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 2016  settembre 09 Venerdì calendario

«DOPO 16 FILM HO SCRITTO IL MIO PRIMO ROMANZO. COMINCIA CON LA SCENA VERA DI QUANDO AVEVO 7 ANNI E MIA MADRE MI VESTIVA DA FEMMINA» [Intervista a Gianni Amelio] Lei quoque, Gianni Amelio, non ha resistito e ha scritto un romanzo, Politeama, la storia di Luigi, ragazzo calabrese di povere origini che sogna di fare la cantante e si traveste da Dorian Gray, la bellissima attrice che interpretava la malafemmina nel film di Totò

«DOPO 16 FILM HO SCRITTO IL MIO PRIMO ROMANZO. COMINCIA CON LA SCENA VERA DI QUANDO AVEVO 7 ANNI E MIA MADRE MI VESTIVA DA FEMMINA» [Intervista a Gianni Amelio] Lei quoque, Gianni Amelio, non ha resistito e ha scritto un romanzo, Politeama, la storia di Luigi, ragazzo calabrese di povere origini che sogna di fare la cantante e si traveste da Dorian Gray, la bellissima attrice che interpretava la malafemmina nel film di Totò. Lo sa che tutti le domanderanno se questo racconto, licenze poetiche a parte, sia autobiografico? «E io risponderò che l’unica parte autobiografica del romanzo è l’incipit. Anch’io, come Luigi, da ragazzino sembravo una femminuccia». Leggiamolo l’incipit, tragico e bellissimo: «Quando Luigi aveva sette anni, sua madre lo vestiva da femmina. Al buio, nella casa senza finestre, lo faceva salire su una sedia e gli infilava le mutandine rosa, poi la gonnella a fiori, la camicetta con le maniche corte, le calze e le scarpe bianche della sorella che era morta il mese prima». «Sono stato allevato solo da donne. Le mie nonne, mia zia e mia madre. Mio padre andò in Argentina e non tornò più. Io non parlavo come un ragazzo, avevo un timbro da donna. Ascolti bene la mia voce. Non sente che è impostata? È diventata grave per ipercorrezione, per coprire il mio precedente tono di voce. Le mie prime letture furono i fotoromanzi (Sogno, Bolero, Grand Hôtel), le letture che si passavano le donne. Quando ero piccolo, mia madre mi diceva: “Prendi Bolero e portalo alla comare Carmela, che non l’ha ancora letto”. E la comare Carmela lo mandava poi alla comare Titina. Da quel giro infinito il povero giornale usciva consunto, macchiato dal sugo che la lettrice era impegnata a preparare. Questa letteratura di seconda mano non l’ho mai tradita o rinnegata. L’italiano l’ho imparato attraverso Bolero e i fumetti. Prima non lo sapevo parlare, così come non lo sapeva parlare mia madre. L’italiano lo imparai anche dai romanzi sceneggiati televisivi. Io non avevo la televisione però ce l’aveva il mio salumiere. Tutte le mattine facevo la spesa da lui e perciò era obbligato a ricevermi in casa all’ora del teleromanzo. Ero puntualissimo. Così ho conosciuto L’idiota di Dostoevskij e Nicholas Nickleby di Dickens, cose per me misteriosissime. Ricordo un lontanissimo e bellissimo Gabbiano di Cechov con una Ilaria Occhini da far paura. Me ne innamorai alla follia». E dopo i fotoromanzi? «Feci il liceo, l’università e poi lavorai in una rivista di Catania». Non mi dica che era Giovane Critica, i Quaderni piacentini del Sud, la rivista di Giampiero Mughini? «Quella. Lei non sa come mi considerava Mughini. Con un disprezzo! Una volta mi domandò a bruciapelo: “Qual è il libro che ti ha formato, il libro della tua vita?”