Andrea Schianchi, La Gazzetta dello Sport 4/9/2016, 4 settembre 2016
1973, IL CILE DI PINOCHET VINCE SENZA AVVERSARI
Il 21 novembre 1973, allo Stadio Nacional di Santiago del Cile, andò in scena la Partita dell’Assurdo. Una sola squadra in campo, senza avversari, costretta a segnare un gol dopo un’azione manovrata durante la quale tutti i giocatori avrebbero dovuto toccare il pallone. E poi l’arbitro avrebbe fischiato la fine e decretato la vittoria più umiliante della storia del calcio. Pazzesco, vero? Eppure è successo e, ciò che è peggio, nessuno vi si è opposto. Non importa se per mancanza di coraggio, connivenza o semplice ignoranza. Il risultato resta e fa male ancora oggi, a tanti anni di distanza.
I FATTI Il Cile e l’allora Unione Sovietica si guadagnarono il diritto di disputare lo spareggio per essere ammessi al Mondiale del 1974. Doppia sfida, prima a Mosca e poi a Santiago. Ma quella non era soltanto una partita di calcio, scendeva in campo la politica: i fascisti del Cile contro i comunisti dell’Urss. Pochi giorni prima della gara d’andata il generale Pinochet, con un Colpo di Stato, aveva rovesciato il governo di Salvador Allende, democraticamente eletto, e aveva instaurato un regime militare. Nelle strade di Santiago giravano soltanto carrarmati e autoblindo, i soldati presidiavano i luoghi del potere, i dissidenti venivano arrestati, incarcerati, torturati e, infine, gettati nell’oceano Pacifico con un pezzo di cemento attaccato ai piedi. Scomparsi, desaparecidos. I giocatori della nazionale cilena, quando Pinochet assaltò il Palazzo della Moneda, erano in ritiro, si stavano allenando in vista della partita di Mosca. Non seppero nulla, almeno questo dissero anni dopo: non potevano leggere i giornali, né ascoltare la radio o guardare la televisione. Così, all’oscuro di ciò che avveniva a casa loro, partirono per l’Unione Sovietica, giocarono, pareggiarono 0-0 e soltanto quando rientrarono a Santiago ebbero la possibilità di vedere i quotidiani che inneggiavano alla loro grande impresa. Persino il generale Pinochet si complimentava con loro: erano diventati, senza saperlo, eroi del regime. Mancava l’ultima frase per completare la storia, la sfida di ritorno, ma tutti erano convinti che sarebbe stata una passeggiata. Data la difficile situazione politica del Paese, la Fifa decise di farla disputare due mesi più tardi, il 21 novembre appunto.
IL QUADRO POLITICO Quelli, a Santiago, furono i due mesi peggiori della sua storia. Dolore e violenza. La polizia militare, con la silenziosa complicità della Cia americana, fece sparire migliaia di uomini e donne, colpevoli soltanto di avere idee politiche diverse da quelle del generale Pinochet. Lo Stadio Nacional diventò un luogo di tortura. Nei corridoi sotterranei, quelli che collegano i vari settori dell’impianto, negli spogliatoi, sotto le tribune, ovunque c’erano prigionieri che venivano massacrati di botte fino a che non confessavano. E, se non dicevano niente, si procedeva con la corrente elettrica attaccata in ogni parte del corpo. Il colonnello Espinoza era il grande capo di tutte le operazioni. All’inizio di novembre fu il generale Pinochet in persona a ordinargli di sgomberare lo stadio: «Devono venire quelli della Fifa a fare un’ispezione». I prigionieri furono portati in altri luoghi, l’impianto venne ripulito e i dirigenti della Fifa stabilirono che lì si poteva giocare. Ma a Mosca non la pensavano così. Il segretario generale del Pcus, Leonid Breznev, non intendeva mandare la nazionale dell’Urss in un Paese fascista. Propose che la partita di ritorno venisse disputata in una nazione neutrale, ma non fu ascoltato. Così decise di tenere a casa la squadra. Il gesto aveva un profondo significato politico: era un messaggio agli Stati Uniti che di Pinochet, e del suo golpe, erano stati i primi sostenitori.
IL GOL L’idea della Partita dell’Assurdo venne al generale che voleva in quel modo celebrare la potenza del Cile. Il presidente della Fifa, l’inglese Stanley Rous, non brillò per coraggio e accettò. Negli spogliatoi, poco prima di entrare in campo, il commissario tecnico della nazionale cilena, Luis Alamos, spiegò ai giocatori quello che avrebbero dovuto fare. Dieci passaggi, in modo che tutti toccassero il pallone e fossero in questo modo complici di ciò che stava accadendo. Il gol a porta vuota avrebbe dovuto segnarlo Francisco «Chamaco» Valdes, il capitano. Nessuno dei giocatori ebbe il coraggio di alzare la mano e tirarsi indietro di fronte a quell’assurdità. Nemmeno Valdes, nonostante fosse noto che parteggiava per i socialisti. E nemmeno Carlos Caszely, il centravanti, detto «Il Re del Metro Quadro» perché in area di rigore faceva quello che voleva. Anche lui era di sinistra e anche lui accettò il piano. Quando misero piede in campo videro un’enorme scritta sul tabellone: «La gioventù e lo sport uniscono oggi il Cile». In tribuna generali, colonnelli, capitani dell’esercito. Pinochet no: restò nel suo ufficio al Palazzo della Moneda. I soldati sorvegliavano il pubblico con i mitra spianati. Valdes fece il suo dovere e buttò il pallone in rete, l’arbitro dichiarò finita la farsa e tutti applaudirono. E quell’impressionante battimano coprì le urla di dolore che giungevano dagli edifici lì vicino, dove qualche ragazzo era legato a una sedia e, con la testa piegata all’indietro, gli aguzzini gli buttavano in gola acqua e sale. Valdes corse subito negli spogliatoi, si sdraiò su una panca e si sentì male. L’allenatore gli diede una pacca sulla spalla, lo ringraziò e gli disse che era stato bravo. I giornali, la mattina dopo, salutarono la qualificazione del Cile al campionato del mondo. Anni dopo, ricordando quei momenti, Francisco Valdes non trattenne le lacrime e ammise: «Anch’io sono colpevole».