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 2016  agosto 26 Venerdì calendario

L’INFERNO FISCALE DEL NOSTRO SCONTENTO


[vedi appunti]

Inutile citofonare, non risponderà nessuno. Del resto, sulla targhetta bianca non c’è scritto niente, dunque quella scatoletta con pulsante che sta affianco alla vetrata con lo stemma Equitalia di per sé è inutile. Senonché, tutti si avvicinano, guardano, trovano e si rilassano. Perché sopra la scatoletta del citofono, quasi invisibile ai più ma evidentissima per magia del passaparola o della consuetudine, c’è una manciata di bigliettini, tenuti insieme da un’attache e con sopra scritti i numeri che serviranno per l’ingresso nella vetrata, quando aprirà. Una mano pietosa e ignota li ha preparati, graffettati, messi ordinatamente sul citofono. «Quaranta, basteranno?». Alle 7 e 15 manca un’ora all’apertura dei vetri blindati e siamo già al 22. Alle 7 e 40 il blocchetto finisce, ma la gente continua ad arrivare – anche se è pieno agosto, il cielo è azzurrissimo e la via Aurelia sarebbe meglio imboccarla per andare al mare invece che a regolare i conti con la Riscossione. Una signora fruga nella borsa, trova una metà bianca residua di un bollettino, la divide in otto, numera, rimette la graffetta e spera che bastino.
Non sarà così, ma per fortuna soccorre uno studente ordinatissimo a far proseguire con i suoi fogli A4 la coda autogestita. Fino alle 8 e 15, quando lo Stato che dovrà incassare si materializza aprendo la porta, e chiamando i numeri: uno, due, tre, quattro... Il primo blocco, fino al 25, entra dentro e comincia a fare un’altra coda, per prendere altri numeri, stavolta ufficiali: chi va a pagare, chi va a chiedere di rateizzare il suo debito, chi cerca di capire perché ha ricevuto quella cartella, eccetera.
La scena si ripete tutti i giorni, e questa limpida mattina d’estate è di quelle miti, un po’ sospese: non tra la città e il mare, ma tra la tregua ferragostana di Equitalia (niente cartelle nuove per due settimane) e il controesodo dei primi di settembre, quando arriveranno in massa i contribuenti morosi riammessi alla possibilità di rateizzare il debito – sono 90.000, che hanno passato le ferie compulsando la Gazzetta ufficiale per la pubblicazione del decreto che li ripesca. E allora i numeretti della pre-coda autogestita diventeranno cruciali, per essere sicuri di essere ammessi in giornata al paradiso, cioè allo sportello: in caso contrario, levataccia inutile, giornata persa e la mattina dopo si ricomincia. Succede così in molti avamposti Equitalia, in un altro ufficio romano in viale Togliatti i numeretti autoprodotti li mettono sotto una pietra dall’alba. Mezzi più efficienti non ne hanno trovati ancora – anche se la metà di quelli in fila qui sull’Aurelia guardano lo smartphone mentre aspettano e forse sarebbero in grado di gestirsi una prenotazione telematica, un ’app, un sms.
Succede così, in coda all’ultimo anello del fisco italiano. Se la geografia dei paradisi dell’1% più ricco, anche dopo i leaks dei Panama papers, ha coordinate certe (il minimo delle aliquote, il massimo del segreto), per tracciare quella degli inferni del restante 99% servono indicatori diversi: la pressione fiscale, certo; ma anche quel che se ne riceve in cambio; e l’efficienza dell’uno e dell’altro flusso. Pagina99 ha provato a tracciare qualche mappa.
All’indomani dell’esplosione dello scandalo dai Panama Papers, Matt Collin, ricercatore del Center for Global Development, ha chiesto e ottenuto dal Consorzio internazionale dei giornalisti investigativi che ha rivelato i documenti la massa dei dati in essi contenuti, per tracciare la mappa dei Paesi maggiormente collegati allo studio Fonseca e alla sua attività di intermediario di rifugi segretissimi. Ne viene fuori che tra inferni e paradisi fiscali non c’è una correlazione evidente. Infatti i Paesi più rappresentati nelle stanze Fonseca non sono quelli con pressione fiscale maggiore: primeggiano Stai Uniti e Gran Bretagna (il cui fisco preme per il 26 e 33% sul Pil), mentre sono quasi inesistenti Danimarca e Svezia, in vetta al mondo invece per pressione fiscale.
Uscendo dalla prima impressione, e pesando i numeri per tener conto di popolazione, Pil pro capite e altre variabili, Collin individua due o tre indicatori dei vari sistemi che “spingono” di più verso le fughe in paradiso: la trasparenza nelle regole finanziarie; il tasso di criminalità e corruzione; la disuguaglianza. Si tratta solo di uno studio, e su un caso specifico. Ma pare smentire l’idea che i paradisi fiscali siano frequentati da gente in fuga dagli speculari inferni tributari. Che però ci sono, e a loro volta sono influenzati, proprio come i paradisi, da regole opache, legalità carente, diseguaglianza. Per scendere nei vari gironi, conviene partire dal dato più semplice, quello della pressione fiscale. Ma non fermarsi lì.