. La mia risposta fu per lui una coltellata. Si aspettava un titolo come Delitto e castigo o Il rosso e il nero, dissi che era Fortune e sfortune della famosa Moll Flanders». Aveva ragione lei. Tutti pensano che il vero romanzo, il romanzo romanzo, sia quello ottocentesco. Ma non è così, il romanzo puro è quello settecentesco: Moll Flanders di Defoe, appunto, Tom Jones di Fielding. Lo sostiene anche Don Winslow, uno dei pochi maestri contemporanei nell’arte del racconto. Lei era più avanti di Mughini e forse oggi Mughini, che è uomo d’onore, glielo riconoscerebbe. «Sono nato, letteralmente, con Moll Flanders. Ero un ragazzino e la professoressa d’inglese ci disse: “Per domani traducete questo pezzo”. Era un brano di Moll Flanders. Ho cominciato a tradurlo e intanto mi sono procurato il libro. Mi sembrava più bella la traduzione mia. Tutto è cominciato lì». Ed è continuato fino a Politeama che è un libro bello e spiazzante anche perché la storia di Luigi è la storia di una Moll Flanders di Catanzaro tra traversie sessuali, tradimenti, fughe e abbandoni. Non ha pensato che qualcuno potrebbe leggere il suo romanzo come una prosecuzione letteraria del suo coming out di due anni fa? «No, me ne è bastato uno di coming out. Tra l’altro, non pensavo di scatenare tutto il clamore che ci fu. Ricordo che nei giorni successivi alla mia dichiarazione ero a casa con amici e famigliari e qualcuno disse: “Ma chi te l’ha fatto fare?”. Allora mio figlio Luan si è incazzato e ha detto ridendo: “Sì, ha sbagliato, doveva dire: “I froci siete voi, io sono il regista”». Lei ha dedicato un documentario, Felice chi è diverso, a com’è stata e cos’è stata l’omosessualità in Italia. In quel film uno degli intervistati pronuncia una specie di requisitoria contro la parola “gay”. «Quel personaggio rimpiange con paradossale nostalgia le parole che una volta indicavano gli omosessuali. Dice che prima c’erano i recchioni, i femminielli... e poi (bum!) è calata la lastra di cemento armato della parola “gay” che è diventata l’unico modo di nominare gli omosessuali». Un caso, avrebbe detto il Pasolini più corsaro, di omologazione culturale. «Forse per questo Felice chi è diverso è stato detestato dai gay. Sul web me ne hanno dette di tutti i colori. Ma io resto fedele all’insegnamento di mia madre: “Tu non sei prima omosessuale e poi un’altra cosa, tu sei una persona e devi puntare ad affermarti con le tue capacità. Sarai quello che sarai: un imbianchino, un avvocato o un regista. E poi, ma solo poi, sarai anche frocio”. L’errore dei gay oggi è che si alzano una mattina e dicono: “Io sono gay e sono appagato”. Non ho mai pensato al mio lato omosessuale come a qualcosa di cui vantarmi, su cui basare la mia vita…». Non è un tratto identitario… «Per carità, no». Quando ha adottato suo figlio Luan qualcuno si scandalizzò. «Mi ricordo che venne una giornalista a intervistarmi e mi domandò: “Come può un gay adottare un ragazzo maggiorenne, tra l’altro anche belloccio? Allora alla giornalista, che era più o meno mia coetanea, ho chiesto: “Lei ha figli?”. “Sì, due”. “Maschi o femmine?”. “Tutt’e due maschi”. “Quante volte ci va a letto?”. E lei ha detto: “Touché”». In Politeama c’è un cameo, un’apparizione fulminea, di Pasolini. Luigi, diventato ragazzo di vita, lo incontra sul set del film La ricotta. «È una scena vera. È il racconto che Ninetto Davoli mi fece in Felice chi è diverso». Ci sono anche tracce, impronte del poeta Sandro Penna. L’uso dell’aggettivo “losco”, per esempio, un aggettivo preminentemente penniano. «Nella mia memoria è impresso il sonetto di Penna: “Trovato ho il mio angioletto / fra una losca platea / fumava un sigaretto / e gli occhi lustri avea”». E di losche platee, di cinemini di periferia dove si aggirano i marchettari, è pieno il suo romanzo. E non mancano le scene crude. Politeama può anche essere letto come la storia di un giovane perseguitato (classico motivo del romanzo settecentesco) dagli appetiti feroci del mondo. Ma con Penna non abbiamo ancora finito. Anche il titolo del suo prossimo film, La tenerezza, non può non rimandare