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 2016  settembre 03 Sabato calendario

SCATTA IL TASSAMETRO

Prima di affrontare la vicenda Commissione Europea vs Irlanda, con riferimento alla mancata tassazione da parte di quest’ultima dei profitti di Apple, una premessa si impone: non si è trattato, in questo caso, di una pianificazione fiscale aggressiva da parte dell’azienda, secondo una pratica che viene considerata anche dall’Ocse distorsiva della concorrenza e causa di sperequazioni fiscali tra gli Stati. In proposito, è stato pubblicato nell’ottobre dello scorso anno un rapporto finale sulla Beps (Base Erosion and Profit Shifting Project – 2015 Final Report) in cui si chiede agli Stati aderenti di adottare ben 15 azioni concrete per contrastare il fenomeno.
Non è un caso, invece, che il soggetto inciso dalla decisione della Commissione sia l’Irlanda, che deve procedere alla riscossione del mancato versamento di imposte per 13 miliardi di euro, al netto degli interessi, mentre quello percosso tributariamente sia Apple. E non è un caso, poi, che il governo irlandese abbia preannunciato il ricorso alla Corte di giustizia: di mezzo c’è la sua politica fiscale, ed in particolare due determinazioni dell’Amministrazione che sono state pienamente rispettate dall’azienda americana. Ed è su questi due atti, ormai non più operativi per via della modifica organizzativa operata dalla azienda già da un paio d’anni, che si è incentrata l’attenzione della Commissione, in quanto hanno garantito condizioni di particolare favore all’azienda, ulteriori rispetto alla aliquota ordinaria del 12,5% che si paga in Irlanda sui profitti.
L’azienda, dal canto suo, si duole per il fatto di essere condannata a pagare una somma ulteriore rispetto a quella già versata rispettando pienamente le determinazioni concordate con la amministrazione fiscale irlandese, ritenendo che l’intervento della Commissione non solo sia esorbitante perché interferisce con la potestà fiscale che spetta, secondo lo stesso Trattato di Lisbona, ai singoli Stati, ma perché è retroattivo: «riscrive la Storia».
Prima di riscrivere la Storia, occorre però raccontarla. Il punto di partenza è rappresentato dal referendum con cui l’Irlanda, il 12 giugno 2008, votò contro la adesione al Trattato di Lisbona, in quanto avrebbe interferito su una serie di questioni ritenute vitali: politica fiscale, diritto alla vita, all’istruzione ed alla famiglia, diritti dei lavoratori. Sembrò una insolente ingratitudine: proprio l’Irlanda, il Paese che più di tutti aveva beneficiato dall’adesione all’Unione facendosi testa di ponte delle multinazionali americane sul proprio territorio attraverso una politica fiscale particolarmente attraente, si opponeva ad una ulteriore integrazione.
Per convincere il governo irlandese ad indire un nuovo referendum, che ebbe esito favorevole, fu necessaria una Dichiarazione solenne, allegata alle Conclusioni della Presidenza della Unione del 18-19 giugno 2009, in cui si precisava, tra l’altro, che «Nessuna disposizione del trattato di Lisbona modifica in alcun modo, per alcuno Stato membro, la portata o l’esercizio della competenza dell’Unione europea in materia di fiscalità».
Questo precedente chiarisce oltre ogni dubbio la importanza che il governo ed il popolo irlandese hanno sempre attribuito al modello di sviluppo fondato sull’incesto tra politica fiscale e mercato interno europeo: l’Irlanda non sarebbe quella che è se non avesse fatto da polo di attrazione per le società in cerca non tanto di una fiscalità vantaggiosa per produrre e vendere in quel mercato, quanto della possibilità di farvi affluire tutti gli utili formati all’interno dell’intera Unione europea.
È questo il contesto al cui interno vanno lette le determinazioni fiscali irlandesi che hanno consentito ad Apple di pagare per anni una aliquota inferiore al 12,5% sui profitti, avendo potuto dedurre, come costo, il contributo alle spese di ricerca sostenute dalla Casa madre negli Usa. Va detto, con altrettanta chiarezza, che l’Irlanda non ha fatto altro che adottare il medesimo modello di asimmetria normativa, fiscale e societaria, su cui si sono basate per decenni le fortune del Lussemburgo e dell’Olanda: «Competition through Taxation» è il modello che li accomuna.
Il punto è rilevante in quanto la tassazione non è uno strumento finalizzato alla copertura delle spese pubbliche, e neppure volto alla creazione di un clima favorevole all’insediamento delle imprese, quanto alla tassazione più favorevole dei profitti realizzati altrove. Più si allarga l’Unione, più cresce il mercato interno, e maggiori si fanno automaticamente i vantaggi determinati da queste asimmetrie. Lo stesso è accaduto con l’ingresso dei Paesi dell’Est, che potevano contare di costi del lavoro enormemente più bassi.
