senatrice Serenella Fucksia ha parlato di «sei persone che decidono per tutto il Movimento», mentre un deputato a taccuini chiusi cita Orwell per «alcuni parlamentari che sono più uguali degli altri». Con buona pace dei dissensi la leadership dei due cresce sospinta dai colleghi pasdaran e trascinata dall’entusiasmo degli attivisti. Fuori dal Palazzo ci sono sempre, a costo di sacrificare i weekend. Presenti in prima fila negli eventi come l’Expo Tour a Milano dove sono saliti sul palco accolti da una standing ovation. Nella grande famiglia dei Cinque Stelle loro due sono «i fratelli» più amati. Nei corridoi di Montecitorio corrono anche le invidie e i dissapori, qualcuno nel gruppo parlamentare mal sopporta «i due capetti» e altri «sgobbano in silenzio mentre loro si prendono i meriti davanti ai riflettori». Gli inciampi però si contano sulle dita di una mano, soprattutto per il compassato Di Maio che, dimostrando di aver interiorizzato alla velocità della luce l’incarico istituzionale, non alza la voce nè concede autogol. Ha fatto discutere lo scambio di bigliettini con Renzi frettolosamente messi in rete da uno zelante vicepresidente della Camera. Mentre Di Battista ha chiesto scusa dopo essere stato beccato da Gazebo mentre guardava una partita al computer durante le votazioni per l’Italicum cui ottemperava col famigerato metodo della palletta. «Era un video con alcuni gol del Foggia, io sono appassionato del Foggia di Zeman. Ho sbagliato e mi scuso soprattutto con gli attivisti». Entrambi sono stati precettati per la campagna elettorale delle europee, partita d’opinione decisiva per minare le certezze del governo e prova generale per le politiche. Prima dell’Expo Tour, alla Casaleggio Associati è stato fatto il punto con i parlamentari fedelissimi. Grillo garantirà la sua «quota comizi» integrata dagli spettacolo a pagamento in partenza ad aprile. «Ma questa volta - fanno sapere dallo staff - è richiesto uno sforzo in più ai parlamentari, che andranno in giro nelle piazze a raccontare l’attività del Movimento a Palazzo e il programma per le europee». Il ragionamento non fa una piega: dopo mesi di gavetta i ragazzi di Camera e Senato hanno acquistato gli strumenti (e anche l’appeal mediatico) per muoversi nella ricerca del consenso. Molti di loro, compresi Di Maio e Di Battista, ogni weekend fanno agorà e incontri con gli attivisti da nord a sud, incrementando un filo diretto col territorio che colleghi “più esperti” appartenenti agli altri partiti non hanno mai avuto. I tempi sono maturi perché anche i cittadini-portavoce mettano la faccia in campagna elettorale e l’ex comico lo ribadisce con un’iperbole durante la manifestazione milanese: «Adesso le piazze sono piene e io sto a casa mia, e vaffanculo!». Fedeli all’adagio secondo cui «l’attacco vende i biglietti ma la difesa vince le partite», i due bomber del Movimento guidano mediaticamente il fronte dei portavoce: Alessandro spara col cannone mentre Luigi difende col fioretto. La partita è lunga, potrebbe spingersi fino al 2018 per poi tentare la sortita a palazzo Chigi con governo monocolore e bandiera a cinque stelle. «Ma è il gruppo che vince e non i singoli, così come non trionfa un pezzo di cittadinanza ma tutti i cittadini», questa l’esegesi di Roberto Fico, presidente della Commissione di Vigilanza Rai. La guerra è collettiva e si marcia tutti insieme, ma al momento di una candidatura per la premiership ne resterà soltanto uno. Agli attivisti l’ardua sentenza. *** GIANLUCA ROSSELLI, IL FATTO QUOTIDIANO 22/7/2014 – I commessi di Montecitorio all’inizio sbagliavano sempre. Perché Luigi Di Maio anche nel look è la negazione del prototipo del grillismo. Tanto i suoi compagni di partito – pardon, Movimento – si presentano alla Camera con look improbabili, tra il gruppettaro caciarone e il trendy paesano, tanto lui è sempre inappuntabile in completi grigio antracite, camicia bianca e cravatta d’ordinanza. Grisaglie un po’ tristi, per la verità, che rimandano più al burocrate di provincia che all’avvocato Agnelli. Ma tant’è. La zazzera tagliata di fresco, poi, completa l’affresco da primo della classe, di quelli che di solito piacciono alle mamme (e meno alle figlie). Nessuno può azzardarsi a sostenere che è anche per una questione di look che Di Maio sia diventato vice presidente della Camera. Ma l’abito, se non fa il monaco, a volte conta parecchio. Lui, da par suo, ha iniziato in sordina ed è venuto fuori – alla grande – alla distanza. Il proscenio grillino, nei primi mesi di legislatura, era infatti monopolizzato da altri: Vito Crimi e le sue gaffe, Roberta Lombardi e i suoi psicodrammi, ma soprattutto Alessandro Di Battista, il Brad Pitt del grillismo da Transatlantico. Belloccio e sbruffone, ha tenuto botta per settimane. Di Maio, nel frattempo, lavorava nell’ombra, imparando a danzare tra codici e regolamenti, facendosi molto apprezzare, riunione dopo riunione, dai suoi colleghi della presidenza. Con Roberto Giachetti (Pd), il sovrano incontrastato e “stazzonato” dei regolamenti d’aula, il legame è solidissimo. “È molto preparato, un po’ saccente, ma ad avercene alla Camera di gente come lui”, sussurrava un pezzo grosso di Forza Italia dopo qualche mese di legislatura. Tanto che, poco alla volta, i deputati grillini hanno preso lui come punto di riferimento. “Cosa bisogna votare su quell’emendamento?”