Enrico Pedemonte, pagina99 9/9/2016, 9 settembre 2016
CACCIA AI PADRONI DEL WEB
I grandi dell’high tech sono in allarme. La multa da tredici miliardi di euro inflitta il 30 agosto dalla Commissione europea alla Apple è il segnale che qualcosa sta cambiando. Nell’opinione pubblica, prima ancora che nei governi. Il potere dei grandi della tecnologia e la loro disinvoltura nell’interpretare le regole a loro uso e consumo – ha assunto ormai dimensioni tali da porre i governi di fronte alla eventualità di contenere la loro espansione. Non solo Apple: anche altri colossi, in prima fila Google e Facebook, sono nel mirino dopo anni di crescita incontrollata in un mondo sostanzialmente deregolamentato. La commissaria Margaret Vestager ha diversi dossier aperti sul tavolo sui quali ha promesso decisioni rapide. Su Google, in particolare, sono aperte tre indagini per abuso di posizione dominante. Anche Facebook è nel mirino dell’Antitrust europeo per questioni relative alla trasparenza con cui raccoglie i dati degli utenti. E cresce la convinzione che sia giunta l’ora di applicare norme più severe a un sistema sostanzialmente deregolamentato come il web. Il problema è delicato perché applicando regole troppo rigide, in un ecosistema così sensibile, si rischia di mettere la museruola ad aziende incredibilmente dinamiche, ma è ormai evidente che in assenza di regole il potere di questi giganti potrebbe lievitare a proporzioni incompatibili con il mercato e la democrazia.
Non è una battaglia facile perché all’interno della Silicon Valley si è ormai diffusa una cultura che considera il web il regno dei “monopoli naturali” e ritiene l’applicazione di leggi antimonopolio un’eresia destinata a danneggiare il mercato e l’innovazione. Ma per descrivere la dimensione del problema che ci troviamo ad affrontare bastano pochi dati. Google vale 475 miliardi di dollari (seconda al mondo, sotto il cappello di Alphabet), Facebook 333 miliardi (settima). Insieme totalizzano 808 miliardi, circa metà del pil italiano. Google Search ha oltre il 90 per cento del mercato delle ricerche online in Europa, e nel mondo è utilizzato ogni mese da 1,16 miliardi di utenti per un totale di cento miliardi di ricerche. Facebook ha 1,71 miliardi di iscritti. Complessivamente, secondo Morgan Stanley, nel primo trimestre del 2016 l’85 per cento della pubblicità online è finito nelle tasche di Google o Facebook, e questa è una delle cause principali che sta mettendo fuori mercato i giornali in tutto il mondo, perché il crollo delle vendite in edicola non accenna a fermarsi mentre Google e Facebook rastrellano ormai il grosso del bottino pubblicitario sul web.
Google controlla Gmail (oltre un miliardo di utenti), YouTube, Google Maps, Google Earth, Google Calendar, Blogger e Android, il sistema operativo che fa girare l’80 per cento degli smartphone al mondo. Facebook possiede WhatsApp (oltre un miliardo di utenti) e Instagram. Ogni giorno le cronache ci raccontano dello shopping per acquistare nuove aziende promettenti. Secondo l’Economist nel 2015 i quattro grandi del digitale (Google, Facebook, Amazon e Microsoft) hanno speso 8,5 miliardi di dollari in acquisizioni, quattro volte più del 2010. Ormai i giovani creativi che fondano startup nel mondo digitale non puntano a crescere, ma a moltiplicare il proprio valore per vendersi ai big del digitale.
