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 2016  settembre 04 Domenica calendario

A ME GLI OCCHIALI

Si comporta come l’erede di Mario Monti senza averne il livello, emula Denis Verdini senza averne
la stazza demoniaca, ma un campo d’eccellenza lui pure ce l’ha.
Enrico Zanetti, 43 anni, dottore commercialista e viceministro dell’Economia, è uno che sulle briciole sa prosperare fino a sentirsi un re. Guida non a caso Scelta civica, un partito dal destino intuibile. Ne ha conquistato il vertice quando ormai l’operazione era fallita, e un mese
fa è riuscito persino ad andare in minoranza, da segretario, nel proprio gruppo parlamentare: su venti, l’hanno seguito in tre. Ma lui non si spaura. E anzi tira dritto, afferra una liana via l’altra, combatte anche contro il nulla, se necessario. È il suo destino. Forgiato dalla vita, oltreché dall’esperienza nevrotica del partito montiano, Zanetti è infatti un campione di salto sugli abissi
del trascurabile.
Un tratto titanico che sulle prime non spicca. Come del resto tutto in lui, sin dai tempi di scuola. Figlio di un radiologo e di una insegnante, venuto su al Lido di Venezia, per il liceo si iscrisse al prestigioso classico Stellini di Udine, sezione B, dove era l’unico della classe a dover arrivare a lezione in treno, ogni giorno, facendosi largo tra macchinoni e figli di papà. Nemmeno allora lasciava gran traccia di sé: sobrio, pacifico, non secchione, non malandrino. Uno di quelli di cui si ricorda giusto la parlantina coi professori per strappare almeno un sei. Ecco, l’immagine dei compagni di classe di allora non è distante da quella di oggi: Zanetti non ha alambicchi, non ha passioni, non ha armi segrete, persino la montatura delle lenti – che lo fa riconoscibile – è sgargiante per calcolo. La differenza tra il liceale e il viceministro sta più che altro in questo: una volta calato in politica, il suo guaio esistenziale di medietà è diventato la sua fortuna. Visibile ma irrilevante, come tappezzeria Zanetti è perfetto.
In tv lo si ritrova infatti ovunque, molto anche sui giornali. Interviene, polemizza, dialoga. Ha l’allure del ruolo di governo,
e una opinione su quasi tutto, pure sullo stipendio della capa di gabinetto di Virginia Raggi. Non che le cose vadano
poi come lui impetra: un anno fa voleva dimissionare la direttrice della Agenzia delle Entrate Rossella Orlandi, lei continua a star là. «È che ha cambiato atteggiamento», sostiene lui. Sapendo che, in fondo, era uguale.
E dire che uno così, nella seconda Repubblica, avrebbe avuto molti simili
e persino qualche peso. Adesso, al contrario, se ne trovano pochi che abbiano il coraggio di dire che «la politica è anche prendere atto delle situazioni che mutano», e di mutare con esse, saltando sul successivo mucchio di briciole.
Zanetti dovette farlo da subito. Fu Claudio Siciliotti, presidente dei commercialisti, a introdurlo presso la corte di Luca Cordero di Montezemolo, prima di non essere rieletto alla guida dell’Ordine. Zanetti divenne responsabile fiscale dell’Associazione Italiafutura, e da lì, prima che pure questa si perdesse nel nulla, spiccò il salto verso la Camera dei deputati. Da dove, per un bel pezzo, fu bravissimo a stare buono mentre in Scelta civica volavano le sedie. L’arrivo di Renzi fu la sua fortuna: all’epoca lui era il meno anti-renziano di tutti, così fu sottosegretario. Ancora se le ricordano,
le feste che fece. «Ma è un onore clamoroso», ha cinguettato del resto
in primavera, ormai viceministro, anche
di fronte al primo Tapiro d’oro. Perché l’ambizione si puntella anche coi tapiri. Nulla va buttato. Dunque adesso che l’estate è andata, e il senso del progetto pure, farà comunque gruppo unico con
i verdiniani, in attesa di capire dove altro andare e perché. Spunti non mancheranno, è sicuro.