. “Chiedete a Di Maio”. “Che si fa sul quell’ordine del giorno?”. “Sa tutto di Maio”. Una sorta di capogruppo in pectore: mentre gli altri passavano, lui restava. Così è Di Maio il primo che Grillo e Casaleggio vogliono incontrare durante le loro incursioni romane. E visto che i due non sono stupidi, quando si è deciso di rompere l’embargo verso i talk show, hanno puntato su di lui come volto da spedire in tv. Anche perché, se il suo eloquio è felpato e il guardaroba rassicurante, questo 28enne di Pomigliano d’Arco, il paesone napoletano da sempre in mano alla sinistra, è durissimo nei contenuti. Acuto, brillante, sa dove vuole andare a parare e ci arriva senza troppe perifrasi. Insomma, mediaticamente funziona. Molto di più di Di Battista, che sembra sempre reduce da un happy hour. Così arriva l’investitura ufficiale: Grillo sceglie Di Maio per trattare con Matteo Renzi sulle riforme: sono già due gli streaming in cui l’ex rottamatore e l’enfant prodige dei pentastellati hanno incrociato le lame. Scamiciato e ingrassato, Renzi. Inamidato e puntuto, Di Maio. Insomma , il vicepresidente della Camera sembra incarnare l’evoluzione della specie del grillismo: se prima il movimento era tutto blog, piazze e vaffa day, con Di Maio i cinque stelle si sono dati un volto presentabile, pulito, quasi istituzionale. Tanto che qualcuno l’ha soprannominato “l’Alfano di Grillo”. Un Alfano, però, con molto quid. Più democristiano di Angelino, dicono, in quanto a capacità di lavoro e furbizia. E qui iniziano i problemi. Perché il ragazzo, forse, si è un po’ montato la testa. “Grillo e Casaleggio avranno sempre meno spazio, conteranno di meno”, si è lasciato sfuggire l’altro giorno. E subito qualcuno ha trovato la conferma ai suoi sospetti: eccolo lì, Di Maio si candida a leader del movimento. Di più: punta a fare il candidato premier dei Cinque Stelle alle prossime elezioni. Il problema, però, come si direbbe, è anche politico. Perché, a parte il suo piccolo cerchio magico, il gruppo alla Camera è in subbuglio e lui è finito sul banco degli imputati. Non solo per le sue ambizioni di leadership, ma per il fatto di incarnare l’ala trattativista con il Pd, mentre i duri e puri con Renzi non vogliono prendere nemmeno un caffè. E così, dagli a Di Maio. “È un leader senza merito. Hanno deciso di lanciarlo a capo del movimento senza alcuna legittimazione. Se bisogna decidere un segretario, allora ci vuole un congresso”, attacca Tommaso Currò. La risposta di Di Maio arriva telegrafica, via Twitter. “Non sono il capo del M5S. Finita la legge elettorale scriverò una lettera agli attivisti che spiega tutto”. Ma contro di lui piovono veleni. Come quello secondo cui sarebbe già con un piede dentro il partito di Renzi. “Fesserie”, dicono dal suo entourage. Anche perché Di Maio è corteggiato pure da Nuovo centrodestra e Forza Italia. Lo stesso Berlusconi, raccontano, pare abbia un debole per lui. Con grande “scuorno” della classe dirigenti azzurra, che si sente sempre rimbrottare: “Perché non ho una Boschi? Perché tra di voi non c’è un Di Maio?”. Il deputato grillino, intanto, va dritto per la sua strada, incarnando l’ala partitica del Movimento cinque stelle, ovvero quella che vorrebbe abbandonare la fase movimentista per farsi partito vero, con struttura e organizzazione. Idea che ha fatto registrare una sollevazione in rete. “Se diventiamo un partito come gli altri, sarà la nostra fine”, è il tono dei commenti sui blog. Lui, per ora, fa spallucce. E si gode i complimenti di Grillo e Casaleggio, da cui, dicono, si mantiene equidistante. “Io imparo sempre da Di Maio, anche quando sta zitto”, gli ha scritto Beppe via sms. “Beppe, sei uscito pazzo o sei invecchiato!”, la risposta. “Ma veramente io dicevo sul serio...”