Indice infernale
Minima in Messico, massima in Danimarca. I due estremi della pressione fiscale nei Paesi dell’Ocse vanno dal 19,5 al 50,9% (nel 2014). E ci dicono che il rapporto tra il gettito fiscale complessivo e il Pil non è tutto – altrimenti assisteremmo a un esodo migratorio di danesi verso Città del Messico. L’Italia si colloca nella parte alta della classifica, assai vicina agli scandinavi e alla Francia, e quasi dieci punti sopra la media Ocse che è sul 34,4%. Le cose cambiano se si va a guardare una parte specifica del prelievo, ossia tutto ciò che grava sul solo lavoro, tra tasse e contributi. Qui gli scandinavi retrocedono nettamente (soprattutto nel caso di famiglie con figli), mentre l’Italia si trova al quinto posto dopo Belgio, Austria, Germania e Ungheria nella classifica del cuneo fiscale dei single, e al secondo (dopo il solo Belgio) in quella del peso di tasse e contributi su una famiglia con due figli e un solo reddito da lavoro. Lo certificano i confronti fatti, sempre dall’Ocse, nel suo Taxing Wages 2016.
Ma anche così siamo lontani dalle code mattutine del nostro ufficio di Equitalia, e dalla ordinaria quotidianità fiscale. Per avvicinarci di più, dovremmo avere quegli strumenti con i quali i meteorologi ci dicono del calore percepito, al di là dei gradi celsius. E la pressione fiscale percepita ha a che fare anche con il funzionamento della pubblica amministrazione, con l’efficienza governativa. Per questo, pagina99 ha fatto un piccolo – e arbitrario – esperimento, mettendo insieme la classifica della pressione fiscale con quella dell’efficienza governativa. Sono due misure diverse: la prima è certificata dall’Ocse, la seconda da un centro di ricerca privato come il World Economic Forum – quello di Davos, che stila annualmente un Rapporto sulla Competitività, dentro il quale inserisce anche un indicatore dell’efficienza pubblica. Si può immaginare che man mano che cresce l’inefficienza dello Stato, sale la pressione fiscale “percepita”, anche a parità di prelievo. Nel grafico in questa pagina, per ogni Paese è mostrata sia la pressione fiscale (dati 2013) che l’indice di efficienza governativa, così come misurato dal Wef. L’Italia, che è tra i Paesi a pressione fiscale maggiore, è ultima nel ranking dell’efficienza. I Paesi scandinavi invece combinano alta pressione fiscale con il massimo dell’efficienza governativa, svettano in tutte e due. Il primato italiano fa sì che il nostro paese possa essere preso come benchmark per costruire un indicatore della pressione fiscale “pesata” per tener conto dell’efficienza. Chiamiamolo “indice di onere fiscale”: nel quale il peso del fisco viene alleviato, o aggravato, dall’efficienza o dall’inefficienza della macchina amministrativa. Cioè qualcosa che si avvicina molto alla pressione percepita, o al grado di sopportabilità del girone dell’inferno fiscale nel quale ci troviamo. In questa classifica della pressione fiscale “corretta”, l’Italia balza al primo posto, oltre quota 43. I grandi tassatori scandinavi sono messi molto meglio, tra il 18 e il 26. Vicini alla Francia e alla Germania (25), che comunque restano ben sopra i Paesi anglosassoni, visto che Stati Uniti e Regno Unito sono a quota 13-14, essendo la loro bassa pressione fiscale accompagnata da un ranking di efficienza governativa decente.
La mappa dei Paesi nei quali il fisco pesa di più coincide, ma fino a un certo punto, con quelli a maggior spesa sociale: e anche l’efficacia e la distribuzione di questa hanno a che fare con la percezione di inferni o paradisi fiscali. Francia, Finlandia, Belgio, Danimarca, Italia sono i Paesi che si trovano in testa per la spesa sociale pubblica, oltre che per le entrate, mentre Stati Uniti e Regno Unito sono sotto la media Ocse. Il discorso cambia però se, come ha fatto l’Ocse, si calcola la spesa sociale netta, cioè si contabilizzano anche le tax expenditure. E la classifica cambia ancora se si mette nel conto la spesa privata per gli stessi trattamenti (in primis pensioni e sanità) che devono sostenere i cittadini: in questo caso, per esempio, il “peso” sul lavoratore Usa sale, anche se resta comunque lontano rispetto a quello degli europei – come nota l’economista Ruggero Paladini nel volume Il sistema imperfetto, a cura di Pierluigi Ciocca e Ignazio Musu (Luiss University Press).

Dove è più facile
Prendiamo una società di medie dimensioni, e calcoliamo tutti i suoi obblighi fiscali: imposte sui profitti, sul lavoro, contributi, tasse indirette e tutti i micropagamenti. Calcoliamo poi quanto tutto ciò pesa sui profitti commerciali; e quanto tempo ci vuole per sostenere questo lavoro, e quanti diversi pagamenti. Questo gigantesco lavoro, fatto su 189 economie da Pwc e The World Bank Group, registra un tasso medio globale del carico sulle imprese del 40,8% (in rapporto ai profitti). Sempre nella media mondiale, si impiegano 261 ore all’anno per compilare moduli e pagare tasse, per 25,6 singoli pagamenti all’anno.
Nella classifica di Paying Taxes 2016, il girone peggiore dell’inferno fiscale è nell’America del Sud, con un tasso del 55% e 615 ore di lavoro fiscale, mentre il “paradiso” è nei Paesi del Medio Oriente, con il minimo delle tasse e del tempo ad esse dedicato. L’Unione europea è a metà classifica per il tasso di imposizione, ma messa molto meglio sull’efficienza (ore e numero dei pagamenti). Nel grafico in pagina, riportiamo i valori peri Paesi Ocse. L’Italia supera la media mondiale e anche quella europea per il numero di ore dedicato alle tasse: 269 l’anno. Chissà se hanno calcolato anche quelle passate fuori dalle porte di Equitalia.
Roberta Carlini