Mauro Calise, Il Messaggero 1/9/2016, 1 settembre 2016
BRASILE, PARABOLA DI UN PAESE SENZA PIU’ LEADERSHIP
Quella di Dilma Rousseff è la cronaca di una fine annunciata. Ma fa lo stesso rumore. E molto. Non è solo il cartellino rosso a un presidente. È il cartellino giallo a una delle democrazie più instabili, ma anche più vitali e cruciali, nel panorama contemporaneo.
Una nazione con oltre duecento milioni di abitanti che, meno di dieci anni fa, era il simbolo della riscossa economica, dello sviluppo finalmente possibile. Del terzo mondo che era diventato, in un battibaleno, secondo e stava per entrare nel club ristrettissimo dei primi. Oggi, il miracolo brasiliano appare un miraggio. Una illusione. E un paese grande come un continente si riscopre in balia di forze che non riesce a controllare. Privo di un governo eletto, privo di una leadership autorevole. Politicamente nudo.
Cosa realmente sia successo, se l’impeachment abbia il fondamento che il Senato, ieri, ha sancito decapitando definitivamente la Rousseff, non lo sapremo mai. Per la presidente si è trattato di un golpe parlamentare, un cambio di cavallo e di maggioranza orchestrato dal maggiore partito alleato. Il cui leader non a caso si ritrova oggi a ereditare la corona presidenziale. Le accuse di malversazione finanziaria alla base della procedura di impeachment rientrano in un territorio grigio in cui le responsabilità politiche si confondono con quelle giudiziarie. E, diversamente dal precedente di Fernando Collor de Mello del 1992, non ci sono state accuse esplicite di corruzione. Ma questo, paradossalmente, aggrava sia le responsabilità della Rousseff sia le prospettive future della giovane democrazia brasiliana.
Proprio perchè si è trattato, prevalentemente, di una manovra politica, il dato che emerge con più forza è che un presidente regolarmente eletto sia stato buttato giù dal piedistallo senza che nel paese si sia levata una ondata di protesta convinta. Anzi. Il golpe parlamentare è riuscito proprio perché la popolarità della Rousseff era da tempo, ormai, al lumicino. Accusata di incompetenza e arroganza, la presidente era apparsa manifestamente inadeguata a fronteggiare la crisi economica devastante. E incapace di districarsi nel male endemico di tutte le democrazie latino-americane, la corruzione dilagante. Ancor più e peggio quando nel fango era caduto il suo nume tutelare, quel Lula cui il Brasile deve il suo recente exploit come il suo recentissimo fallimento. La nomina di Lula a ministro, per sottrarlo alle procedure di legge, era apparsa come l’atto estremo di tracotanza di un potere autoreferenziale, e ormai privo di bussola.
Ma non sarà certo il successore della Rousseff a colmare il vuoto di leadership, e di legittimità. Temer porta in dote indiscusse qualità di mediatore. Che certo gli sono risultate molto utili per tessere il ribaltone che, da vice della presidente, lo ha proiettato al Palacio do Planalto a Brasilia. Ma che a poco sembrano servirgli per riguadagnare credibilità presso un elettorato sempre più sfiduciato. Precipitato anche lui rapidamente nel rating di gradimento dei sondaggi, Temer sta faticando non poco a tamponare le falle che la corruzione continua ad aprire ai vertici del governo di cui era già presidente ad interim. Nel giro di pochi mesi, si sono dimessi già diversi membri del suo esecutivo, compreso il ministro anti-corruzione, accusato di aver cercato di intralciare le indagini su Petrobras, la compagnia petrolifera al centro delle principali manovre di finanziamenti illeciti ai partiti, e ai parlamentari di ogni ordine e grado. Temer stesso è stato giudicato colpevole per avere violato i limiti dei contributi alla propria campagna elettorale, una sentenza che pesa come un macigno sulla sua candidatura alle presidenziali del 2018.
Senza contare che il suo partito, che sembrava all’inizio rimasto ai margini delle inchieste più pesanti, è ora entrato anche esso nel mirino della magistratura. La tangentopoli brasiliana è solo all’inizio. Ma c’è già una presidente silurata. E il successore non se la passa troppo bene.