. Gianluca Roselli, il Fatto Quotidiano 22/7/2014 *** FULVIO ABBATE, IL GARANTISTA 24/7/2014 – Il giovane Luigi Di Maio, campioncino in ascesa del M5S, lo confesso, con quell’aria molto “executive”, tra “Gazzetta ufficiale”, vicepresidenza della Camera e – ahimè - ormai impossibili irruzioni dei rettiliani, mi mette paura. Più di quanto non sia accaduto nel tempo con un altro pezzo unico del brivido politico nostrano, cioè il berlusconiano radicale Daniele Capezzone. A dire il vero, la prima impressione visiva (che non sempre è quella che davvero centra il bersaglio), suggeriva il carisma assai stoico dell’agente immobiliare, proprio questi in attesa davanti a un civico, blazer e cravattone nella più torrida pampa degli appartamenti da mostrare al potenziale acquirente. Pura estetica “Gabetti”, insomma. Perfino lo spettacolo dello streaming, con Renzi come un abusivo lì nello strapuntino d’angolo, narrava qualcosa di atroce e spettrale, un numero degno del “gabinetto del Dottor Caligari” 2.0 cui ci hanno abituato quelli del Movimento 5 Stelle. Già, in confronto all’aria da torvo Mario Pio calzata come un passamontagna dal Di Maio e dai suoi colleghi parlamentari di spalla, sempre più ultracorpi “Tecnocasa”, il carissimo Matteo, in jeans e giacca turchese da circoletto, sembrava Checco Zalone al massimo della forma, di più, sembrava che gli appartenesse pienamente il motto anarchico secondo cui «sarà una risata che vi seppellirà». Esatto: seppellirà proprio i pizzuti grillini e la loro totale assenza di ironia. Certo, si tratta di semplici sensazioni, eppure la scena con Di Maio al centro, andando avanti con il nostro film, sembrava anche una parodia del celebre quadro di Caravaggio dedicato ai bari improvvisamente sgamati, un remake affidato, che so?, ancora una volta a uno bravo a marcare il ridicolo. Gli irreprensibili pentastellati, sempre tesi verso le labbra di Beppe e di Casaleggio, ci hanno insegnato che c’è sempre e comunque qualcosa di antropologicamente deforme nella classe politica, perfino la più giovane, addirittura la più “easy”, e noi, ligi, ricordandoci perfino della lezione di Monicelli, Risi e Scola che misero al mondo del cinema “I mostri” (e poi, non contenti, “I nuovi mostri”) decidiamo quindi di diffidare perfino di un’encomiabile vicepresidente della Camera come Di Maio. Così come non riusciamo a finire un solo numero di “Urania”, a dare credito all’idea del microchip sotto pelle, alle scie chimiche e perfino alla già citata leggenda dei rettiliani, allo stesso modo ci sembra opportuno interrogarci su chi parla così: “D’ora in poi – spiegò Di Maio a David Parenzo nella rassegna culturale “Ponza d’autore” – Beppe Grillo e Casaleggio avranno meno spazio, ma loro sono contenti e sono in una fase in cui cercano di dare più responsabilità a quelli che oggi fanno parte del Movimento e ne condividono la linea”. E ancora, di fronte alle preoccupazioni del collega deputato convinto che il campioncino si fosse montato la testa aggiunse: “Tom Currò dice che ormai sono a capo M5S. Non è così. Finita legge elettorale scriverò lettera agli attivisti che spiega tutto”. Già l’annuncio prelude qualcosa di minatorio. Un “piccolo ambiziosetto”, insinuano gli infami Franti della rete? O piuttosto piccoli nuovi dorotei crescono? Come scrive Philippe Ridet, corrispondente di “Le Monde” da Roma: “L’uomo della sinistra radicale e degli incontri con Matteo Renzi sulle riforme è diventato il volto istituzionale e presentabile di un partito che in passato ci aveva abituato ad atteggiamenti aggressivi, intransigenti e spesso anche infantili”. Il riferimento alla sinistra radicale trattandosi di M5S è un abbaglio lisergico (ricordando, fra l’altro, che nei geni familiari di Di Maio c’è, semmai, il MSI e poi AN) ma comincia a farsi strada l’idea che si tratti di una reincarnazione di Andreotti, la stessa assenza di umane sbavature, la stessa assenza di eros, la stessa sensazione che comandare sia meglio che fottere sia pure in versione 2.0, (tu ce lo vedi Luigi nostro, nottetempo, davanti alle meraviglie di YouPorn?), la stessa implicita voglia di castigare i “cazzari” del suo stesso gruppo, persone che finora neppure Gianroberto, il capogita, era riuscito a ricondurre alla ragion pratica, e poi su tutto un’aria da primino della classe che probabilmente perfino a Montanelli avrebbe fatto venire voglia di mettersi nudo al sambodromo di Rio. Il sequel dei nuovissimi mostri attende soltanto un nuovo spassionato regista. Pensa, forse lo stesso Renzi riuscirebbe nell’impresa creativa. *** MARIANNA RIZZINI, IL FOGLIO 10/3/2015 – Generale, queste cinque stelle / queste cinque lacrime sulla mia pelle / che senso hanno / dentro al rumore di questo treno / che è mezzo vuoto e mezzo pieno…”. La cantava Francesco De Gregori, ma potrebbero benissimo cantarla anche quelli che, qualche giorno fa, tra il Nazareno (inteso come sede del Partito democratico) e la redazione del Corriere della Sera (vedi Aldo Cazzullo) avevano pensato, per dirla con il famoso slogan renziano, “dai che questa è la volta buona” (la volta buona che i Cinque stelle dialogano – utopia nella distopia grillesca dove chi si mescola agli altri è perduto, perché l’identità del tutto si basa sulla chiusura ermetica al mondo marcio là fuori). Ma il dubbio che la volta buona potesse farsi ancora attendere è riemerso a neppure