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 2016  settembre 09 Venerdì calendario

POGGIAR LE CHIAPPE È UNA STORIA DI CULTURA


Il mondo si divide tra quanti siedono a terra e quanti usano le sedie. Questa è la semplice ma affascinate premessa di Now I Sit Me Down, una storia naturale della sedia, scritta da un eruditissimo architetto canadese, Witold Rybczynski (Farrar, Straus and Giroux, 2016).
Il modo in cui ci mettiamo seduti non è proprio il più ovvio dei dirimenti eppure se ne porta dietro tanti altri: rispondere al problema vecchio quanto l’homo erectus del dove e come poggiare le chiappe plasma infiniti aspetti materiali del nostro quotidiano, dalla scelta delle pavimentazioni nelle nostre case, all’altezza dei soffitti e delle finestre, persino tipologia e stile di mobili, abiti e calzature. E una lettura affascinante, specie per chi come la sottoscritta ha sempre sospettato di essere finita chissà come nel campo sbagliato, una naturale predestinata alla terra nata per errore in un paese di antipatici trespoli. Anche a me, come all’architetto austriaco citato nel volume, Bernard Rudofsky, non sfuggono affatto «gli aspetti ridicoli dello stare seduti sulle sedie – impalati su quattro stuzzicadenti». Non solo, leggere Rybczynski è divertente perché, ricordiamocelo, questi sono tempi in cui chi si siede è perduto, criminalizzato, bersaglio costante di ammonimenti sui pericoli della vita sedentaria. Sono i tempi delle postazioni ufficio con tapis roulant incorporato, questi, di stability ball e sedie ergonomiche a profusione. Sitting is the new smoking, ci dicono, e quindi leggere di cuscini, ottomane, fastosi troni e languide chaise longue assume subito un che di decadente e un po’ contestatario. Su una cosa concordano tutti, quella seduta è la nostra postura più problematica. Da quando abbiamo raggiunto la famosa posizione eretta, corriamo e camminiamo in discreta efficienza, e stiamo altrettanto bene sdraiati, durante il sonno. È la fase intermedia che ci frega, quella che ci causa più disturbi e dolori. Mi verrebbe da dire che non a caso le tradizioni contemplative orientali considerano padmasana, la posizione del loto, la più perfetta e avanzata. I monaci buddisti e gli yogi hanno ragione: l’arte di stare seduti a non fare niente è una faccenda seria e richiede una notevole preparazione atletica.
Non sappiamo cosa abbia portato le popolazioni del mondo a privilegiare luna o l’altra tra le oltre cento varianti documentate di postura seduta. Viene spesso teorizzato il ruolo decisivo del clima, gli inverni freddi e umidi potrebbero aver creato la necessità di isolare il corpo dal suolo, ma sono davvero troppe le eccezioni (i giapponesi e i coreani sulle loro stuoie, non si può dire che il loro clima sia sempre mite, e gli antichi egizi che bisogno avevano di inventare gli sgabelli?). È intrigante, invece, l’idea che un’alta seduta soddisfi il più frivolo bisogno di torreggiare al di sopra degli altri. I nostri decorosi tinelli e le nostre sale riunioni ci hanno abituato a un’idea di seduta condivisa e democratica, ma i manufatti antichi ci restituiscono un’immagine diversa: il trono, con le sue infinite varianti, attesta lo sforzo eterno dell’uomo di essere sempre meglio di te. Lo sforzo e la sua vanità, come al solito, e forse viene da qui quel germe di ridicolo che qualsiasi sedia inevitabilmente tradisce, quello di cui parlava Montaigne ricordandoci che «anche sul trono più alto del mondo, si sta seduti sul proprio culo».