C’è dunque più di un vizio di origine nella costruzione europea, considerando che la politica fiscale è di competenza degli Stati, mentre solo l’Iva è una imposta comunitaria. Peraltro, anche il processo di armonizzazione di quest’ultima è assai accidentato: basta pensare all’aumento delle aliquote imposto ai Paesi dell’Unione con la bilancia commerciale deficitaria al fine di rendere più costose le importazioni e vantaggioso l’export. Siamo in presenza di un «non modello» fiscale europeo: mentre negli Usa la tassazione delle imprese è decisa a livello federale e la sales tax è fissata a livello statale e locale, l’Unione lascia piena libertà agli Stati sulla tassazione dei redditi e delle imprese. Fino al punto di lasciar creare modelli di sviluppo basati sulle asimmetrie fiscali, e riservandosi una ampia discrezionalità sull’Iva, usata talora per comprimere i consumi interni eccessivi e tal’altra per sanare i bilanci pubblici deficitari.
L’intervento della Commissione europea, da cui abbiamo preso le mosse, non ha riguardato dunque il regime generale irlandese di tassazione degli utili d’impresa, con l’aliquota del 12,5%, perché avrebbe inciso su una potestà riservata allo Stato irlandese, bensì le due determinazioni assunte nei confronti della sola Apple: è stata questa assoluta peculiarità, non replicabile a favore delle altre imprese, che sarebbe stato distorsivo della concorrenza, nelle forma di aiuti di Stato illegittimi.
Il governo irlandese non vuole essere smentito dalla Commissione, perché perderebbe la credibilità che gli consente di usare la leva fiscale per attrarre business: dei 13 miliardi di imposte arretrate non ha nessun bisogno, anche perché si tratta di tasse relative ai profitti derivanti dalle vendite effettuate da Apple nel resto dell’Unione. La Commissione ha rilevato che dal punto di vista contrattuale, e dunque fiscale, ogni transazione figurava come avvenuta in Irlanda, e non in giro per l’Europa, con la imputazione dei ricavi ad una sede centrale (Head Office) che non aveva però né personale, né locali. In realtà, l’organizzazione ed il rischio di impresa erano tutti riferiti ai singoli mercati nazionali. Il varco è enorme, dacché non si esclude la possibilità che i singoli Stati rivendichino alla propria tassazione i profitti generati sul loro territorio. La Commissione ha infatti ammesso che i 13 miliardi che l’amministrazione fiscale irlandese deve incassare da Apple potrebbero essere molti meno se altri Stati europei facessero valere le proprie ragioni sui profitti non tassati adeguatamente dall’Irlanda. Il costo per l’azienda americana sarebbe così molto più alto di quanto dovrebbe ancora pagare all’Irlanda.
Il rilievo della questione è altamente politico, e si colloca in un momento assai delicato dei rapporti con gli Usa, visto lo stallo delle trattative sul Ttip. Forse si sta approfittando della debolezza della Amministrazione Obama per alzare il tiro, come temeva lo stesso segretario al Tesoro americano Jacob Lew quando lo scorso inverno inviò una lettera assai preoccupata al Presidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker, paventando un ribaltamento retroattivo dei principi fondamentali della tassazione internazionale, con una serie di aziende americane messe fiscalmente sotto scrutinio senza adeguate giustificazioni, come Apple, Starbuck ed Amazon.
La tassazione degli utili nel Paese in cui si rende il servizio aprirebbe un varco in cui cadrebbero insieme sia le asimmetrie fiscali su cui hanno prosperato Paesi come Irlanda, Olanda, Lussemburgo e Belgio, sia le strategie di pianificazione fiscale aggressiva di tante multinazionali, americane e non.
Se Donald Trump vuole far rientrare negli Usa i profitti delle multinazionali, non tassati in quanto detenuti all’estero, molti Paesi europei sono a favore di una tassazione nazionale dei servizi forniti su base tranfrontaliera, ivi compresi quelli digitali. In Europa si vende, si guadagna, ma non si pagano tasse: i profitti volano via, mentre gli investimenti sono appena quelli strumentali per rendere i servizi. Siamo solo un mercato, una condizione che né gli Usa, né tantomeno la Cina, hanno mai accettato.
C’è il problema della retroattività della decisione della Commissione, che distrugge l’affidamento che le aziende ripongono nelle regole: all’incertezza sul futuro non può aggiungersi anche quella sul passato. Per l’Irlanda ed Apple, la battaglia legale continua; comunque vada, è un conflitto di retroguardia. C’è da dedicarsi alle nuove regole, evitando le vecchie asimmetrie fiscali e le consueta furbizie aziendali: la Commissione ha gettato un bel masso nello stagno.
di Guido Salerno Aletta, MilanoFinanza 3/9/2016