quarantotto ore dall’intervista in cui Beppe Grillo, sul Corriere della Sera, diceva di essere pronto a confrontarsi con chiunque e in primis con il Pd sulla Rai e sul reddito di cittadinanza, visto oltretutto che “le piazze non funzionano più” (e sono adocchiate da Matteo Salvini). Il ridimensionamento, infatti, aleggiava dalle pagine di Repubblica. E si faceva palpabile man mano che le ore passavano, nel vento spazzatutto dell’emergenza climatica (“weekend di uragano”, dicevano i bollettini del venerdì), palpabile tra le righe dell’intervista a Luigi Di Maio, giovane plenipotenziario da sempre considerato, più per apparenza che per reale sostanza dialogante, “il moderato”, “il calmo”, il “freddo”, “l’uomo che contratta” per conto dei Cinque stelle. Un plenipotenziario (oggi Di Maio sogna un “piano Marshall” per gli enti sciolti per infiltrazioni mafiose) visto inizialmente e a lungo come “l’erede”, almeno fino a quando del Direttorio a cinque non si intravedeva la sagoma. Ora, oltre a lui, ci sono altri quattro luogotenenti: Alessandro Di Battista, Roberto Fico, Carla Ruocco, Carlo Sibilia. Un erede, Di Maio, che dal palco del Circo Massimo, nell’ottobre 2014, si mostrava modesto ma non del tutto inconsapevole del suo ruolo ufficioso, al cospetto del sindaco di Parma mezzo-dissidente Federico Pizzarotti che, tra gli stand della Festa nazionale del M5s, diceva: “Luigi Di Maio? E’ competente, ma al Movimento serve una squadra forte”. E si scambiavano strette di mano non cordialissime, i due, mentre Di Maio si confermava potenziale “delfino” tra i delfini, ma con tratti alfaniani: come Angelino per il Cav., Di Maio era sì delfino, ma talmente poco simile all’originale (il capo ed ex comico Beppe Grillo) da rendere l’idea stessa di delfino molto aleatoria. Di Maio, infatti, è sempre stato vissuto, a torto o a ragione, come il Cinque stelle presentabile che non rischia di dire castronerie su sirene e microchip, Cinque stelle educato che non si accapiglia con i colleghi del Pd (tipo Alessandro Di Battista con Roberto Speranza), Cinque stelle che apparentemente non la spara grossa (ma poi si allinea al blog), Cinque stelle che, infine, quando Di Battista scivola per eccesso di volontà di “comprensione” sull’estremismo islamico, come l’estate scorsa all’indomani delle prima decapitazioni targate Isis, butta lì la frase involuta da diplomatico di Palazzo in stile Prima Repubblica: “Su Isis l’unico documento ufficiale del Movimento è la risoluzione che abbiamo presentato”, diceva Di Maio il delfino diverso dal prototipo, uno che può anche avere l’aria “da bravo ragazzo”, come dicono le mamme, ma che, alla faccia del sempre nascente e mai davvero nato dialogo con il Pd, appena può non manca di dichiarare solennemente che “il Partito democratico è coinvolto negli scandali Mose, Mafia Capitale ed Expo”. “Penso che l’Isis sia un’organizzazione terroristica che preoccupa, ma che non si può combattere con le bombe”, diceva intanto in agosto Di Maio, specificando, a difesa non esplicita del collega testa calda altermondialista cosiddetto “Dibba” (sempre Di Battista), che “in ogni forza politica c’è chi ha delle posizioni particolari”, ma che “non si devono certo fermare i colleghi tappando loro la bocca. Bisogna solo ricordare la linea ufficiale del Movimento”. Erano frasi da de-grillizzazione incipiente (nello stile, almeno), e però erano tutti falsi allarmi. Così oggi il vicepresidente della Camera, a ventiquattr’ore dall’uscita dell’intervista del Grillo in apparenza ammansito, ha precisato che sulla Rai sì, magari ci sono “i presupposti per cacciare la politica dall’azienda” con il Pd, ma che sulle riforme o sulla legge elettorale non è cosa. Per esplicita o tacita divisione dei ruoli , Di Maio è, da un paio d’anni, il presunto “uomo del dialogo” che dice le cose che ci si aspetta che dica quando dai Cinque stelle arriva la periodica apertura. A luglio 2014, per esempio, Di Maio assicurava disponibilità sulla legge elettorale: “Stiamo valutando”, c’è “un’altra prospettiva”, “abbiamo appoggiato il ddl Chiti che già prevedeva quanto ci propone il Pd”. Poi naturalmente il dialogo si inceppava, e Di Maio, al grido di “Renzi non ci ha folgorati sulla via di Damasco”, riprendeva i panni da Cinque stelle ortodosso, sempre però con il sorriso fisso da studente fuorisede che, per mantenersi, fa anche la pubblicità del dentifricio (Di Maio sorride spesso, in tv o davanti ai cronisti, ma del sorriso mezzo pieno e mezzo trattenuto delle migliori réclame sul preparato miracoloso e sbiancante che cancella i peccati di fumatori e patiti del caffè). E in novembre, alla prima stretta sulle ipotesi per il Quirinale e in concomitanza con la doppia fumata bianca sui nomi per la Consulta e per il Csm, Di Maio, al Corriere della Sera, diceva “noi ci saremo” (condizione: “Se nel Pd c’è buonsenso” – inutile dire che il buonsenso altrui, alla fine, i Cinque stelle non lo vedono mai). E se l’intervistatore chiedeva “ma lei è disponibile a sedersi di nuovo al tavolo col Pd?”, Di Maio rispondeva che “il problema del tavolo” non si poneva, “non era in discussione”. Tanto è uomo “di confronto”, Di Maio, ex studente di Giurisprudenza cresciuto a Pomigliano D’Arco, giunto a un passo da una laurea non ancora conseguita e web master fino all’elezione in Parlamento, da aver detto a Repubblica, a due giorni dalla cosiddetta “apertura” di Grillo, che sì, il “dialogo sarebbe possibile”, ma che il premier “se ne frega del reddito di cittadinanza” e anzi: “Se è contrario al reddito di cittadinanza, abbia il coraggio di dire che ha paura che scompaia il voto di scambio”. Renzi “giocava alle tre carte sul tavolo della riforma elettorale”, ha aggiunto Di Maio per ricordare gli streaming estivi con il Pd sulla bozza di riforma della legge, con i Cinque stelle da un lato del tavolo e i democratici dall’altro. Eppure non è nulla, la diffidenza che traspare dalle suddette frasi, in confronto a quello che Di Maio dice quando parla di Campania (a inizio febbraio, sulla sua pagina Facebook, è comparso il seguente post: “Il Governo Renzi nel decreto milleproroghe ha tagliato 9,7 milioni di euro per la sorveglianza della Terra dei Fuochi, trasferendoli all’Expo di Milano. Quei soldi dovevano servire anche per l’utilizzo di nuovi droni di sorveglianza contro i roghi tossici. In Campania a maggio ci sono le elezioni regionali. Dite pure a Renzi e ad Alfano di venire a fare campagna elettorale da queste parti. Gli sapremo dare l’accoglienza che meritano. Via a calci!”). E a “Di Martedì”, chez Giovanni Floris, su La7, seduto rigido sulla poltrona cartonata in completo bluette (stesso tono di bluette di quello con cui il ministro Maria Elena Boschi andò a giurare sul Colle, nel febbraio 2014), Di Maio, alla domanda “le piace Matteo Renzi?”, ha risposto per via obliqua, con parole che non erano certo il preludio dell’apertura-dialogo che il suo leader avrebbe lanciato il giorno successivo dal Corsera). Bisogna chiedersi in che cosa “l’operato di Renzi è utile ai cittadini”, era il concetto. “Le cose buone Renzi le annuncia ma non le fa; le cose cattive le fa ma non le annuncia”, era il suo cavallo di battaglia. E insomma, parlando di “no” a Equitalia, riscossione tasse “coscienziosa”, referendum sull’Euro e reddito di cittadinanza, ma sempre smentendo di avere all’orizzonte (almeno al Nord) la benché minima competizione con la Lega di Matteo Salvini, Di Maio si distaccava preventivamente dall’idea di plenipotenziario accomodante che gli viene periodicamente cucita addosso (la voglia di credere alla storia del “dialogo” con i Cinque stelle può far credere nei miraggi – se poi è la solita farsa pazienza). Plenipotenziario Di Maio lo è soprattutto nell’abito (atteggiamento da addetto ai “lavori istituzionali”). Ce l’aveva fin dal primo giorno di ingresso in Parlamento, nella primavera del 2013, quando gli osservatori ancora speravano in lui per una temporanea “vacanza” dalla malmostosità dispensata verso chiunque dai Cinque stelle neo eletti, esercito che fuggiva a testa bassa con il trolley (destinazione ignota o collegio di provenienza per il weekend) e si chiudeva nell’ascensore di Montecitorio o del Senato, sparendo poi dietro a una tenda nei meandri dei palazzi – e i commessi, a quel punto, dovevano trasformarsi in segugi di cronisti nascosti dietro a un paravento (“gentilmente può lasciare la sala?, purtroppo la riunione non è a porte aperte”). Di Maio sembrava il grillino malleabile, già vicepresidente della Camera e dunque più adatto alla metamorfosi in “ragionevole”, ma la sua aderenza al verbo sceso dal blog (di Grillo) era pressoché totale. E un anno fa, nei giorni di insediamento renziano, Di Maio aveva postato immediatamente su Facebook – presunto lavacro di peccati altrui – il cosiddetto “pizzino”, bigliettino che il neopresidente del Consiglio gli aveva inviato il 24 febbraio del 2014: “Scusa l’ingenuità, caro Luigi. Ma voi fate sempre così? Io mi ero fatto l’idea che su alcuni temi potessimo davvero confrontarci. Ma è così oggi per esigenze di comunicazione o è sempre così ed è impossibile confrontarsi? Giusto per capire. Senza alcuna polemica. Buon lavoro. Matteo Renzi”. E insomma quel “fare la spia” su Facebook era la faccia del Di Maio giustiziere in nome della “trasparenza” (concetto assai astratto specie dalle parti della Casaleggio associati, per forza di cose centrale operativa a porte chiuse). L’ex studente Di Maio, comunque, fin dai primi anni Duemila, al liceo (il vicepresidente della Camera non ha ancora compiuto ventinove anni), si impegnava pro trasparenza in quel di Pomigliano d’Arco, con precoci incursioni sui