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 2016  settembre 01 Giovedì calendario

QUELLE DELLA NOTTE

A chi alza gli occhi, l’ultimo tratto della Vigevanese non deve sembrare troppo diverso dall’angiporto di Lagos che Sara e le altre ragazze hanno lasciato meno di due anni fa: terra piatta e asfaltata male interrotta da palazzacci mezzi vuoti e mezzi rotti, polvere, container, falò in piena estate, cielo che sembra caderti addosso, idiomi yoruba mischiati e sparati a voce altissima nella notte di Milano. O meglio, di un’area ben precisa di Milano: la periferia sudest, dai bordi della città fino al triangolo compreso fra Melegnano, Binasco e Corsico. Nelle ore di punta, lungo il marciapiede si prostituiscono almeno 80 ragazze. Quattro virgola qualcosa per chilometro, a voler essere precisi. E tutte nigeriane.
Quella è la loro zona, insieme all’ultimo tratto di via Fulvio Testi, al capo opposto della città, e a un paio di fermate di metropolitana dallo stadio di San Siro. Sara e le sue compagne di strada sono bambole d’ebano da trenta euro a prestazione che non vedranno mai il centro. Quello è per le slave: romene, moldave. E soprattutto le albanesi. Spesso minorenni, quasi sempre costrette. Su di loro il racket investe di più, dunque si aspetta sicurezza e visibilità maggiori. Alla mafia nigeriana non importava di guadagnare le prime due circonvallazioni per poi essere costretta ad affittare stanze e appartamenti: in periferia, con un parcheggio a disposizione e un paio di materassi buttati sull’erba, basta meno di un mese per ammortizzare i costi d’acquisto e di viaggio della «merce». Il business non conosce pause né crisi: con una clientela stimata tra i 7 e i 9 miloni di individui, sotto i lampioni d’Italia c’è spazio per tutti.
E poi ci sono le ’ndrine calabresi, vere registe di ogni traffico illegale all’ombra della Madonnina, alle quali non interessa più la prostituzione ma sta invece molto a cuore la «pax criminale». Insomma, è bastato sedersi a un tavolo, più o meno un anno e mezzo fa, perché ogni tassello trovasse in fretta il suo posto. La Yalta dei papponi, il Cencelli del sesso low cost.
Non è una teoria partorita da giallisti o sociologi, ma una precisa risultanza investigativa messa nero su bianco da decine di questure da Nord a Sud e per la prima volta anche dalla Direzione investigativa antimafia, che nell’ultima relazione semestrale consegnata al Parlamento definisce la prostituzione come uno di quei settori dove «le organizzazioni mafiose e i gruppi tradizionali stranieri non si muovono su piani contrapposti bensì manifestano convergenze nelle quali i secondi assumono ruoli crescenti e più autonomi nella gestione di un business giudicato marginale dai primi». Il risultato è sotto gli occhi di chiunque decida di farsi un giro per Milano fra le dieci di sera e le quattro del mattino.
L’affollamento di ragazze e il viavai di auto sono impressionanti. E anche se i dati forniti dalle fonti ufficiali o dalle numerose associazioni che provano a sottrarre le ragazze al racket non sono univoci, qualche numero aiuta a inquadrare meglio il boom. Secondo la Caritas, il numero delle prostitute su strada è quasi raddoppiato in cinque anni, e aumentato di almeno duecento unità negli ultimi dodici mesi. Sulla piazza meneghina si stima siano ormai quasi 1.600 (numero più o meno equivalente a quello di chi si prostituisce in appartamenti, alberghi, privé e centri massaggi) ma capace di totalizzare il 65 per cento delle prestazioni. Il che la dice lunga sulle condizioni disumane del loro «lavoro».
Non a caso il turnover è elevatissimo (il 50 per cento delle ragazze cambia ogni anno) e l’età media di chi finisce sul marciapiede sempre più bassa: un report della onlus Giovanni XXIII rivela che nel 2010 solo una prostituta di strada su cinque aveva meno di 22 anni, mentre oggi la quota è raddoppiata. Le minorenni, secondo alcuni calcoli, arrivano al 40 per cento del totale, anche se questo stride con i dati messi in fila dalle forze dell’ordine: per il reato di prostituzione minorile lo scorso anno sono state appena 461 le denunce, con la segnalazione alla magistratura di 478 persone, in gran parte italiani (336) e romeni (87). Da questo punto di vista, non è dato capire se per maggior solerzia o minor coscienza, è Roma a rappresentare un vero e proprio caso di scuola visto che quasi la metà dei provvedimenti giudiziari si sono concentrati nella capitale.
La distopia fra estensione del fenomeno e risibilità delle conseguenze fa purtroppo il paio con i ripetuti tagli ai fondi che da anni affliggono i centri antiviolenza, alle case famiglia e alle associazioni che si occupano di assistere le vittime della tratta. Dal primo settembre, addirittura, per una serie di intoppi burocratici il servizio rischia di non essere più garantito in alcune regioni. Ci sono proteste, raccolte di firme in corso, il governo e la conferenza Stato-Regioni fanno sapere che in un modo o nell’altro ci metteranno una pezza. Echi distanti, come il dibattito sulla riapertura delle case chiuse o sull’inasprimento delle pene per i clienti che adescano minorenni. E pazienza se sarà dura dimostrarne l’intenzionalità, visto che «diciannove» è la prima parola che molte di loro hanno imparato passando il confine, che fossero stipate sotto una coperta puzzolente al valico di Tarvisio o appena scese da un barcone a Brindisi o Lampedusa.

