Enrico Deaglio, il venerdì 2/9/2016, 2 settembre 2016
VITA DA SBIRRI A DALLAS
DALLAS. Solo per uno scarto di pochi anni. Anni nei quali, peraltro, la tecnologia ha fatto passi da gigante. Se no, ci sarebbe stato lui, Ron Slater, cecchino scelto per «operazioni speciali» della polizia di Dallas. Avrebbe dovuto mirare per uccidere un uomo che non conosceva, ma che aveva inquadrato nel telescopio del fucile di precisione nei locali di El Centro College. E farlo in fretta, perché l’uomo aveva appena falciato cinque colleghi e ne aveva feriti altri 4.
Invece, a porre fine alla storia, quella notte entrò in scena un robot azionato a distanza. Così – nel primo esperimento di questo genere in America, autorizzato dal capo della polizia David Brown – terminò la vita di Micah Xavier Johnson, veterano della guerra in Afghanistan, uno dei troppi desperados che fanno la cronaca di questi tempi. Il primo per il quale si potrebbe scrivere, sulla tomba: Ucciso da Remotec Andros Mark V-A1. Ovvero: Stanley Kubrick non è vissuto invano. Oppure, un altro cecchino a Dallas, 53 anni dopo Lee Oswald.
Era l’8 luglio scorso. Otto giorni dopo, altri tre poliziotti venivano uccisi a Baton Rouge, Louisiana da un altro cecchino. Si chiamava Gavin Long, anche lui un reduce, questa volta dall’Iraq. Long è stato ucciso alla vecchia maniera, da un essere umano. Con 8 poliziotti uccisi, l’America sembrava alla vigilia di un’estate da guerra civile, con un candidato alla presidenza che apertamente la aizzava. Ora l’estate sta finendo e – incrociando le dita – la guerra civile americana non è cominciata. Anzi, proprio da Dallas è partito un segnale che nessuno si sarebbe aspettato.
Ho incontrato Ron Slater, il «cecchino in pensione» a casa di amici texani a San Francisco. Ha passato trent’anni nel corpo, spesso in minoranza con il sentire comune. È un liberal, scrive belle poesie, è sposato con Carmen, messicana di origine, e prima di mangiare – ovunque sia, anche in un bar – recita a voce alta una preghiera.
Secondo Ron, non ci sarà guerra civile. E sarà anche merito di David Brown, il capo della polizia di Dallas. Tantissimi, molti anche in Italia, lo hanno visto parlare alla conferenza stampa dopo la strage. Un uomo massiccio, afroamericano, dai capelli rasati, mascella squadrata e occhiali di foggia antica, che non ha evitato le lacrime parlando dei colleghi uccisi (la Dallas Police ha tremila poliziotti e una lista di uccisi di 47) e ha raccontato la verità su quanto era successo. Dunque, a Dallas come in ogni parte d’America, era in corso una manifestazione di protesta, indetta dal movimento Black lives matter («Le vite dei neri contano», un titolo che non è un grido di battaglia, ma una educata constatazione per la lunghissima lista di ragazzi afroamericani uccisi dalla polizia), quando nel vecchio centro della città – a tre isolati dalla Daley Plaza in cui fu ucciso il presidente John Kennedy 53 anni fa – si sono cominciati a sentire i colpi di arma da fuoco, che venivano da un tetto. Panico, fuggi fuggi, agenti a terra, altri al riparo. Ma Brown ci ha tenuto a dire: «Al corteo partecipavano almeno trenta membri di un gruppo che difende il Secondo Emendamento. In Texas si possono portare armi in pubblico e dunque al corteo c’erano trenta persone, alcune vestite con giubbotti antiproiettile e tute mimetiche, che avevano un fucile mitragliatore AR-15 a tracolla. Ora, voi capite che quando si sentono degli spari in una situazione simile, di sera, con poca luce, diventa più difficile capire immediatamente chi ha sparato e perché». Intendeva dire: la legge che permette di portare armi in pubblico va cambiata, è assurda. Poi, ai funerali dei cinque colleghi, rivolgendosi al movimento Black lives matter, ha detto una seconda cosa rivoluzionaria: «Non siate un problema, siate la risoluzione del problema: arruolatevi nella polizia». Dopodiché, è successa una cosa abbastanza inaspettata: in una settimana, 500 persone a Dallas (non è stato rivelato di quale etnia, ma si capisce che in maggioranza sono latinos e afroamericani) hanno fatto domanda. Non ci sarà da stupirsi se David Brown avrà un futuro politico.