social network non da sinistra, ma neppure da destra come suo padre (uomo ex Msi-An), e intanto risolveva i guai da edilizia scolastica, come ha raccontato lui stesso sull’Espresso, qualche mese fa. Ed era la faccia del Di Maio indeciso tra tecnologia e legge, appassionato di internet, a lungo single (le ragazze lo lasciano perché ha la testa alla politica, ha detto), desideroso, a parole, come tutti i parlamentari grillini, di “tornare” alla rete una volta concluso il mandato o doppio mandato. E ha qualcosa del controllore internettiano, questo Di Maio diversamente dialogante, che oggi parla di “daspo” ai corrotti e avverte i naviganti speranzosi del Pd, quelli che due anni fa volevano tentare lo “scouting” nelle truppe arroccate a Cinque stelle, che “Renzi i nostri voti deve sudarseli, se li vuole”. Ed è come quando Grillo dice “eccoci, ci siamo”, ma “soltanto a patto che…”. Ci sono innumerevoli condizioni da porre per restare idealmente sul pianeta Gaia, l’Eldorado web di Gianroberto Casaleggio in cui non sono previsti accordi o compromessi: concetto che resiste sotto la vernice di “svolta” aperturista capace di incantare, a giorni alterni, commentatori e parlamentari. Plenipotenziario, Di Maio, lo è non soltanto perché adesso, a nome del movimento, annuncia la campagna “porta a porta” in sostituzione di quella piazza-a-piazza che non vuole più fare Grillo: “Andremo a casa loro”, dice oggi il vicepresidente della Camera riferendosi ai cittadini che devono essere edotti: noi Cinque stelle ci siamo tagliati gli stipendi, ha detto a “Di Martedì”, la settimana scorsa, a mani giunte (con posa da curato di campagna) e dito alzato (con posa da neoprofessore davanti alla scolaresca scalmanata), specificando che il M5s ha fatto la scelta “di non gestire i soldi che restituiamo”. Li mettiamo in un fondo del ministero dello Sviluppo economico, ha detto; le imprese che vorranno accedere dovranno avere “determinati requisiti” – e mentre Di Maio parlava, sui siti degli attivisti e degli eletti compariva un post sui “25 mila euro per la tua impresa con il microcredito a Cinque stelle”. Sottotitolo: “Loro cancellano diritti con il Jobs Act, e il M5s punta a restituirli con il reddito di cittadinanza; loro rubano legalità con le grandi opere, noi lottiamo con proposte concrete contro la corruzione e il malaffare. Loro si tengono buste paga a quattro zeri, e i parlamentari del M5s restituiscono metà dello stipendio e tutto quello che non spendono in modo preciso e rendicontato”. E in quella dicotomia tra “noi” e “loro” sta già tutto il possibile abbrivio della nuova cosiddetta “apertura al dialogo”. Marianna Rizzini **** La fidanzata di Luigi Di Maio si chiama Silvia Virgulti. Quarant’anni, nata a Casalmaggiore (Cremona), è laureata in Glottologia all’istituto di Romanistica di Vienna. Dichiara di sapere otto lingue. Al corso di inglese, che tiene con la My Life, si presenta come «genio delle lingue». Ha collaborato con le ambasciate di Canada e Stati Uniti. Si presentò a Gianroberto Casaleggio, sponsorizzata dai fratelli Pittarello, con un curriculum e due documenti: una tesina sulla psicologia e un’analisi degli errori di postura in tv di alcuni parlamentari 5 Stelle. Casaleggio apprezzò e da allora diventò la «coach tv» di alcuni eletti (Morra, Di Stefano, Toninelli, Di Battista e altri). Con Di Maio si è fidanzata nell’estate del 2014. Secondo i fuoriusciti del partito «lui è teleguidato con l’auricolare, come Ambra da Boncompagni» (Alessandro Trocino, Corriere della Sera 4/2). *** JACOPO IACOBONI, LA STAMPA 2/9 – La guerra civile che è ormai diventato il Movimento cinque stelle a Roma – una guerra combattuta anche sulla pelle di Virginia Raggi, al netto di tutte le sue debolezze politiche – è a una svolta: non se ne vanno semplicemente tre persone, sta saltando tutto uno schema di gioco, diciamo così «istituzionale», che aveva cercato di utilizzare nel quadro della giunta Raggi una serie di grand commis o tecnici, non importa se transitati dalle gestioni Marino, o Tronca. All’indomani della vittoria dei cinque stelle fu proprio Tronca a raccomandare alla Raggi di servirsi di alcune competenze che «sarebbero state disponibili a dare una mano a Roma, non per il Movimento, ma per aiutare la capitale a non affondare». Fece quattro nomi: Marco Rettighieri e Daniele Fortini, dg di Atac e presidente di Ama, Carla Raineri, un alto magistrato, e Marcello Minenna, un dirigente Consob molto bravo con numeri, finanza e conti. Risultato: i primi due – su cui Raggi si era esposta negativamente – furono messi in stand by, ci fu una frenata sul loro siluramento, che era stato variamente promesso; gli altri due sono diventati – tra mille fatiche che abbiamo documentato via via – capo di gabinetto e assessore chiave al bilancio. Ora «sta cadendo quello schema per cui