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 2016  settembre 02 Venerdì calendario

LA LEGGENDA DI LORCA, IL DEMONE CHE LITIGÒ CON BUÑUEL E DALÍ

I dettagli sono tutto, in particolare per un poeta. Soprattutto se il poeta è Federico García Lorca. Ma probabilmente fu un equivoco quello che accadde nel 1929 all’uscita di uno dei cortometraggi più celebri del cinema di tutti i tempi: Un chien andalou. Lorca ha 31 anni. I suoi due giovani amici sono un po’ più giovani, e hanno scritto e diretto quel film. Sono: Luis Buñuel e Salvador Dalí. Loro stanno a Parigi. Sono surrealisti. Hanno fatto qualcosa di apparentemente incomprensibile, senza una trama, con quella scena iniziale dell’occhio tagliato tra le più cruente che si possano vedere ancora oggi sul grande schermo. Sono amici i tre. Si sono conosciuti a Madrid, hanno condiviso nottate a parlare, discutere di arte e letteratura, nella città vecchia per ore. Sono giovani e appassionati.
Lorca è il fratello maggiore, per certi versi. Andaluso, figlio di un proprietario terriero, delicato nei modi e nell’aspetto, con un’infanzia fragile dove non si è fatto mancare alcuna malattia di quell’epoca. Lorca sarebbe diventato un musicista se la madre non gli avesse impedito di iscriversi al Conservatorio. Dalí era un nobile folle che dipingeva in un modo spettacolare. Buñuel un ruvido visionario nato per diventare un maestro del cinema. Con entrambi Lorca perderà presto i contatti e l’amicizia. Ma quelli erano anni dove tra poeti, intellettuali e cineasti i litigi erano furibondi, e talvolta irrimediabili. Gli odi e i rancori, da sempre nutrimento di gente che passava la vita a pensarsi grande e a sminuire la grandezza altrui, non erano educati come oggi, ma barbari come fu barbara e spietata la vita culturale della prima metà del Novecento.

Quel film oltraggioso. Perché Lorca si arrabbiò all’uscita di Un chien andalou? Perché lo prese come un attacco a lui. Lui che contemplava poeticamente la sua terra andalusa, che cantava lieve con la sua chitarra, lui visionario ma non surrealista, rivoluzionario ma fino a un certo punto, engagé ma consumato dalla malinconia e dalla depressione; lui, affaticato, persino estenuato da una omosessualità affermata ma tenuta distante, appassionata ma al contempo lasciata a macerare in quel cratere vulcanico che era la sua creatività, la sua parola scritta, e che definiva con un termine intraducibile, il duende, insomma Lorca era quanto più lontano dalla brutalità provocatoria e atea del film di Dalí e Buñuel.
Forse è da lì che i rapporti si incrinarono. Ma Lorca al contrario dei due suoi amici, non visse abbastanza. E non ci fu il tempo di recuperare. La badante di Dalí racconta che le sue ultime parole, prima della morte nel 1989, furono dei farfugliamenti dove era nitido il nome di Federico, di Lorca. Il figlio di Buñuel raccontò in un’intervista che quando Lorca venne fucilato dai franchisti, nel 1936, il padre Luis scoppiò a piangere. Ma loro due erano comunque lontani dalla Spagna: Dalí viveva tra Parigi e New York. Mentre Buñuel lascerà il suo Paese poco dopo l’avvento del franchismo.
Lorca invece non fa neppure in tempo a restare, a scegliere il suo mondo arcaico dove nulla è nitido, soprattutto il pericolo. Le sue opere sono troppo moderne e libertarie, la sua omosessualità, per quanto mai dichiarata, potrebbe essere un problema per i cupi e reazionari franchisti. Quando viene fucilato, sembra abbia in tasca un biglietto per il Messico. Eppure aveva deciso di non partire. Pensava di salvarsi, pensava di restare, quello che immaginò davvero non lo sapremo mai.
Sappiamo che la sua morte, in fondo simile purtroppo a mille altre di quegli anni in Europa, che si fosse dei poeti o che si fosse dei comuni cittadini, è diventata una leggenda: fucilato sulla strada di Viznar, assieme ad altri oppositori, il 17 agosto 1936. In Andalusia era nato, in Andalusia è morto. E non è un caso. I critici hanno sempre sottolineato tutto questo: la terra, l’intensità, il legame profondo con il sangue e il suolo di quel mondo, e l’entusiasmo, la sensualità, l’erotismo, lo scandalo. Ma anche l’impegno, la modernità, il suo essere davvero un rivoluzionario. I suoi testi per il teatro, con quelli di Brecht, sono stati per decenni il repertorio gauche più amato. Il femminismo ha sposato, tra i suoi testi di riferimento, La casa di Bernarda Alba, una delle ultime opere teatrali scritte da Lorca.
Eppure Buñuel e Dalí gli facevano il verso, andando a incidere, nel vero senso della parola, nello sguardo di Lorca, quello sguardo incantato sul mondo e sull’amore. I milioni di lettori che hanno ricopiato sui quaderni le sue poesie e le hanno mandate a memoria, lo hanno eletto a simbolo della grande poesia; dopo, questa sorte è toccata soltanto a Pablo Neruda, perché Prévert era il poeta dell’amore, certo, ma non della carne, non della potenza dell’erotismo, semmai quello dei bacetti da fidanzatini di Peynet.