«David», dice ora Ron Slater, riferendosi al capo della polizia, «è sempre stato bravo, intelligente, e molto umano. Me lo ricordo, da quando era giovane. Veniva da una famiglia povera, difficile; i suoi genitori erano fieri di lui. La sua storia è segnata da due funerali».
Il primo fu quello di suo fratello Kelvin, ucciso nel 1991 da uno spacciatore in una disputa di droga. Il secondo, quello del figlio unico David jr. Era un ragazzo mentalmente instabile e un giorno del 2010 sparò ed uccise due uomini, di cui uno era un poliziotto, prima di essere ucciso a sua volta da 12 proiettili sparati dalla polizia. Suo padre era diventato capo da appena sei settimane; all’autopsia suo figlio risultò intossicato da PCP, una delle peggiori droghe sintetiche in circolazione.
«David sa cos’è la sofferenza e ha saputo reagire nella maniera giusta. Ha introdotto nuove regole per limitare l’uso delle armi; ha promosso le pattuglie miste, il bilinguismo. Con lui è stato vietato inseguire e sparare a un sospetto che fugge; ha imposto la body camera; ha licenziato poliziotti violenti e aggressivi, anche a costo di mettersi contro il sindacato, che è diventato il suo peggiore nemico e che invece spinge sempre più per una militarizzazione del corpo: codici, divise, garanzie di impunità. La storia del Corpo non è tutta rosa e fiori. Ci fu un periodo in cui entrarono centinaia di professori, tutti bianchi, dopo un’ondata di licenziamenti nella scuola pubblica. Non vennero preparati bene e, mandati di pattuglia, avevano paura. E quindi imposero di essere salvaguardati, di poter sparare impunemente, di essere garantiti. Qui siamo in una frontiera. La violenza è tanta e l’asfalto è rosso sangue. Criminali e vittime sono tutti neri e latinos, che fanno di Dallas la seconda metropoli (dopo Chicago) più violenta degli Stati Uniti».
Nel nostro immaginario, Dallas è solo un nome, affascinante e respingente, misterioso. La Dallas vera è un concentrato di industrie, petrolio, ranch, bistecche, cotone, banche, aeroporti, vaccari; un milione e duecentomila abitanti; quella immaginaria resta nella memoria del Novecento come un luogo simbolico, come Sarajevo, Brest Litovsk, Monaco, Montecassino. Qui, infatti, un Marine tornato dalla Russia ammazzò il presidente americano; vent’anni dopo, Dallas divenne il nome della più seguita serie televisiva del pianeta con una saga di petrolieri violenti, pacchiani, avidi. E quando il suo eroe, il famoso JR, venne ucciso, alla milionesima puntata, il giornale locale, per festeggiare il record di ascolti e incoraggiare il turismo mise in prima pagina: «Benvenuti nella città che ha ucciso JFK e JR». Da record anche la sua violenza. Nel 1991, all’apice dell’era del crack, si contarono 500 morti in città. L’anno scorso, la statistica è scesa a 136.
E lei dov’era, Ron, quando ammazzarono il presidente? «A scuola, purtroppo. Avrei voluto andare al corteo, ma era venerdì e avevo la partita di football la sera. Se avessi bigiato la mattina, non mi avrebbero fatto giocare. Per noi ragazzi, Kennedy era un eroe. Era giovane, era per i diritti civili, aveva sconfitto Kruscev. Mi ricordo che diedero le notizie con l’altoparlante. Le voci dicevano che erano stati i russi, per vendetta, e che sarebbe cominciata la terza guerra mondiale. Nelle settimane dopo, ci accorgemmo di che cosa il mondo pensasse di noi: un posto di bigotti, razzisti, fascisti che aveva ucciso il presidente della speranza. Beh, non avevano tutti i torti! Mi ricordo quando fu eletto Obama. Io ero ancora in servizio, andai, come al solito, a comprare proiettili per le esercitazioni e scoprii che erano esaurite. Sa cos’era successo? Che i buoni cittadini bianchi avevano fatto incetta, pensando che adesso arrivava il negro che avrebbe portato via le loro armi. Si preparavano a resistere!».