una parte degli apparati dello stato dice “ok, aiutiamo i cinque stelle a non combinare disastri”», ci dice una fonte di altissimo livello in tutta questa vicenda. Rettighieri ha appena lasciato, Fortini lasciò un mese fa, Raineri si è dimessa (ieri l’altro, poi ieri c’è stata la revoca formale, fatta dalla Raggi per autotutelarsi dopo il parere negativo dell’Anac). A proposito di Anac, anche Raffaele Cantone, e il prefetto Franco Gabrielli, si spesero con alcuni di questi grand commis per invitarli a continuare a lavorare per il bene di Roma anche nella stagione cinque stelle. Dire che molti di loro fossero assai dubbiosi è un eufemismo. Il garante di tutto questo nel Movimento doveva essere Luigi Di Maio, ma è chiaro che il garante non è al momento in grado di garantire nessuno – neanche Minenna, che era arrivato alla giunta attraverso lui e, formalmente, attraverso una presentazione fatta da Carla Ruocco. Minenna ha confidato nei giorni scorsi: «Sono in tanti a volermi fare fuori nel M5S». Ma possiamo dire che il fallimento dello schema-grand commis è, automaticamente, una vittoria di un fronte avverso a Di Maio? Calma. Per quale motivo la revoca della Raineri si porta dietro le dimissioni del tandem Minenna-Solidoro, l’amministratore di Ama nominato venti giorni fa? Se perde il fronte istituzionale, non si può dire che vinca un compatto, alternativo fronte barricadero, o del ritorno alle origini M5S. In realtà vincono faide, egoismi, arrivismi. Si son sfasciate anche le cordate. Minenna si è scontrato sempre più con varie figure in Campidoglio, a partire dalla sindaca, che non sopportava più né lui né la Raineri. La Raggi aveva promesso «azzeriamo i vertici Acea», Minenna trattava con Caltagirone per coinvolgere Acea nella gestione dei rifiuti, anche strategicamente. Minenna aveva scelto Alessandro Solidoro, persona competente, a capo della nuova Ama (Solidoro ha confidato: «Avevo accettato solo per Marcello, siamo amici da anni e me l’ha chiesto come un servizio, magari solo per quale mese»). Sennonché, appena insediatisi lui e il dg Stefano Bina, si sono resi conto che Paola Muraro, la discussa assessora all’ambiente, spadroneggia e sta scrivendo il piano di ristrutturazione dell’azienda lei, al posto loro (ci torneremo in altra occasione). Tra l’altro, a Solidoro era stato detto dal M5S che Ama versava in stato fallimentare dal punto di vista tecnico: il che non è vero, perché i conti sono in ordine, e i problemi sono altri. Minenna è andato su tutte le furie per questo straripare della Muraro, lo scontro con l’assessora è stato aspro; e naturalmente anche Solidoro non ne poteva più; che le sue dimissioni seguano a ruota quelle dell’assessore è naturale. Ma ci sono anche molte altre battaglie e dissidi. Entro settembre andrà concluso l’assestamento di bilancio del comune di Roma; può essere rimandato a novembre, ma va indicato ora dove allocare tutte le partite in entrata. Minenna contava, per dire, anche sui 400 milioni di Imu dovuti dal Vaticano. Ma il tema, su cui la sindaca esordì battagliera, è scomparso dai radar mediatici dopo il suo incontro col Papa (e dopo ulteriori contatti tra i cerimoniali). La Raggi ha promesso soldi ai 15 Municipi, Minenna voleva invece centralizzare tutta la gestione delle risorse sul Campidoglio. Minenna voleva tagliare gli stipendi (tetto a 76 mila euro, Raineri a parte), ma i fedelissimi di Raggi (Marra in testa) non lo aiutavano. Minenna ritiene le Olimpiadi un volano, Olimpiadi che invece la giunta è orientata a non fare. Minenna aveva un piano di ricucitura coi poteri, la Raggi non è ben chiaro. I fedelissimi di Roberta Lombardi, il presidente dell’assemblea capitolina Marcello De Vito e il capogruppo M5S Paolo Ferrara, ieri nella riunione di maggioranza in Campidoglio non hanno proferito verbo: segno che si sentono forti assai. Di Maio, di fronte alla débâcle, sta cercando di eclissarsi. L’ideale è scaricarla sulla Raggi. Il messaggio che le hanno mandato è: hai voluto fare con le tue gambe (ossia: hai voluto tenere Raffaele Marra, il vicecapo di gabinetto vicario, e il capo della segreteria Salvatore Romeo, facendo la guerra a Raineri e Minenna), ora vediamo cosa sei in grado di fare. La fase di difficoltà del vicepresidente della Camera è speculare al grande attivismo di Alessandro Di Battista, rientrato trionfante dal tour estivo in scooter, e molto apprezzato da Grillo; ma Di Battista più che altro cura il suo orticello, le proteste di piazza, certo non ha un piano alternativo al fallimento del Movimento dei grand commis. Jacopo Iacoboni, La Stampa 2/9/2016 *** JACOPO IACOBONI, LA STAMPA 4/9 - DI BATTISTA ORA CORRE DA PREMIER – La crisi attorno alla Raggi illumina in controluce quanto si stanno modificando in questo momento i rapporti di forza tra i due personaggi più dotati, ma assai