ai versi di Penna: La tenerezza tenerezza è detta… «...se tenerezza cose nuove detta. È voluto anche quello. Non posso tenerle nascosto niente». Il piglio picaresco (alla Moll Flanders appunto) di Politeama mi ha ricordato Ninfa plebea, l’ultimo e straordinario romanzo di quel grandissimo scrittore che è stato Domenico Rea. «Mi arrendo, mi ha sgamato ancora. Ho amato alla follia quel libro di Rea, volevo farne un film. Lina Wertmüller mi anticipò e comprò i diritti. È stato un vero dolore per me non fare Ninfa plebea al cinema. Forse ho tentato di ricrearne certe atmosfere in Politeama. Ma, al di là degli omaggi e dei debiti, il tema vero del romanzo è il rapporto tra Luigi e sua figlia, un rapporto disperato, struggente, che si risolverà solo all’ultimo capitolo. Amo più di tutti il capitolo finale, dove il protagonista trova la spiegazione di tutti i mali, si riconcilia con il mondo e dice alla figlia: “Non mi manchi”, la frase più forte dell’intero libro». Il suo è anche un romanzo musicale. Ogni capitolo è introdotto dalla citazione di una canzone (degli anni Sessanta prevalentemente). E le canzoni non sono decorative ma funzionali, spesso dicono quello che i personaggi non dicono. «Un trucco che ho imparato da Valerio Zurlini di cui lei è grande sostenitore. Nei film di Zurlini le canzoni prendevano il posto, a volte, dei dialoghi. Pensi a La ragazza con la valigia». Le canzoni citate fanno parte della colonna sonora personale, privata, intima di Gianni Amelio? «Solo in due casi. Il primo è la canzone che dice: “La foto di Mariannina / sull’albero di trinchetto / fa perdere l’intelletto / all’equipaggio e ai marinar”. È una canzone assolutamente misteriosa ed è stata molto importante nella mia vita, non a caso la cito in apertura di libro. Da ragazzino, chissà per quale arcano motivo, la sapevo tutta a memoria e la intonavo con la mia vocetta da bambina: «La nave grande mattacchiona, / diretta al porto di Savona». Una volta, mentre la cantavo, mi arrivò una sberla da mia zia che mi disse: «Smettila!». Aveva intuito delle cose di me e cercava di fermarmi. Quella canzone è stata davvero un nodo della mia vita. Perciò ho voluto cominciare il romanzo ricordandola». E la seconda canzone della sua colonna sonora privata qual è? «Nata per me di Adriano Celentano». «Non so, / non mi importa perché / tu sei / ritornata da me». Un pezzo magistrale, di quando le canzoni sapevano di che cosa si parlava quando si parlava d’amore. «Nata per me non potevo non metterla. Fa parte della mia vita. Ero già un po’ grandicello e mi ero innamorato di una ragazza (la Mary di cui parlo in Politeama). Il primo lento che abbiamo ballato assieme fu proprio Nata per me nella sede del Partito repubblicano di Catanzaro». C’era una festa di partito? «No, quando non era prevista attività politica, il partito dava le chiavi ai ragazzi liceali e noi portavamo il giradischi e ballavamo nella sala delle riunioni». Lei ha fatto un sacco di cose. Ha girato da anonimo spaghetti western, musicarelli (i film tratti dalle canzoni di successo di Gianni Morandi, Rita Pavone e compagnia cantante)… «Ho una lunga carriera di negro come si diceva una volta. Io, e qui lo dico e qui lo nego perché un ghost writer non deve mai svelare di essere il vero autore di un’opera, ho scritto il testo di una canzone degli anni Sessanta di grandissimo successo, ma non si deve sapere. E non mi sono fermato lì. Ho scritto perfino sceneggiature di film soft porno». Ma è meraviglioso! «Mi ricordo che una notte mi chiamò un produttore molto potente: “Mi puoi salvare solo tu. Ho per quattro settimane la tale (e fa il nome di un’attrice famosa) e mi serve, al volo, un’idea adatta a lei che, chiaramente, non è la Duse”. La mattina dopo ci trovammo in un bar e mi chiese: “Se tu pensi alla Tale che ti viene in mente?”