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 2016  settembre 05 Lunedì calendario

“PERCHÉ AGLI CHEF NON SI CHIEDE L’APPARTENENZA POLITICA E A NOI SÌ?” – [Intervista a Max Gazzè] – Massimiliano era in giro per il mondo da ragazzo: “Quando suonavo per 50

“PERCHÉ AGLI CHEF NON SI CHIEDE L’APPARTENENZA POLITICA E A NOI SÌ?” – [Intervista a Max Gazzè] – Massimiliano era in giro per il mondo da ragazzo: “Quando suonavo per 50.000 lire a sera” ed è rimasto nomade anche a 50 anni. In ottobre, Max Gazzè toccherà Canada, Stati Uniti, Giappone e Cina con il Maximilian tour per poi tornare a Roma dove tutto iniziò il 6 luglio del 1967. Per decenni, molto prima che la sua La vita com’è toccasse 25 milioni di visualizzazioni e le canzoni di Gazzè venissero cantate ovunque, questo cantante di complicata classificazione tirava mattina tra una jam session e l’altra. Che il trionfo di pubblico sia arrivato in un’età da bilancio esistenziale, a Gazzè, fa relativo effetto. Beve latte di mandorla, fuma, osserva il palco in lontananza come fosse un elemento del paesaggio così naturale da non richiedere un supplemento di stupore. È la vita che ha voluto. È la vita che si è scelto: “Credo che essere arrivato al successo abbastanza tardi sia la conseguenza di una serie di lavori che negli ultimi anni sono stati apprezzati dal pubblico. Il tempo va molto veloce, ma le cose restano e la gente che viene a vedermi ha età ed estrazioni molto eterogenee. Ci sono i fan della prima ora e poi ci sono ragazzi più giovani, anche ragazzini, che apprezzano la musica senza farsi tante pippe mentali”. Gazzè ha 4 figli. Il suo uditorio ideale. Il suo punto di osservazione preferito: “Contemplo le loro reazioni e mi accorgo che la loro percezione è stimolata dagli archetipi. Se esistono sonorità che fanno vibrare certe corde, i ragazzi le avvertono in maniera molto naturale. Non pensano ai generi o alle classificazioni. Ascoltano quel che gli piace, interpretando soggettivamente quel che gli arriva, senza fermarsi alle categorie: al progressive, al rock, ai condizionamenti culturali. Io sono un musicista, ho suonato dal jazz alla classica e non ho mai capito perché chi ama Mozart non possa essere contemporaneamente un fan di Elvis”. Per molti anni, seguendo il padre, funzionario alla Comunità Europea, Gazzè ha vissuto in Belgio: “Un periodo fondamentale per moltissime ragioni. Ho sperimentato, mi sono fatto le ossa e ho conosciuto tante ispirazioni musicali diverse tra loro. C’erano sere in cui suonavo con una band inglese alle 10 e poi staccavo per raggiungere un gruppo di esuli iraniani entrando in contatto con sonorità del tutto differenti. A Bruxelles sono tornato recentemente e ho avvertito la malinconia dell’uomo di passaggio, della persona che sa che i luoghi che sono stati suoi non lo saranno più”. Andare, partire, salutare. Quest’estate, poco oltre la metà di agosto, Gazzè ha perso suo padre: “Era malato e in qualche modo ero preparato. Papà apprezzava molto la mia musica e archiviato qualche contrasto iniziale anche molto duro, si era rivelato il mio più grande fan. Se ne è andato di sera e il giorno dopo io sono salito sul palco. Era quello che avrebbe voluto lui, se non l’avessi fatto e lui avesse potuto vedere, mi avrebbe preso a calci”. I Gazzè vengono dalla Sicilia: “Ho scoperto che erano lontani discendenti dei duchi d’Aquitania convertiti dall’ebraismo al cristianesimo e poi arrivati a Scicli”. Con un cognome così musicale, quasi una filastrocca compressa in 2 parole, non poteva