Il demone interno. Lorca era altro. Lorca era il duende, il daimon lo avrebbe poi chiamato lo psicoanalista James Hillman. Mica una cosa da poco. Tanto le sue poesie sono visionarie, tanto le sue prose sono intrise della sua cultura andalusa, del suo sguardo su quel mondo torbido e contraddittorio. Lorca è malinconico, per dirla poeticamente, depresso per dirla clinicamente. Non accetta la sua omosessualità, ma non può fare a meno di metterla in versi, le leggende raccontano che lui e Dalí siano stati amanti, ma da quel che risulta forse fu un amore platonico. Le leggende raccontano tante altre cose. Tutte da verificare, nonostante esista una corposa biografia di quasi mille pagine, scritta dallo storico Ian Gibson.
E le leggende non si fermano con gli anni. Di recente uno studioso ha ricevuto uno scrigno di lettere di Lorca inviate a un critico letterario dell’epoca: Juan Ramírez de Lucas. Dopo la morte di Ramírez, nel 2010, la famiglia le ha rese pubbliche Era il 1935, Juan ha 19 anni, Federico 38. Nasce una furibonda passione, dicono le cronache di cinquant’anni dopo, perché per Lorca la passione è sempre furibonda, e anche questo rientra nei luoghi comuni. A lui dedica i Sonetti dell’amore oscuro, è lui il rubio de Albacete, il biondo di Albacete.
Fu uno strano destino il suo. Vecchio e giovane al tempo stesso. Anche dal punto di vista poetico e letterario. Quando nel 1925 scriveva: «E io amavo / un’altra. Non vedi che pena? / Un’altra che stava scrivendo / un nome sulla sabbia», Eugenio Montale aveva già raccontato il male di vivere negli Ossi di seppia, T.S. Eliot aveva aperto il Novecento da tre anni con la sua Terra desolata, Ezra Pound aveva travolto la tradizione poetica occidentale con i suoi Cantos.
Ma la modernità di Lorca per tutti i critici è quella del cosiddetto secondo periodo, quella del suo viaggio a New York tra il 1928 e il 1929. Anche se le poesie di New York verranno pubblicate soltanto nel 1940. Ma con Lorca nulla è lineare. Anzi il suo tormento è anche un tormento dei suoi critici. Affannati a distinguere, a giustificare, a spiegare che sì, forse le sue poesie giovanili erano brutte, che certo, il meglio del secondo periodo non venne pubblicato quando era in vita, che le opere degli ultimi anni erano dense e mostravano il suo animo maledetto, la sua sofferenza, il suo tormento, ma difficili da leggere e da capire. Per non dire delle sue due ultime opere teatrali, quasi irrappresentabili. Il rapporto con la sua opera fu così irrisolto da sorprendere ancora oggi che Lorca, seppur grande poeta, sia considerato il maggiore di Spagna, e forse uno dei più grandi del mondo.
Il grande critico e ispanista Carlo Bo, che fu il curatore e lo specialista principe di Lorca in Italia e nel mondo, scrivendo una prefazione, pubblicata agli inizi degli anni Novanta, a dei testi minori del poeta andaluso terminava con queste curiose parole: «Lorca, o lo si accetta così com’è, oppure se lo si sottopone a un esame tradizionale, lo si rinchiude nel grande libro anonimo della poesia universale, e lì, lo si lascia morire».
Così com’è. Certo. Il destino delle icone letterarie del Novecento è proprio in questa felice formula: così com’è. È la letteratura che non si basta, è la letteratura che ha bisogno del mondo. Questo per buona pace di critici formali, di strutturalisti, di fini analisti testuali.
Lorca è il corpo di quello che scrive. È la sua tuta, quella con cui andava sempe a recitare, il suo abito di scena contro ogni divismo. Lorca è la sua chitarra e i suoi versi composti per essere cantati e recitati. Lorca è l’impegno sociale per i più deboli, che venne scambiato come sempre accadeva allora in impegno di sinistra. E che invece era probabilmente il suo sguardo su quella civiltà contadina che aveva conosciuto bene da fanciullo, da figlio di proprietario terriero. Lorca è il cogliere i contrasti e le disuguaglianze della società americana.
Lorca è questo e altro. Le edizioni delle sue poesie d’amore, raccolte alla meglio, e quelle delle sue poesie erotiche continuano essere tra le più vendute. A las cinco de la tarde, il lamento per la morte del torero Ignacio Sánchez Mejías, è da sempre studiata nelle scuole.
L’incontro con Montanelli. L’amore, la passione, l’intensità, il decidere di restare sperando di non essere tradito da una famiglia di franchisti a cui aveva chiesto protezione e riparo, e che immancabilmente lo tradì, dicono che il mondo non ha nulla di lineare, e che incaselliamo in categorie certe poeti e scrittori per nasconderci delle verità molto scomode. Nasconderci che un autore è grandissimo per le correnti sotterranee del suo scrivere, per il magma oscuro che lo guida. Anche se di per sé la sua opera non è poi così interessante.
