Giuliano Aluffi, il venerdì 9/9/2016, 9 settembre 2016
SVELATI DALLA SCIENZA I TRUCCHI RETORICI DEI DISCORSI DI TRUMP
Il cervello dell’elettore è assediato: oltre ad essere terra di conquista per le strategie persuasive dei politici, sempre più indirizzate all’inconscio, è anche oggetto di studio per gli scienziati, soprattutto statunitensi. Come il linguista e cognitivista George Lakoff, docente a Berkeley, che da mesi analizza sul suo blog il linguaggio corrosivo di Donald Trump, o lo psicologo Matt Motyl, coinvolto dal New York Times nell’analisi di 95mila parole di Trump per ricavarne l’efficacia sull’audience. O la psichiatra Lise Van Susteren, che vede l’elettorato di Trump diviso in donne spaventate dall’Isis, che trovano in lui una figura rassicurante, e uomini demascolinizzati dalla disoccupazione, per i quali Trump è simbolo di rivalsa virile.
Ed è proprio l’idea di rivincita, di recupero di un passato glorioso, la chiave, secondo Lakoff, per capire la tattica persuasiva di Trump che negli scorsi mesi si è dimostrata più innovativa e dirompente, basata sul non detto più che sui contenuti veri e propri: «Il suo slogan preferito, Fa’ tornare grande l’America (Make America great again), evidenzia come si possa usare la vaghezza per creare empatia» spiega Lakoff al Venerdì. «Ognuno ha una sua idea su quale sia l’età dell’oro da restaurare. C’è chi vuole tornare a un’America più influente militarmente, chi è nostalgico del boom economico, chi rimpiange tempi più puritani, e così via. Trump si guarda bene dal precisare a quale America lui si riferisca, e così riesce a illudere tutti che la sua America ideale coincida con la loro».
L’imprecisione è strategica: «Iniziata una frase, Trump ama inserire subordinate e interruzioni, che, di fatto, frammentano il discorso. Il resto l’ascoltatore deve ricostruirlo con l’immaginazione. Quando Trump vuole far passare un contenuto pericoloso senza essere chiamato a risponderne, ne pronuncia solo la metà accettabile, come nel suo attacco alla proposta anti armi della Clinton: “Se Hillary riesce, non c’è niente da fare. O forse qualcosa c’è, magari per quelli del Secondo Emendamento (gli entusiasti delle armi ndr)”: la conclusione-tabù e cioè che quelli potrebbero sparare a Hillary, è lasciata all’intuito degli ascoltatori». E infatti, per come è fatto il nostro cervello, in effetti non resistiamo alla tentazione di finire le frasi altrui. «È un meccanismo spontaneo ed empatico» dice Lakoff «nelle conversazioni quotidiane lo facciamo per dimostrare che capiamo chi sta parlando, che condividiamo le sue idee. Spingendoci a completare le sue frasi, il candidato repubblicano ci induce a pensare di essere d’accordo con lui».
Altra caratteristica di Trump è l’uso ipnotico delle ripetizioni: «Ha ribattezzato l’avversaria Crooked Hillary (Hillary la Corrotta) e nei suoi discorsi ripete come un mantra Lock her up (rinchiudetela). Non spiega perché, ma basta la reiterazione del concetto per indurre un’associazione automatica, anche se arbitraria, tra la Clinton e la disonestà».