Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  settembre 01 Giovedì calendario

«SONO GUARITO». INTERVISTA A GABRIELE MUCCINO – Non vi ingannino la balbuzie specchio di emotività né certe uscite poco diplomatiche scritte sui social media che gli fanno inutilmente collezionare nemici su Internet (un giorno i doppiatori, un altro i custodi dell’estetica di Pier Paolo Pasolini, domani chissà, le fanatiche di uncinetto), e non vi inganni neppure il suo cinema che spesso illumina il nostro lato più fragile, quello dei sentimenti

«SONO GUARITO». INTERVISTA A GABRIELE MUCCINO – Non vi ingannino la balbuzie specchio di emotività né certe uscite poco diplomatiche scritte sui social media che gli fanno inutilmente collezionare nemici su Internet (un giorno i doppiatori, un altro i custodi dell’estetica di Pier Paolo Pasolini, domani chissà, le fanatiche di uncinetto), e non vi inganni neppure il suo cinema che spesso illumina il nostro lato più fragile, quello dei sentimenti. Gabriele Muccino è un uomo molto più solido di quel che possono far pensare la sua biografia sentimentale (tre figli da tre donne diverse) e la sua filmografia. È un combattente puro e indomito, uno che si rialza sempre, pronto a ricominciare ogni volta. Lo incontro a Roma, mi parla con entusiasmo di un grandioso progetto (un kolossal sulla storia di Greenpeace) ma soprattutto ha una gran voglia di sviscerare il suo decimo film: L’estate addosso, in anteprima fuori concorso alla Mostra di Venezia, e poi nelle sale dal 15 settembre. Nato senza grandi budget e senza star, ha però la colonna sonora firmata dall’amico e testimone di nozze (quelle in corso di validità, con Angelica Russo) Jovanotti. Il film è romantico e ha un tocco gentile. Racconta di Marco e Maria (interpretati da Brando Pacitto e Matilda Lutz), due neo­maturati italiani in vacanza a San Francisco protagonisti, con una coppia di ragazzi gay americani (gli attori Taylor Frey e Joseph Haro), di un quadrilatero amoroso in cui tutti sono innamorati di qualcuno che però è innamorato di qualcun altro. L’estate addosso segna un ritorno alle origini, all’atmosfera dei suoi primi film. «Dopo quattro film americani non scritti da me, alcuni in sintonia con la mia sensibilità e altri che ho dovuto un po’ addomesticare, tutti con risultati molto diversi tra loro, ho sentito il bisogno di tornare da dove vengo, tornare alla mia Itaca, alle storie che mi interessano davvero, e anche a un modo di metterle in scena più essenziale. In un certo senso, L’estate addosso è stato un percorso di guarigione». Dalle ferite hollywoodiane? «Hollywood è complessa, traumatica. Solo chi c’è stato può capirne la realtà al di là del sogno e dei luoghi comuni. Lavorare lì è una benedizione, per molti aspetti. Ma è anche il posto più cinico della terra, si prendono grandissime mazzate». Pensa di aver peccato di ingenuità? «Le dico solo una cosa: dopo dieci anni di vita a Los Angeles, non ho un amico. Ma non sono certo l’unico. Questa è un’industria dove gli amici non esistono. Una volta che l’ho capito, mi sono rassegnato e isolato, cominciando a guardare le cose con una penombra nello sguardo che non mi piace avere. Allora, per reagire, ho preso in mano il soggetto dell’Estate addosso, che avevo cominciato a scrivere molti anni fa, tutto ispirato a storie vere, storie di persone che conosco». Il film è parlato in due lingue e racconta anche un po’ l’incontro tra due culture, italiana e americana. «Ogni viaggio è un’iniziazione a un’altra forma di vita, una possibilità di rimettersi in gioco, di far crollare pregiudizi e buttare via qualche parte di sé. Per esempio, io in inglese non balbetto. In America nessuno sa che sono balbuziente. Appena torno in Italia, ricomincio. La mia balbuzie è figlia della mia insicurezza, che ha radici nella mia adolescenza solitaria». Quanto la influenzano i giudizi degli altri? «Ho impiegato tutta la vita a dimostrare a me stesso che io sono migliore di come mi pensano gli altri. È una battaglia mai finita. In pratica, passo il tempo a convincermi che gli altri hanno torto. Ma, come dicono in C’eravamo tanto amati: chi vince la battaglia con la coscienza ha vinto la guerra dell’esistenza». Sì, ma non le fa paura andare a Venezia? Lei comunque suscita grandi divisioni, e alla Mostra c’è sempre un certo accanimento nei confronti dei film italiani. «Nel tempo ho incontrato gente che mi ha detto cose meravigliose, persino esagerate, tipo che i miei film gli avevano cambiato la vita, ho letto gran belle recensioni e stroncature terribili, e mica solo in Italia. Mi hanno fatto a pezzi anche a Sydney, Singapore e Buenos Aires. Può far male, certo, ma io sono ancora qui, penso che valga sempre la pena giocarsi tutto quello che si ha come se fosse l’ultimo giorno». Nell’Estate addosso si dice: «Quando smetti di contarli, i giorni cominciano a volare». Tra un anno compie i 50: che effetto fa? «Mi fa paura il tempo che passa perché amo troppo la vita per accettare che scivoli via. Oggi non sono più lo stesso uomo dei miei primi film. Allora non sapevo nemmeno che cosa volesse dire essere un regista, essere marito, padre, ex marito. Ci sono momenti della nostra vita in cui scattano dei clic, in cui capiamo che nulla sarà più come prima. In questo senso, L’estate addosso è un film esistenziale. Racconto l’attimo di passaggio di due giovanissimi, ma per tutti, a tutte le età, c’è la fine di qualcosa e l’inizio di qualcosa d’altro». Quali sono stati i suoi «clic»? «Uno dei miei primi lavori: sei mesi in Africa a girare documentari sugli animali. Il periodo immediatamente successivo all’uscita dell’Ultimo bacio. La lavorazione della Ricerca della felicità che è un po’ l’inizio della mia avventura americana, quando ho avuto l’impressione di essere finito su Marte a vivere con i marziani. Sensazioni irripetibili». E la sua estate dopo la maturità come fu? «Andai a Rodi con quattro amici, che ancora frequento. Eravamo in cerca di pischelle, non ne trovammo nessuna. Sfigati». Il suo primo amore come si chiamava? «Antonella, compagna di scuola. Ero gelosissimo, e come tutti i gelosi finii ampiamente cornificato. Lo scoprii per caso da una tizia, a una festa. Venne a dirmi: “Tu sei Gabriele Muccino? Ecco, sappi che il mio ragazzo sta con la tua ragazza”». A quell’età si pensa che di mal d’amore si può morire. «E poi si smette di pensarlo, per fortuna. Più la vita ti sbatte in faccia dolori e delusioni, più sviluppi quegli anticorpi che si chiamano disincanto». Ha preso le distanze anche dalle polemiche di suo fratello Silvio? «Sì. Non ho niente da dire».