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 2016  settembre 08 Giovedì calendario

COSE TURCHE: LA VERA POSTA IN PALIO

Tempo qualche settimana, previsione facile, e molti leader europei anteporranno gli affari al pudore e ripeteranno quanto al momento afferma soltanto un precursore, l’ex premier svedese Carl Bildt: ha ragione Erdogan, il regista del fallito golpe in Turchia è stato il maestro sufi Fethullah Gülen dalla sua residenza americana. Avendo visto all’opera Bildt quando rappresentava l’Unione europea nella crisi jugoslava, tendo a pensare che qualsiasi cosa egli dica sia una castroneria. Ma quando Bildt aggiunge di non aver incontrato un solo analista turco che non condivida le sue certezza, esagera ma non mente: quasi tutta l’opinione pubblica fortissimamente vuole che Gülen e la sua poderosa organizzazione, Hizmet, siano colpevoli.
Eppure finora la stampa non ha offerto prove, e le prove forse non esistono. Ankara ha chiesto agli Stati Uniti di consegnare l’accusato per fatti che non riguardano il fallito putsch; e poiché la giustizia turca potrebbe processare Gülen solo per i reati per i quali fosse estradato, è legittimo sospettare che Erdogan e i suoi apparati non desiderino il processo. Che insomma vogliano non uno scomodo imputato ma un comodo capro espiatorio, ruolo nel quale Gülen è perfetto. Predica un islam esoterico, messianico, dialogante con le altre fedi – per l’ortodossia sunnita puzza di eretico. È un conservatore islamico, la sinistra laica ne diffida. Vive negli Usa, per il nazionalismo è una spia. Suoi affiliati affondarono il negoziato segreto tra Ankara e Pkk, la sinistra curda non l’ha dimenticato.
Ma soprattutto, i partiti di maggioranza e di opposizione non gli perdonano l’aver costruito un’organizzazione semi-segreta (Hizmet, “Servizio”) che è stata molto più efficiente di loro nell’occupazione dello Stato.
Hizmet riunisce soprattutto dipendenti pubblici usciti dalle sue ottime scuole, un personale all’occorrenza in grado di farsi strada azzoppando qualsiasi avversario attraverso i propri affiliati nella magistratura, nella polizia e nel giornalismo. Alcune clamorose inchieste giudiziarie prodotte a questo scopo si avvalsero, è dimostrato, di prove fabbricate. Ma i grandi partiti turchi non usano metodi più eleganti, e i loro magistrati di riferimento amministrano una giustizia non meno strumentale, come conferma il seguito del fallito golpe.
Gli inquirenti si sono inventati una “Organizzazione terroristica di Fethullah” (Gülen), FETO per la stampa allineata, e le hanno affibbiato un putsch ordito da un sodalizio di ufficiali (alcuni, ma non tutti, affiliati ad Hizmet) che Erdogan stava per esautorare.
Questo ha autorizzato la partitocrazia turca a smantellare una macchina da guerra che temeva e di appropriarsi di un bottino immenso – scuole, proprietà da amministrare (per 4 miliardi di dollari) e soprattutto posti da spartire. Finora sono stati licenziati o sospesi come “gülenisti” almeno 41 mila dipendenti pubblici, molti dei quali alti funzionari dello Stato, malgrado sia evidente che quasi tutti non fossero a conoscenza dei progetti putschisti.
Proprio l’appetito che suscitano le poltrone vacanti sembra spiegare perché il principale partito di opposizione (CHP, fondato da Atatürk, oggi membro dell’Internazionale socialista, 26% nelle ultime elezioni) col suo silenzio si sia fatto complice di questa mostruosa epurazione.
Dunque per capire quel che sta accadendo in Turchia – scrive Ziya Meral, uno dei pochi analisti turchi fuori dal coro – la stampa occidentale farebbe bene a rinunciare alle categorie esotiche o ideologiche cui ha fatto largo ricorso finora (“Islamismo, sultano, laicità, ottomani”). I golpisti non erano paladini dello Stato laico, e neppure, all’opposto, islamisti che volevano imporre alla Turchia il sufismo di Gülen, la tesi dell’ex capo di Stato maggiore Ilker Basbug.
La posta in gioco è più concreta: carriere, posti, potere. Gli eventi di questa estate, spiega Meral, sono questo, “un altro episodio nella storia della competizione per il controllo dello Stato”. L’ultimo round di un match sregolato che oppone da decenni grandi agglomerati clientelari: partiti, vaste consorterie occulte, sodalizi militari. In questo caso si potrebbe aggiungere che la crisi turca esprime, sia pure con modalità proprie, una degenerazione dei sistemi democratici che ci è familiare. Occupazione dello Stato, clientelismo, consorterie sotterranee, la disponibilità al conformismo e al sicariato di molto giornalismo: “cose turche” ma anche un po’ “cose italiane”.
di Guido Rampoldi, il Fatto Quotidiano 8/9/2016