Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 3/9/2016, 3 settembre 2016
L’URGENZA È IL RIASSETTO DEL SISTEMA
Dopo la promozione agli stress test di primavera, la percezione negativa dei mercati finanziari sul sistema bancario italiano ha perso parecchi argomenti. A parte la conferma della gravità della crisi di Mps e lo stupore per le potenziali criticità patrimoniali emerse in UniCredit, la solidità complessiva delle nostre banche ha trovato ampia conferma sia rispetto ai parametri di riferimento generali che nei confronti dei concorrenti europei.
Ma dopo otto mesi di alta tensione con Europa e mercati, la strada per recuperare la fiducia degli investitori, del sistema finanziario internazionale e soprattutto per placare la furia speculativa dei mercati resta ancora lunga. Sul percorso restano ostacoli ben noti e discussi, come lo smaltimento degli oltre 200 miliardi di sofferenze che pesano sui bilanci bancari e soprattutto la lentezza del processo di concentrazione e consolidamento tra istituti, ma anche criticità strutturali che vanno ben oltre la solidità patrimoniale: per le banche, come per i mercati, la vera grande sfida che ha davanti il sistema finanziario – e non solo di quello italiano – è quella di inventarsi un nuovo modello di business, snello, flessibile e soprattutto ben focalizzato sui cambiamenti in atto nel mondo del risparmio, della finanza d’impresa e del mercato dei capitali. Quando una delle più grandi banche del mondo come il Santander annuncia l’intenzione di chiudere nel prossimo decennio quasi il 90% delle filiali per trasformarsi in banca digitale, è evidente che il problema della ristrutturazione delle banche e dei modelli bancari va affrontato in Italia con la stessa urgenza. E soprattutto, con la stessa ottica di sistema che ha permesso a banche governo di lavorare insieme, e in modo costruttivo, sull’emergenza delle sofferenze, sugli aumenti di capitale delle banche venete e ora sul salvataggio di Mps. Così come i fondi Atlante e le garanzie pubbliche sui bond hanno insomma dato risposta alle legittime preoccupazioni degli investitori sul rafforzamento patrimoniale delle nostre banche, servono soluzioni sostenibili e per le altre due criticità rimaste accantonate sullo sfondo: la trasformazione digitale e la riduzione delle filiali e de dipendenti. Le banche italiane prestano molto e raccolgono poco, sono praticamente fuori da mercati redditizi come l’underwriting e il Corporate finance, guadagnano quasi esclusivamente dalle commissioni ai clienti e hanno costi operativi nettamente superiori a quelli dei concorrenti europei: con i tassi a zero destinati a comprimere la redditività dell’intermediazione, una profonda ristrutturazione dell’intera industria è un processo scontato. Le banche lo sanno da tempo, ma finalmente anche il governo ne ha ora preso atto.
Non c’è dubbio infatti che l’enfasi messa ieri da Matteo Renzi al Forum di Cernobbio sulla ristrutturazione delle banche rappresenti una sorta di chiamata collettiva alla realtà per banchieri e sindacati: chiudere metà delle 30mila filiali bancarie sparse in Italia, come si stima necessario, significa licenziare non meno di 150mila lavoratori bancari, con costi sociali potenzialmente drammatici. Renzi ha esortato i banchieri a non sottovalutare la rischiosità di questo processo. Ma sulle strategie per affrontarlo resta ancora il buio. Le banche sostengono che la rigidità dei contratti del settore impedisce loro di chiudere filiali e ridurre il personale come vorrebbero azionisti e mercati, e che questo ostacolo rallenta gli investimenti sul digital banking: poiché i licenziamenti sono consentiti solo se gli esuberi sono generati da fusioni, ricorrere solo ai prepensionamenti rappresenta un costo enorme le banche. Le loro cifre fissano in circa 200mila euro per dipendente il costo di un prepensionamento incentivato con 5 anni di stipendio: se si moltiplica questa cifra per 150mila esuberi, si capisce bene perché la ristrutturazione bancaria sia ancora tanto lenta. Ma si capisce anche bene per quale motivo le fusioni tra banche popolari siano tanto difficili da mettere in moto: per i dipendenti-azionisti, approvare una fusione apre certamente la strada ai licenziamenti.
Se insomma Renzi ha davvero preso atto della serietà del problema bancario, il governo dovrebbe subito avviare consultazioni con banche e sindacati sulla possibilità di attivare strumenti, finanziari o fiscali, per sostenere l’uscita dei dipendenti e possibilmente anche la loro riqualificazione. Da soli, banche e sindacati hanno serie difficoltà a metter in atto questo processo, la cui importanza è pari o persino superiore a quella degli Npl perché riguarda la competitività di lungo periodo.
In quest’epoca di risorse scarse e di economia in affanno, fare politica industriale è difficile ma non impossibile: sostenere le banche e aiutarle a ristrutturarmi, significa aiutare le necessità di credito e di sviluppo per decine di settori industriali. Il Made in Italy è un sistema fatto di banche e fatto di imprese, di tecnologia e di risorse per gli investimenti. Quando vuole, il governo ci riesce: nelle banche come nelle imprese del Made in Italy. Le azioni ben mirate sono spesso utili quanto il denaro per risollevare industrie in crisi profonda. La nautica da diporto ha ripreso il largo, per esempio, grazie a pochi incentivi fiscali e al rapporto costruttivo con il governo sulla promozione e gli investimenti: e quasi immediatamente, anche le banche hanno riaperto i rubinetti con grandi e piccoli cantieri come con tutta la filiera della componentistica. Quando si lavora insieme, ripartire si può.
Alessandro Plateroti, Il Sole 24 Ore 3/9/2016