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 2016  settembre 04 Domenica calendario

TRENI, AEREI E LUSSO: I CONTI IN ROSSO DEI GRANDI GRUPPI

L’industria italiana è la grande malata dell’Europa. Pil inchiodato allo zero nel secondo trimestre e una crescita che rispetto al 2015 e a tutto il quinquennio precedente, balla intorno a percentuali da zero virgola, sono i sintomi di una sindrome da cui l’imprenditoria del Bel Paese, o meglio quello che ne è rimasta, non riesce proprio a uscire.
Lo shopping operato a mani basse dai grandi gruppi francesi, spagnoli, olandesi, cinesi, arabi, ha portato oltre confine il controllo, insieme a parte della produzione e delle imposte pagate, dei marchi più noti del made in Italy, in comparti trainanti dell’economia come l’agro-alimentare, la moda, le telecomunicazioni. Le prime 50 imprese private quotate in borsa sono in gran parte a conduzione familiare. Il management si tramanda di padre in figlio con una forte propensione a capitalizzare gli utili e mantenere le posizioni acquisite, più che a investire. Tanto meno in tempi di crisi. Sul versante delle Pmi, la dimensione sempre più piccola della maggioranza delle imprese italiane le condanna a dipendere da un mercato interno sempre più asfittico e ad alimentare costantemente il tasso di disoccupazione. In Italia le micro e piccole imprese (quelle con meno di 10 dipendenti e 2 milioni di fatturato) sono 4 milioni 222mila, il 98,3%, occupano 9 milioni e 197mila addetti e generano 1.079 miliardi di Pil. Solo il 20,1% degli occupati lavora in grandi imprese sopra i 20 milioni di fatturato, contro il 37,5% della Germania.
Il futuro non promette nulla di buono. Una conferma della spirale negativa in cui è finito il settore produttivo viene dai primi bilanci depositati in questi giorni nel registro delle imprese, riferiti all’esercizio 2015. Secondo i primi dati forniti al Fatto da Infocamere, la banca dati della rete delle Camere di Commercio, si sta confermando il trend che ha portato circa il 20% delle aziende a chiudere il bilancio in perdita nel 2014. E a soffrire di più sembrano ancora proprio le società più strutturate, quelle che dovrebbero trainare l’economia.
Al 29 agosto scorso erano 413 le società per azioni con oltre 500 addetti che avevano presentato i loro bilanci. Di questi 69 sono i rosso. Dall’elenco emergono nomi prestigiosi e i settori che evidenziano le maggiori difficoltà. Il siderurgico continua a perdere posizioni. Tra le imprese in perdita spiccano quest’anno le acciaierie Valbruna, 688 milioni di valore della produzione e 272 milioni di risultato netto passivo, gli Acciai speciali di Terni, la Rodacciai e l’Acciaieria Arvedi.
Nonostante investimenti e sofferte acquisizioni e ristrutturazioni il comparto dei trasporti non riesce a riprendere a correre. Grandi navi veloci ha chiuso il 2015 con 15 milioni e 722mila euro di perdite, su un fatturato di oltre 317 milioni. Conti ancora in rosso, anche se fortemente ridotti rispetto all’anno precedente, per il Nuovo trasporto viaggiatori di Luca Cordero di Montezemolo e Diego Della Valle. Le perdite di Ntv iscritte a bilancio ammontano a 12 milioni 620 mila 170 euro, su un valore di produzione di 322 milioni 428 mila 717 euro. Forte squilibrio tra entrate e uscite per la Compagnia aerea italiana, la holding finanziaria che detiene attraverso MidCo spa il 51% della nuova Alitalia. Su un valore di produzione di 2 milioni 543mila euro denuncia una perdita di 5 milioni 108mila euro.
Segnali di sofferenza anche dalla Ericsson telecomunicazioni, che ha chiuso il 2015 con conti in rosso per 18 milioni 765mila euro e dal settore dell’abbigliamento e della moda. Segno meno per Forall confezioni, la società vicentina detentrice del marchio Pal Zilieri che è stata acquisita nel luglio scorso al 100% dal fondo Mayhoola for Investments, braccio finanziario della famiglia reale del Qatar, già proprietaria del marchio Valentino. Risultato netto in negativo anche alla Prenatal spa, la catena di negozi specializzati nella distribuzione di prodotti per l’infanzia della famiglia Catelli, che perde 11 milioni e 303mila euro su 203 milioni di valore di produzione. Compar, società per azioni che gestisce in Italia il marchio Bata, azienda leader mondiale nel calzaturiero, chiude il 2015 con 23 milioni e 124mila euro di perdite, rispetto a un fatturato di 364 milioni e 324mila euro. Non tornano i conti anche per altre note firme del tessile e della moda italiana come Zegna Baruffa lane Borgosesia, Twinset e Corneliani, dell’omonima famiglia mantovana.
Dietro ai numeri si nascondono in alcuni casi i risultati di un modello d’industrializzazione fallimentare e estenuanti vertenze sindacali per difendere centinaia di posti di lavoro, anche nelle aree del paese dove la disoccupazione e la recessione mordono di più. Segnali di sofferenza provengono ancora da una delle maggiori industrie chimiche presenti nel paese, la Sasol Italy. Tre impianti produttivi a Lodi, Cagliari e Augusta, è la filiale italiana di una multinazionale con sede a Johannesburg in Sudafrica che occupa 30.400 addetti in 36 paesi. Il valore della produzione denunciato in Italia è di un miliardo e 70 milioni. Nel 2015 i conti non hanno chiuso in pareggio per 70 milioni e 98mila euro. La Sasol Italy viene da una storia di tentativi di razionalizzazioni, mobilità e cassa integrazione che sta mobilitando i sindacati da anni per conoscere il destino degli stabilimenti, in particolare quello di Augusta.
Luciano Cerasa, il Fatto Quotidiano 4/9/2016