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 2016  agosto 27 Sabato calendario

SÌ, SONO MATURO (PER TOKYO 2020)– [Giovanni Pellielo] “La felicità di un individuo non significa la tristezza dell’altro”

SÌ, SONO MATURO (PER TOKYO 2020)– [Giovanni Pellielo] “La felicità di un individuo non significa la tristezza dell’altro”. Giovanni Pellielo leggeva questa e altre frasi dal libro di Paulo Coelho Come un fiume che scorre prima di entrare nel campo di tiro del Deodoro, a Rio de Janeiro. Non immaginava che la faccia dell’altro – l’uomo felice – sarebbe stata quella di Josip Glasnovic, 33enne di Zagabria, dall’8 agosto campione olimpico della fossa olimpica. Una piccola maledizione per Johnny, mai vestito d’oro ai Giochi. Un veterano che in Brasile si è comunque messo al collo una medaglia con tre incisioni: la quarta alle Olimpiadi, la terza d’argento e infine la più “esperta” dello sport italiano a livello individuale: 46 anni, 6 mesi e 29 giorni. Dica la verità: quel piattello mancato al golden shoot lo sogna di notte? «No, sono felice di quello che ho avuto. Con le vecchie regole che sommavano i punteggi delle qualificazioni a quelli della finale avrei vinto, oggi invece si azzera tutto. L’unico rimpianto che ho portato con me, semmai, è quello di non aver visitato La Rocinha (la favela più grande di Rio, ndr)». Il tiro a volo è stato la miniera delle medaglie azzurre: due ori e un argento nello skeet, un altro argento dal doublé trap. Bacosi e Cainero tra le donne, Rossetti e Innocenti tra gli uomini. «Magnifici, come i tecnici e i dirigenti della federazione, anche loro vincono le medaglie». È alla settima partecipazione olimpica, a un passo dal record di Piero e Raimondo D’Inzeo e di Josefa Idem (che ne disputò due per la Germania Ovest). Scelga un ricordo per ogni edizione. «Di Barcellona 1992 lo shock dell’inno di Mameli. Erano solo delle prove durante l’allenamento, ma fu una scarica d’emozione. Atlanta 1996: 120 bersagli su 125 senza conquistare la finale. Sydney 2000: quell’ultimo piattello che volava via, colpito di seconda canna in extremis per conquistare il bronzo. Atene 2004: il sogno premonitore prima della partenza, ero sul podio e stringevo l’argento, e andò proprio così. Pechino 2008: pensavo al 3 in quei giorni, il numero perfetto, quello della medaglia che sarebbe effettivamente arrivata. Londra 2012: ero in forma, ma mentalmente diverse cose non funzionavano, mio padre non stava bene e ne soffrivo. E infine Rio: salire il monte Calvario con coraggio e sofferenza». Che cosa si è regalato una volta tornato a casa? «Un giro d’Italia con due amici, in auto. Partenza da Vercelli, tappe a Napoli, Roma e in Sardegna. Nient’altro. Dopo un’esperienza così ho solo bisogno di condividere: la felicità non è nulla se non hai nessuno a casa che ti accoglie. Stare con gli altri arricchisce, rende l’uomo più grande». Lei quanti colpi spara in un anno? «Circa 60 mila, tutti sul campo di tiro. Vado a caccia solo per accompagnare mia madre Santina, che ha 78 anni e mi ha fatto iniziare quando ne avevo 18. Spara solo lei, io ne approfitto per fare una passeggiata con i nostri quattro cani: Totò, Rex, Alex e Dolly». Subito dopo la premiazione ha detto che il tiro è raccoglimento, eppure basta assistere a una gara per essere sommersi dal rumore dei colpi. «La percezione è diversa, sparando ascolti il tuo respiro. Sei protetto dai tappi e impari a “sentire” la tua anima per 7-8 ore al giorno. Tutti i giorni. Un esercizio per l’anima. Il rumore del colpo è insignificante». Conquistata la finale, si è girato e ha tirato fuori la lingua, nemmeno fosse Michael Jordan o Alessandro Del Piero... «Sì, l’ho presa da Alex, era un gesto affettuoso e liberatorio. Trovo che sia una persona straordinaria anche nel modo di stemperare la tensione, mi piace la sua compostezza, il suo equilibrio. Che rivedo anche in Campriani». A proposito, dopo il primo dei due ori di Rio de Janeiro, Niccolò ha dichiarato: “Il nostro sport è una tortura”. Lei come fa ad allontanare la tensione? «Leggo, specialmente prima di allenarmi. A Rio ho portato con me Come il fiume che scorre di Paulo Coelho. Mi ha aiutato a riflettere sul valore del viaggio e su quello di conoscere se stessi, sull’essenza del bene e sulla tenacia». Si sente come il Guerriero della Luce descritto da Coelho quando deve affrontare una finale? «Sì, devi avere coraggio e fiducia. Puoi sbagliare il colpo solo se non sei codardo e se non ascolti chi dice che sei vecchio. È più semplice scappare. Se vuoi arrivare devi osare, non puoi farti dominare dalla paura. Sento di avere una missione, portare testimonianza alla verità attraverso gli strumenti e il talento. Credo in Dio, e cerco di seguire la sua parola anche nello sport». Imbracciare un fucile però può sembrare un’immagine lontana dal messaggio evangelico. «Chiunque può imbracciare un’arma e commettere dei crimini. Nel tiro a volo, al contrario, ci sono solo persone perbene: per sparare devi avere un porto d’armi, determinati requisiti e dimostrare di essere uno onesto. Non puoi comprare un fucile al bancone come avviene in altri Paesi. I giovani che si avvicinano al tiro li riconosci subito». Di tiro a volo si parla solo ogni quattro anni, le dà fastidio? «Per niente. Aiuta a tenere i piedi per terra. La notorietà può portarti troppo in alto, rischiando di farti vedere gli altri uomini piccoli. Io sono così come mi si vede». La notorietà consente anche di fare nuovi incontri, quali sono stati i più importanti? «Quello con il commissario tecnico Albano Pera, che mi è sempre stato vicino. Però l’incontro che ho nel cuore è quello con Giovanni Paolo II. Ero inginocchiato davanti a lui, mi alzai e lui mi disse “Vai avanti”. Ricordo ancora la sua voce». Tokyo 2020 è già nei suoi pensieri? «Vorrei arrivarci ma devo meritarmelo, poi dicono che lo sport allunghi la vita, quindi perché fermarsi?».