Pier Paolo Pasolini, che di impegno civile e di poesia se ne intendeva, disse in un’intervista a un giornale spagnolo che erano Machado e Kavafis ad averlo profondamente impressionato, ma Lorca «molto meno». Eppure entrambi avevano delle similarità. Non tanto l’omossesualità, quanto quel restare ancorati alla terra, quel provare e riprovare con risultati alterni diversi generi, quella discontinuità che era anche dissipazione. Quell’essere in fondo dei conservatori, dal punto di vista culturale, e dei rivoluzionari nel modo di pensare il futuro del mondo.
Eppure Lorca era lontanissimo dalla leggenda edificata su di lui che era ancora in vita. Su questo abbiamo una testimonianza di Indro Montanelli che andò a trovare Lorca nel 1935 e ne scrisse per il Corriere della Sera. Montanelli trovò Lorca intento a dipingere e a suonare il pianoforte, ed espresse al grande poeta la sua ammirazione per le Canciones andaluse. Lorca si contrariò e rabbuiò: «Forse», scriverà poi Montanelli, «gliela espressi in modo molto malaccorto; ma fatto sia che si oscurò in viso e mi chiese con una venatura di sarcasmo se veramente mi sembrava viva e vera l’Andalusia delle sue Canciones».
Oggi è impossibile leggere Lorca in una maniera sistematica. Come tutti i grandi letterariamente non è fedele a nessuno e non è fedele a se stesso. I suoi testi sono ormai preda di citazioni smembrate, buone per circolare sul web e per impreziosire le chat di tutto il mondo. Non è solo il destino di Lorca: stessa sorte è toccata a Prévert, a Neruda, ad Auden, a Emily Dickinson, a Majakovskij. L’amore e la disperazione sono buona merce per le moderne mitologie letterarie. A volte anche l’impegno, la visionarietà, la politica. In Lorca c’è un po’ tutto questo.
I misteri della sua fine. Ma è la sua morte che incide profondamente nell’immaginario collettivo. In una sua celebre conferenza, intitolata Teoria e gioco del duende, Lorca scrive: «La Spagna è l’unico paese dove la morte sia lo spettacolo nazionale, dove la morte suoni lunghe trombe all’arrivo della primavera». Fu arrestato a Granada nella casa del poeta falangista Luis Rosales Camacho. Era il 16 agosto 1936. Da anni si ripercorre la passeggiata, all’alba, sulla strada che va da Viznar ad Alfacar, assieme ai suoi carnefici, al suo plotone di esecuzione. Da decenni le tre accuse per cui verrà fucilato sono ripetute come un karma: «di sinistra, omosessuale e massone».
Si è sempre saputo poco dei dettagli dell’esecuzione. Ma negli ultimi anni si è ricostruito quasi tutto, merito del lavoro di eruditi e biografi: fu ucciso assieme a due anarchici, Juan Cabeza e Francisco Galandi, e a un maestro zoppo che si professava ateo: Don Dioscuro. Lorca viaggiava su una Buick decappottabile rossa color ciliegia. Lo stesso colore delle labbra evocate da Lorca in molte sue poesie. Il gruppetto di esecutori era guidato da un capo pattuglia feroce e spietato. Tutti avrebbero ricevuto una promozione e qualcuno anche 300 denari.
Erano in sei. Il capo. Poi un cugino di Lorca finito ubriaco e fallito a vantarsi nelle bettole andaluse, un altro morto solo e sepolto in una fossa comune, un quarto divenne agente immobiliare, ma senza successo, un quinto fu radiato dalla Guardia civile quattro anni dopo. L’unico che ebbe un profondo rimorso per quello che aveva fatto, e per questo merita di avere un nome, fu il tiratore scelto Juan Jiménez Cascales, che per questo finì pazzo e morì in un manicomio.
Il corpo di Lorca non è mai stato ritrovato. Di tanto in tanto si cerca in quei pozzi artesiani andalusi per capire dove potrebbe essere, ma ci vorrebbero troppi soldi per fare una ricerca. Forse era inevitabile che uno dei più grandi e controversi poeti del Novecento non abbia una tomba con i suoi resti.
L’annuncio della sua morte provocò lo sdegno di tutta la cultura internazionale. Buñuel come si è detto, pianse. Dalí commentò con una frase delle sue, che fu letta come irrispettosa e cinica: «Olé!».
Molti anni dopo, a parziale giustificazione, avrebbe detto che si trattava di una citazione, forse l’ultima parola di Ignacio Sánchez Mejías prima di essere infilzato a morte dal toro, a las cinco de la tarde.
Perché il grande poeta andaluso aveva certo ragione: «la Spagna è il paese dove la morte è spettacolo nazionale» ma soprattutto è il paese dei «suoni neri dietro i quali stanno in tenera intimità i vulcani, le formiche, gli zaffiri e la grande notte».
In pratica, tutto quello che Federico García Lorca è stato.