In strada, intanto, la tratta procede come prima e la sparti-
zione etnica dei viali è rigidissima. Le nazionalità che la fanno da
padroni sui marciapiedi sono tre: albanesi, rumeni e nigeriani. Negli
ultimi anni il peso delle diverse etnie si è modificato: le romene, che rappresentavano il 40 per cento del totale, sono scese a meno del
20, le albanesi e le nigeriane sono oggi entrambe intorno al 35. Ma è
cresciuto per tutti in termini numerici: in soldoni chi controlla le rotte
dei migranti, da Est o dall’Africa, controlla anche il business del sesso
a pagamento, decidendone modalità e tariffe. A Roma, nonostante
qualche differenza nelle nazionalità (le sudamericane coprono una
quota importante dell’offerta) la dinamica sembra essere la stessa: sono più di duemila le prostitute che ogni notte affollano la Salaria,
 l’Aurelia (fino al raccordo anulare) e la Cristoforo Colombo dove le
lucciole occupano tutte le fermate degli autobus e le piazzole dei
benzinai da Caracalla all’Eur in entrambe le direzioni. Come in via
del Lido di Castel Porziano: decine di passeggiatrici sulla strada «
che attraversa la pineta collegando la Colombo alla Litoranea e che
confina con la riserva del presidente della Repubblica e un record,
nell’ultimo tratto, di una ragazza ogni venti metri.
Anche le tariffe sono più o meno le stesse. La crisi calmiera i prezzi e costringe a ritmi folli chi sta inchiodato alla catena di montaggio, mentre il margine di profitto dei protettori, che trattengono per sé quasi tutti i soldi e girano alle ragazze solo il necessario per cibo e vestiti, continua a salire. Nelle periferie delle grandi città le prostitute di colore si concedono per 40 euro, ma un rapporto orale consumato direttamente in macchina ne vale al massimo 20. Con le albanesi si va da 30/50 a 100, l’offerta rumena si piazza più o meno a metà strada. Nella migliore delle ipotesi ti toccano dieci clienti a sera e le botte per aver guadagnato troppo poco, nella peggiore i clienti sono il quadruplo e chi grazie al tuo corpo guadagna fino a 20 mila euro al mese esentasse forse ti omaggerà di un turno di riposo, o di qualche banconota da spedire alla famiglia convinta, come moltissime altre, dell’esistenza di una domanda illimitate di colf e bariste nel nostro Paese.
Sono le tre e sulla Vigevanese il turno sta per terminare. I fondoschiena da modelle di Sara e delle sue compagne si muovono ancora provocanti sulla strada, ma gli sguardi delle
loro proprietarie urlano altro. Gridano che quei corpi di
adolescenti strizzate negli shorts sono già stati violentati in tutti i modi possibili, che i tacchi stratosferici non bastano a guardare dall’alto l’orrore e lo schifo, che ogni notte passata così è una tacca in più inchiodata sull’anima. L’aria di casa, ora, sembra lontanissima.