che finire così: “Sono stato molto fortunato perché ho potuto affinare l’arte in un posto, il Belgio, che non era certo dispersivo. Esistevano sei locali, io prendevo il mio strumento a tracolla e suonavo fino a tarda notte. Una grande scuola, una formazione indispensabile, una contaminazione continua di suoni e culture molto diverse tra loro. Ho fatto la gavetta e sono contento di esserci passato”. Le canzoni di Gazzè: “anche quelle più pop” sono figlie di un notevole lavoro sulla parola: “Con mio fratello studiamo e ricerchiamo accuratamente le parole e proviamo a farle conciliare con il suono. Facciamo rimare le consonanti e affiniamo la coesione tra gli elementi perché certe parole sono cantabili sono se sono incastonate nel testo in un certo modo”. I bambini ripetono “Sotto casa” a memoria: “E magari danno al testo interpretazioni alle quali non avevo pensato neanche lontanamente. Quando scrivo mi piace giocare con i significati”. Per Gazzè non prendersi troppo sul serio è un imperativo e la curiosità un dovere: “Curioso ero e curioso sono rimasto. Da ragazzo suonavo cose simili a quelle che ascoltavo. Mi ispiravo ai Genesis, ai Pink Floyd e a Vangelis, ma magari tornato in camera mia a fine giornata sul piatto facevo girare Via Paolo Fabbri 43 di Francesco Guccini. Nella mia formazione c’è stata sempre una doppia anima. Il Jazz, come i Weather Report. Qualcosa del mondo di ieri, nelle mie armonie di oggi, spero di averlo fatto scivolare”. Ai concerti di Gazzè si balla e si canta. Qualcuno, come accade in ogni arena, riprende lo spettacolo con il telefonino. Gazzè è laico: “Che riprendano non mi dà nessun fastidio perché come dice Sartori, questa è l’epoca dell’homo videns. Una differenza tra la copia e l’originale esiste sempre, il problema è che spesso ci accontentiamo della fotocopia scambiandolo per l’originale”. Originali per spirito e passione erano i cantautori che animavano le notti de Il Locale, a Roma, in Vicolo del Fico. A metà anni 90, tenendo viva una fiamma che si spense dopo poco più di un quinquennio. Gazzè, Silvestri, Niccolò Fabi. Gente che si è poi ritrovata a dividere un palco per una fortunata tournée da cui dice Gazzè, ognuno dei tre protagonisti è riemerso con rinnovate consapevolezze: “Da un lato, nella percezione collettiva, questa storia del cantautorato romano del Locale ha rappresentato un po’ una prigione, una collocazione forzata, un inscatolamento obbligato che in qualche modo ci impediva di far parte del resto, dall’altro una esperienza bellissima, non solo musicale. C’erano prove teatrali, mostre di pittura, canzoni. Fu un bel periodo e nacquero amicizie che sono sopravvissute al tempo”. Non era il Folkstudio di Lo Cascio, De Gregori e Venditti anche perché il fumo delle barricate si era estinto: “Sono da sempre a favore dell’abbattimento delle barriere politiche: se vado in un ristorante non chiedo certo se lo chef è di destra o di sinistra”, ma i tre amici con la chitarra e il pianoforte sulla spalla sono rimasti uniti. L’amicizia tra Gazzè, Silvestri e Fabi ha resistito anche dopo la fine del loro tour: “Sapevamo che sarebbe finito e che ognuno avrebbe preso la propria strada, ma è stato bello poterlo vivere insieme”. Ci si prende, ci si lascia. Anche in amore: “A 50 anni mi sono convinto che l’unico modo di tenere in piedi una storia d’amore sia vivere separati. Ci si incontra quando si sente davvero l’esigenza perché lo spazio della solitudine, per chiunque, è irrinunciabile”. di Malcom Pagani, il Fatto Quotidiano 5/9/2016