Federico Cella, Style, Corriere della Sera 9/2016, 30 agosto 2016
IL CYBERPOLIZIOTTO– [Eugene Kaspersky] Ci sono almeno due Eugene Kaspersky. Il serio informatico russo, cyberwarrior alla guida di un’azienda da 550 milioni di euro di ricavi annui, che ti aspetti prima dell’intervista
IL CYBERPOLIZIOTTO– [Eugene Kaspersky] Ci sono almeno due Eugene Kaspersky. Il serio informatico russo, cyberwarrior alla guida di un’azienda da 550 milioni di euro di ricavi annui, che ti aspetti prima dell’intervista. E il milionario ridanciano, bon viveur di 51 anni e dalla battuta pronta che ti trovi davanti quando l’intervista la stai facendo. Sono le due facce di un uomo da un miliardo di dollari, capace di mettersi sulle tracce delle più pericolose insidie digitali ma anche di perdere la testa per le auto sportive, al punto di portare il marchio Kaspersky sulle Ferrari di Formula Uno, e di comprare un biglietto per lo spazio («ma ci andrò solo quando sarò sicuro che tutto funziona per il meglio»). La sicurezza del resto è la sua vita, come ceo di un’azienda e membro di diverse strutture internazionali il cui scopo è combattere per la cybersecurity. «Dal punto di vista della sicurezza, viviamo nel medioevo del digitale: l’infezione dei cybercriminali si sta diffondendo ovunque» dice. Come agiscono e come ci possono colpire? «I criminali informatici tradizionali pescano le vittime a caso tra gli utenti della rete: chiunque può venire colpito. Si tratta di attacchi a basso costo, scatenati su larga scala da singole persone o piccoli gruppi che sfruttano cosiddette learning machine (computer con software in grado di apprendere) per migliorare il grado delle esche e dei malware. Questo tipo di crimine rappresenta il 99 per cento del cyber-crime, proprio perché costa pochissimo e può dare alti ricavi. Colpire le aziende con furti professionali o attacchi cosiddetti sponsorizzati da altri è molto costoso, perché spendono sempre di più per difendersi. Per gli utenti si tratta invece di pagare una media di 20 euro all’anno per proteggere i device, dal pc allo smartphone: soldi ben spesi». Quali accorgimenti possiamo adottare per difendere la nostra privacy e le carte di credito? «Più servizi abbiamo, minore è la privacy su cui possiamo contare. Con il dilagare della vita digitale, con il numero crescente di oggetti “smart” che usiamo, siamo sempre più esposti. Bisogna tenere la mente accesa quando si usa la rete, è fondamentale non credere a tutto e tutti, non cliccare mai sui link se non si sa da dove vengono. Non aprite gli allegati se arrivano da sconosciuti, siate prudenti anche se sono persone conosciute a scrivervi o mandarvi link sui social. Se per qualche motivo il contatto è inaspettato, fate una cosa vecchio stile: telefonate prima per verificare». L’Italia è un Paese a rischio o le nostre aziende e istituzioni sono ben difese? «Non conosco il premier Matteo Renzi né le persone che seguono la sicurezza informatica per il vostro governo. È una mia pecca a cui cercherò di rimediare nel mio prossimo viaggio. Ho conosciuto però diverse realtà industriali in Italia e sono stato spesso nel Nordest dove ho trovato grande consapevolezza, grande attenzione contro le minacce della rete. Posso affermare che, sia a livello industriale sia come infrastrutture, l’Italia non è un Paese che corre rischi». Si parla spesso di cyberguerra e cyberterrorismo: davvero si sta combattendo? E come? «Se rimaniamo alla definizione di guerra come scontro tra Paesi, non c’è alcuna cyberwar in corso nel cyberspazio. E spero che non la vedremo mai, perché è troppo pericolosa: le armi digitali sono pericolose quanto e più di quelle di distruzione di massa. Chi le ha sa bene che, se venissero usate, ci sarebbe un rischio di contrattacco devastante per tutti. Il blocco totale dei servizi e dei commerci tra nazioni ad esempio. Se invece non parliamo di distruzione delle informazioni ma di furto o manipolazione, quindi di cyberspionaggio o cyberterrorismo, allora sì, queste guerre online esistono. L’attacco che ha portato al blackout in Ucraina era un atto di cyberterrorismo: dietro non c’era una nazione, la Russia come si è detto, ma fazioni interne. Gli attacchi agli ospedali e alle infrastrutture sono una nuova forma di lotta che dobbiamo respingere con tutte le nostre forze, perché possono mettere una nazione in ginocchio colpendo le fasce più deboli». I governi ci spiano? Che ne pensa del Datagate e della più recente querelle tra Apple e l’Fbi? «(Ride, nda). Non posso rispondere direttamente alla domanda, ma le dirò che quello che ha rivelato Edward Snowden sulla divulgazione dei dati dei cittadini americani non era assolutamente nuovo per noi: lo sapevamo da anni. Per questo motivo ho una posizione molto netta anche sul caso Apple-Fbi. Finché il governo americano si è limitato alla richiesta di rendere note informazioni contenute all’intemo di un device, tutto si è svolto in modo corretto, e anche Apple si è comportata come ogni altra azienda dovrebbe fare per dovere verso il governo che la ospita. Tutto è cambiato quando l’Fbi ha chiesto a Cupertino un tool per accedere a qualunque device. Lo Stato americano è passato dalla parte del torto, perché uno strumento come quello sarebbe troppo pericoloso: potrebbe essere copiato, duplicato e utilizzato per finalità diverse, anche con scopi criminali. Inoltre, se Apple avesse soddisfatto questa richiesta, per loro avrebbe significato “end of business”. E sarebbe stato il giorno migliore per Samsung, questo è sicuro...». Ho letto da qualche parte che, secondo alcuni, lei è una spia del governo russo: è vero? «(Un attimo di silenzio e poi ride, nda). Io coinvolto con il governo russo? Sì, certo. E siccome ora sto partendo per Copenaghen per incontrarmi con il premier, domani potrà scrivere che sono coinvolto anche con quello danese. Noi collaboriamo con molte agenzie governative in tutto il mondo, con l’Fbi, l’Interpol e sì, anche con la polizia russa. Lavoriamo contro il cybercrimine e aiutiamo tutte le nazioni del mondo in questa lotta. È la battaglia dei nostri tempi. E in futuro sarà ancora più dura».