Il potere dei dati
Google si occupa dei nostri bisogni quotidiani, Facebook della nostra vita di relazione. Il primo conosce il mondo, il secondo sa tutto della nostra vita privata. Il loro potere si basa sulle informazioni raccolte. Negli anni Novanta, quando si teorizzava l’“economia del gratis”, non era chiaro da dove sarebbero saltati fuori i profitti. Google e Facebook hanno capito che il segreto del successo sono i dati. Scambiando i loro servizi con le informazioni degli utenti hanno accumulato colossali quantità di informazioni, e questo ha consentito loro di diventare gli intermediari indispensabili per mettere in comunicazione i pubblicitari con i consumatori. Agli utenti vengono regalati servizi utili, ai pubblicitari viene venduta la possibilità di contattare con una precisione mai vista prima gli utenti interessati ai loro specifici prodotti. In questo scambio ci sono due monete differenti: gli utenti pagano con le proprie informazioni, le aziende pagano con soldi veri l’accesso a quei dati. Gli esperti lo chiamano two sides market, mercato a due lati.
Google e Facebook sanno tutto di noi: i gusti, le amicizie, le idee, gli acquisti. Dal 2009 Google legge tutte le nostre email appena le riceviamo, anche quelle che non apriamo e che magari finiscono nello spam, e in questo modo – conoscendo gusti, idee, abitudini, amicizie, acquisti di ogni singolo consumatore – possono targhetizzare in modo puntuale i messaggi pubblicitari. Ogni giorno della nostra vita accettiamo questo baratto di convenienza: ripaghiamo chi ci offre un contenuto, o un servizio, rivelando un dettaglio di noi stessi, la lettura di una pagina web, la visita a un sito di viaggi, un post scritto per rispondere a un amico. E in questo modo contribuiamo a far lievitare gli immensi archivi dati di Google, Facebook e degli altri grandi del digitale i quali, ognuno per le sue competenze, affinano la loro conoscenza dell’umanità.
Regole
È possibile affrontare un problema così nuovo e delicato con le vecchie regole? Probabilmente no, e infatti le procedure aperte dalla Commissione europea appaiono ancora arcaiche, basate su norme novecentesche che aspettano di essere aggiornate. La data scientist Kira Radinsky, che insegna ad Harvard, sostiene che la proprietà esclusiva dei dati può essere considerata un elemento per valutare una posizione di monopolio, e si domanda se i monopolisti dei dati danneggino l’economia. Nel 1998 Google conquistò una posizione preminente nel mondo dei motori di ricerca inventando l’algoritmo PageRank che classificava i siti web sulla base dell’importanza che questi avevano conquistato in rete.
Fu un’innovazione di enorme importanza, ma secondo Radinsky l’invincibilità di Google, quasi vent’anni dopo, non è più dovuta a PageRank, che da allora Google ha aggiornato centinaia di volte. Oggi tutti i motori di ricerca utilizzano algoritmi assai più raffinati che prendono in considerazione migliaia di fattori. L’elemento principale che rende Google superiore agli altri è la possibilità di accedere a vent’anni di dati sul comportamento degli utenti.
Questo – sostiene Radinsky –, migliora la ricerca del 31% e rende impossibile la competizione ai nuovi entranti, anche a quelli che hanno progettato algoritmi altrettanto raffinati.
Neppure un colosso come Microsoft con Bing può farcela. «I dati sono una barriera che impedisce a nuovi concorrenti l’accesso al mercato», sostiene Radinsky: sono le nuove materie prime, e il loro possesso è ormai un elemento centrale della competitività delle aziende: se una società ha accesso esclusivo ai dati e questo impedisce ad altri di entrare sul mercato, questo può essere considerato una forma di monopolio.
M a come affrontare un problema così delicato?