Ron Salter ricorda quando entrò in polizia. 1968, finita l’università, su consiglio di un cugino. Fece l’accademia e dopo sei mesi cominciò il lavoro di pattuglia. «La zona pericolosa, allora come adesso, era South Dallas. Ma a me piaceva, era piena di vita. All’epoca era assolutamente impensabile che ci fossero poliziotti neri. La segregazione, di fatto, era ancora in vigore. Mio padre faceva l’autista di bus, le vecchie signore afroamericane stavano sedute in fondo alla corriera, ma si dovevano alzare se un bianco rimaneva in piedi. Le scuole, i bar, le piscine, tutto era diviso. La polizia uccideva e picchiava. La famosa legge Miranda, del 1966, quella che imponeva di recitare al fermato i suoi diritti, qui non era proprio applicata. Quando un negro veniva ucciso, ed era frequente, era sempre per legittima difesa. Veniva nominato un Gran Giurì per un’istruttoria sommaria. Dodici uomini, bianchi, che assolvevano il poliziotto».
L’evento che cambiò tutto fu il caso Santos Rodriguez. Era il 1973, un luglio con cinquanta gradi di temperatura. Una macchina della polizia insegue un’ombra, accusata di aver rubato otto dollari in monete da un distributore automatico. È notte. L’agente entra in una casa, e ne esce con due ragazzini, due fratelli, in pigiama. Li ammanetta e li mette nella macchina; a quel punto l’agente – si chiamava Darrell Cain – prende la sua 357 Magnum e la punta alla tempia di Santos Rodriguez, dodici anni. Gli urla di confessare non solo quel furto, ma tutta una serie di furti avvenuti nel quartiere. Il ragazzo nega, non capisce, è terrorizzato. Cain allora gioca con lui alla roulette russa. Inserisce una pallottola nel tamburo, lo fa girare e poi punta alla tempia del ragazzo. Una volta, due volte, tre volte. Alla fine, il colpo parte, Santos muore, il suo sangue inonda la faccia di suo fratello. Un’altra pattuglia arriva un quarto d’ora dopo, trova i due ancora ammanettati, Cain in ginocchio che vomita.
«A quei tempi i latinos a Dallas non erano tanti, qualche decina di migliaia. Erano appena arrivati, solo alcuni avevano una casa, non capivano la lingua, e noi non capivamo la loro». Eppure, di fronte alla morte atroce di quel ragazzo, scesero in piazza. E arrivarono tanti altri, da San Antonio, da Austin, da mezzo Texas. Marciarono con cartelli che chiedevano giustizia. Due motociclette della polizia scortavano il corteo, e un gruppo di manifestanti le attaccò. Poi le diedero alle fiamme. La polizia allora sparò gas lacrimogeni e arrestò un sacco di persone. Ma da quel giorno, tutto cambiò, per la polizia di Dallas. Non solo Darrel Cain venne arrestato e condannato a cinque anni di prigione, ma per la prima volta la polizia accettò domande di ispanici. Così venne assunta la prima poliziotta di Dallas, si chiamava Cynthia Villareal e per lei fecero un’eccezione per l’altezza minima richiesta. Cynthia è ora l’assistente di David Brown, oggi ispanici e neri fanno il 60 per cento dell’organico della polizia.
Ron Salter è andato ai funerali dei cinque colleghi, come ai funerali di molti altri prima di loro. Ha scritto alle loro famiglie, ha fiducia che le cose andranno meglio. «Dei cinquecento che hanno fatto domanda, alla fine poi non so quanti ne prenderanno. Però è bello che sia successo».
Ed è anche contento che un robot lo abbia, per un piccolo scarto di tempo nella storia degli uomini, sollevato dall’ingrato compito.
Enrico Deaglio