. Mi viene in mente, risposi, che è sera tardi, la Tale è sposata da un po’, il marito vuole vedere la partita della Nazionale e lei, che non ama il cane del marito, è costretta a scendere giù per fargli fare la pipì. Cammina con il cagnolino su un marciapiede del quartiere Prati e a un certo punto vede che dentro una macchina ci sono due che stanno trombando. Già qui il produttore comincia a scaldarsi e mi domanda: “E lei che fa? Che fa?”. Lei guarda e, mentre guarda, ovviamente si eccita. Ma è costretta ad andarsene e a lasciare il meglio perché arriva gente. Ritorna a casa. E cosa succede quando lei entra nel portone? Che manca la luce, un guasto. Lei sa come arrivare alle scale anche al buio, ma appena sale il primo gradino qualcuno la prende alle spalle e se la ingroppa per terra in una maniera che ti lascio immaginare... Sa cos’ha fatto, giunti a questo momento del racconto, il produttore? Ha estratto dalla tasca della giacca il libretto degli assegni e me ne ha staccato uno di cinquecentomila lire dicendomi: “Me ne vado, tu torna subito a casa. In una settimana voglio sapere come va a finire”». Lei non si è fatto mancare niente. Mi parli degli spaghetti western, uno dei più gloriosi generi cinematografici nazionali. «Ho partecipato (e non perché lo volevo, mi creda), anche ai due western (come vogliamo chiamarli?) froceschi dell’epoca. Uno è un capolavoro assoluto, l’altro è una schifezza immonda, ma in Germania viene considerato un cult della Madonna. Il capolavoro è Se sei vivo spara di Giulio Questi, che era grande ed era pazzo. Io ero l’aiuto regista, al montaggio c’era l’immenso Kim Arcalli. Il film era la storia di un pistolero (Tomas Milian) di cui non si poteva dire che era frocio, pardon, gay. Poi un bandito, omosessuale pure lui, con al soldo una squadra di leather boys, tutti machos vestiti di cuoio, rapisce un ragazzo e sfida Milian. Appende il ragazzo legato e seminudo, fa ubriacare il pistolero e gli dice: “Se vuoi salvarlo, spara alle corde e liberalo”. Tomas non può sparare perché vede tutto doppio, annebbiato, e ha paura di uccidere il ragazzo. In un’altra scena, sono tutti a tavola e il capobanda dice al pistolero: “Guarda i miei uomini, guarda con che appetito mangiano, guarda con che sete bevono, ma soprattutto con che occhi guardano il ragazzo”. Più chiaro di così!». E quindi tutto il clamore che qualche anno fa suscitò a Hollywood e a Venezia Brokeback Mountain, il film dei cowboy gay, salutato come il primo western omosessuale della storia, non corrisponde a verità… «Ma per carità di Dio. Il primo western omosessuale è Se sei vivo spara, fatto, con il massimo rispetto per Brokeback Mountain, con ben altra baldanza e, soprattutto, ironia. Era un film esplicito fin dove ci si poteva spingere all’epoca. Ovviamente l’hanno ritirato dopo due ore che era nelle sale con la scusa che c’era troppa violenza. In realtà, il motivo del sequestro fu il sottotesto che non era sfuggito al magistrato». Ma quale magistrato? Costui era un fine critico cinematografico. E l’altro spaghetti western gay a cui ha collaborato qual è? « Il regista era Gianni Puccini, regista di commedie, chiamato a dirigere un western sotto falso nome (si firmò, pensi un po’, James Cameron, come il futuro regista di Titanic!). Gianni aveva guai sentimentali in quel periodo e se ne fotteva del film. Così si prese come negro Enrico Ribulsi, un tipo molto timido, altissimo e secchissimo, che aveva fatto il Centro Sperimentale. La sceneggiatura originale era ispirata alla storia di Giulietta e Romeo e chiesero a Ribulsi di ritoccarla. Lui si inventò che il fratello di Giulietta era un fuorilegge e che uno sceriffo gli dava la caccia. Un giorno lo sceriffo scova il ricercato che dorme in un granaio, buttato sulla paglia seminudo. Lo sceriffo grida: “Mani in alto, fellone!”