Come difendersi
Craig Mundie, ex capo della ricerca di Microsoft, in un lungo articolo per Foreign Affairs sostiene che il problema non si risolve inibendo la raccolta dei dati, ma controllando il loro uso. Mundie propone che «tutti i dati personali vengano annotati al loro punto di origine» e sistemati in un contenitore digitale controllato direttamente dall’utente. Se un’azienda vuole utilizzare i tuoi dati deve dichiarare le proprie finalità e ricevere il consenso prima di aprire l’involucro (e magari pagare un compenso). Questo avrebbe l’importante effetto di spingere sempre di più gli utenti a utilizzare le proprie reali identità (come già stanno facendo su Facebook). Ma soprattutto renderebbe i cittadini consapevoli di poter rivendicare la proprietà dei dati personali raccolti online e di poter decidere se autorizzare il loro uso per ragioni sanitarie, per la compilazione di statistiche pubbliche, o anche per ricevere messaggi pubblicitari. Una svolta di questo tipo sancirebbe la regola secondo la quale i dati personali sono – sembra una tautologia ma non lo è – una proprietà personale. Oggi non è così. I nostri dati sono di Google e di Facebook e delle aziende che riescono a catturarli.
Al di là della sua concreta fattibilità, la proposta di Mundie mostra come sia necessario ragionare in modo non convenzionale per affrontare un problema complesso che da un lato tocca questioni individuali (la privacy), dall’altra temi di carattere generale come la libertà d’impresa e la competitività dell’economia. In due documenti pubblicati nel 2025 e nel 2016 la stessa Casa Bianca ha chiesto con forza di approfondire il ruolo dei Big Data e della trasparenza dei prezzi. In entrambi i Rapporti viene sottolineato il rischio che l’industria dei data brokers, in grado di assemblare profili digitali dei singoli consumatori grazie ai dati di Google e Facebook, arrivi a predire come ogni singolo consumatore risponderà a differenzi prezzi. Molti sostengono che già oggi molti venditori online differenziano i prezzi sulla base della disponibilità a spendere di ogni singolo consumatore, anche se ancora non esistono prove certe di questa ipotesi. Il Rapporto cita uno studio secondo il quale Netflix sarebbe in grado di aumentare i propri profitti del 12,2 per cento utilizzando un ricco ventaglio di dati sul loro comportamento online.
False utopie
La giornalista Anna Bernasek e il giurista D.T. Mongan in un recente libro (All You Can Pay, Nation Books) hanno sviluppato un interessante parallelo tra vecchi e nuovi monopoli. Mentre Standard Oil, all’inizio del Novecento, aveva sviluppato un monopolio industriale conquistando il potere di fissare prezzi standard su vaste aree di territorio, oggi i giganti dei dati stanno imponendo un monopolio “granulare” e «adattando il prezzo e la qualità (delle merci) a ogni singolo individuo». Ed è quasi impossibile contrastare questa minaccia. «Un gigante dei dati può aumentare il numero di server, la capacità di memoria e di analisi più velocemente di chiunque non sia un altro gigante dei dati». E questo rappresenta una minaccia al libero mercato: «Senza un nuovo paradigma [leggi: nuove regole] le amministrazioni pubbliche non saranno mai in grado di controllare le aziende che controllano i dati degli utenti». Ma è proprio questo il problema: la frammentazione di Internet in tanti territori esclusivi (Facebook, Twitter, il mondo delle app) rende plausibile ogni monopolio e rende obsoleta la vecchia logica del libero mercato.
Vent’anni fa, quando Internet sembrava una grande utopia sul punto di realizzarsi, nessuno avrebbe immaginato che saremmo arrivati a questo punto. Nel 1996 John Perry Barlow, nella sua celeberrima Dichiarazione di indipendenza nel cyberspazio scrisse ai “governi del mondo”: «Non siete benvenuti tra noi, non avete alcuna sovranità dove ci riuniamo... Dichiaro che lo spazio sociale globale che stiamo costruendo deve essere indipendente dalle tirannie che voi cercate di imporre». Riletta oggi quella frase sembra una colossale utopistica sciocchezza e oggi anche Barlow ha cambiato idea. Quel sogno libertario, che ha impedito per anni di creare nuove regole allo sviluppo del web, ha generato un mondo governato da pochi monopolisti il cui potere cresce ogni giorno. Solo l’Europa ha il potere di creare regole sagge, massimizzando i benefici che queste straordinarie aziende possono offrire alla società, ma minimizzando i rischi del loro eccessivo potere.