diversi, del Movimento: Luigi Di Maio e Alessandro Di Battista. Rivali ma costretti a convivere, legati ma quasi opposti, istituzionale uno, movimentista l’altro, avevano fino all’altro ieri un patto abbastanza solido, nato nella consapevolezza paradossale che simul stabunt simul cadent, e nella coscienza che ognuno sa tantissime cose dell’altro, quindi potrebbero farsi molto male a vicenda, se solo aprissero lo scrigno. Ora però gli equilibri sono mutati. «Per la prima volta – ci dice una fonte molto importante – Alessandro (Di Battista, nda.) è davvero in corsa anche lui, non solo Luigi, per diventare il candidato premier del Movimento». Non significa che lo sarà, sia chiaro; ma non era mai stato così forte prima. C’è già stata una prima occasione in cui Di Battista fece valere una strategia diversa da di Di Maio: il vicepresidente della Camera si era apparecchiato la visita in Israele, Di Battista ottenne di far emergere potentemente l’anima filo-palestinese del Movimento proprio su Gaza, utilizzando Manlio Di Stefano; risultato: l’accreditamento del gemello-rivale fallì. Fu un caso? E se Di Battista avesse invece un piano? Di certo, ora, dalla crisi-Raggi Di Maio esce scornato: si è alienato la fiducia di tanti grand commis e del “suo” Minenna (mandandolo allo sbaraglio contro Marra, poi non coprendolo, infine ricevendone giudizi durissimi), e ha dovuto esporsi in dichiarazioni sdrucciolevoli tipo «le lobby contro di noi». Di Battista invece se n’è rimasto fino a ieri pomeriggio beatamente silente, un segno di forza interno, il non aver bisogno di dire nulla, l’osservare la situazione dall’alto della collina; ha continuato sereno il suo tour per il no alla riforma Boschi. Qui siamo in grado di documentare la sua ascesa attraverso tre passaggi. Il ruolo di Beppe Grillo, innanzitutto. Il fondatore del Movimento è un istintivo, non fa progetti politici, certo non ha mai calcolato nel Movimento un tornaconto (che non fosse quello, narcisistico, di dire «guardate cosa ho creato»). Da qualche tempo ha preso a manifestare insofferenza per l’entrismo istituzionale di Di Maio, i suoi incontri con i lobbisti, la smania di chiedere appuntamenti coi potenti. Grillo parla, e esprime giudizi a volte anche molto coloriti, su chi a un certo punto non lo convince o non lo entusiasma o lo ha seccato. Così come esprime giudizi positivi altrettanto di pancia, e in questo momento non fa che elogiare Di Battista, è arrivato a dire che un po’ si rivede in lui. Se dovessimo riassumere questa estate in due fotografie, agosto gli riconsegna un Di Maio a tavola coi lobbisti e invece un Di Battista trionfante in scooter nelle proteste di piazza. Inutile dire quanto questo piaccia a Grillo, e anche a quei cinque stelle che pensano (non sempre in buonafede) sia possibile mascherare la trasformazione istituzional-romana del Movimento dietro qualche posa rivoluzionaria a buon mercato e alcuni ottimi comizi. Il secondo passaggio incrocia la crisi attorno a Virginia Raggi. Grillo, non giriamoci attorno, è insofferente ormai della Raggi. L’incontro tra i due fu «una scazzottata», di fatto. Lui la considera molto inesperta (forse ha usato un altro termine, scusateci, ma il senso è questo), e ritiene che si circondi di persone non buone (chiaro il riferimento al network-Alemanno, a Marra, ma pensa anche ad altri, Beppe?). Carla Ruocco, che nel Movimento è considerata da tutti una specie di portavoce informale di Grillo, ormai digerisce a fatica la Raggi e ne parla non bene (eufemismo); insomma, nel Movimento c’è l’automatismo che quando Ruocco si espone così, in molti parlamentari pensano abbia appena messo giù il telefono con Grillo. Vera o falsa che sia, questa è la sensazione che hanno. Il terzo passaggio riguarda quello che ci dicono due senatori di peso. «Se si votasse in questo momento sul blog per scegliere il candidato premier, Di Battista vincerebbe a mani basse. E vincerebbe anche in una consultazione tra i parlamentari. Si è mosso con molta abilità, più signorilità nei rapporti, pestando meno piedi». Al netto delle sue idee caoticamente protestatarie, Di Battista è uno che sa far sentire al centro del mondo l’interlocutore del momento. È caldo. Non esattamente una caratteristica emotiva del suo gemello-rivale ghiacciolo. Sebbene siano entrambi calcolatori. Naturalmente, non significa che Di Battista sarà il candidato premier del Movimento, perché Di Maio cercherà un accordo con lui per evitare un voto, e peraltro Di Battista potrebbe concederglielo, cioè essere proprio lui a sfilarsi. Ma da un rapporto di forza ribaltato, che fa di questo bizzarro Che Guevara romanesco (ma in scooterone e coi Ray-ban, simbolo di destre anni settanta) l’uomo che può mascherare al popolo la trasformazione del Movimento in una pura enclave di potere. Jacopo Iacoboni, La Stampa 4/9/2016