. L’altro si volta e spara. Contemporaneamente, spara pure lo sceriffo. E sa cosa succede? Succede che si incrociano le pallottole». Un effettaccio che nemmeno il peggiore dei Manga! «Una stronzata tale che sul set scoppiammo tutti a ridere, compresa la sarta di scena. Allora lo sceriffo prende le due pallottole, che si sono fuse una con l’altra, e le porta via con sé. Successivamente le stringerà nel pugno in varie scene del film dicendo o pensando: “Maledetto il momento in cui le pallottole s’incrociarono come i nostri destini!”». Le due pallottole fuse che diventano una specie di fede matrimoniale! Un’unione civile ante litteram. «Allora lo spettatore capisce che tra lo sceriffo e il fuorilegge è accaduto qualcosa e che lo sceriffo fa di tutto per entrare in famiglia sposando Giulietta, il classico matrimonio di copertura. Se ci penso ancora non riesco a crederci». E in Germania questo è un film di culto. «Stravedono. Hanno anche pubblicato un dvd a doppio strato e mi hanno tampinato perché volevano una mia testimonianza. Ho rifiutato. C’è un limite a tutto». Non mi ha detto il titolo del film. «Dove si spara di più. Confesso che il titolo l’ho trovato io ispirandomi a Per qualche dollaro in più. Mi ricordo il manifesto: “Tutti i pistoleros del West si sono dati appuntamento a… DOVE SI SPARA DI PIÙ”. Che vergogna, mamma mia». Nemmeno i Caroselli. «Li giravo con Ugo Gregoretti che è stato uno dei miei maestri. Ne abbiamo fatto uno con protagonista una mammina molto tenera, affettuosa, dolce. La interpretava Laura Antonelli prima di diventare Laura Antonelli. Era una ragazza di una semplicità, bella ma di una bellezza quieta, bella anche dentro. Le avresti pronosticato qualunque tipo di evoluzione salvo quella erotica». In che senso? «Nel senso che le sue tette perfette non suscitavano pensieri carnali ma l’idea che un giorno sarebbe stata una mamma ideale e avrebbe allattato serenamente i suoi figli». Ma quanto ha lavorato lei nell’ultimo anno? Ha scritto Politeama. Ha scritto e girato La tenerezza con un cast che comprende due tra i miei attori prediletti, Elio Germano e Greta Scacchi. E ha scritto con Francesco Munzi, il bravissimo autore di Anime nere, il saggio L’ora di regia dove lei fa uno strepitoso decalogo di tutto quello che non si può fare più al cinema. Una lezione da vero maestro. Me la può riassumere per favore? «È proibito far vedere la sveglia che suona, la caffettiera che bolle, il latte che trabocca, l’uovo che frigge (insomma, la poetica del tegamino) per far capire che è mattina presto e il protagonista si appresta ad affrontare la giornata. Sono proibiti i tramonti e il dettaglio dei piedi nudi sulla battigia con l’onda che va e viene a creare un’atmosfera romantica, edenica. Sono le frasi fatte del cinema. Mi fanno venire l’allergia». L’ultima domanda. Mi dice il titolo della famosissima canzone anni Sessanta di cui ha scritto il testo? «Non posso. Esiste il giuramento del negro che è come il segreto professionale del medico e del prete: non svelerai mai le cose che hai fatto e che sono state firmate da altri. Succederebbe un finimondo. Ci sono persone coinvolte ancora vive e vegete. Ma un giorno, glielo prometto, le arriverà a casa una busta con un cd contenente una famosissima canzone anni Sessanta e senza nessun biglietto di accompagnamento. Non ce ne sarà bisogno, lei capirà subito di che cosa si tratta».