Paolo Marabini, SportWeek 27/8/2016, 27 agosto 2016
MERITO LA MEDAGLIA DELLA FATICA– [Elia Viviani] L’oro della fatica. L’oro del riscatto. L’oro della volontà
MERITO LA MEDAGLIA DELLA FATICA– [Elia Viviani] L’oro della fatica. L’oro del riscatto. L’oro della volontà. L’oro più forte delle delusioni, delle occasioni mancate, dell’ossessione, sempre disattesa, di vincere qualcosa di pesante, manco ci fosse dietro una maledizione. L’oro del lavoro duro, in silenzio, lontano dai riflettori, nulla lasciato al caso. Un oro lungo quattro anni; dalle lacrime amarissime di Londra a quelle cariche di gioia di Rio. Un oro lungo due giornate da protagonista: lui che parte così così, ma si riprende subito, va in testa e poi resiste. Un oro lungo un’ora interminabile e carico di emozioni e suspense come pochi altri: la corsa a punti finale, la caduta, la paura, poi la rabbia, la reazione, i rivali vicinissimi ma sempre dietro, sino alla volata della vita che chiude i conti. Lunedì 15 agosto, Elia Viviani sale sul trono dell’omnium olimpico, 16 anni dopo l’ultimo trionfo della pista azzurra ai Giochi. La verità, Elia: ci ha sempre creduto? «Sì. Non vorrei passare per sbruffone, e qualcuno lo ha pure pensato in questi anni, ma io ci credevo, con tutto me stesso. Se ho sempre detto che volevo l’oro olimpico, era perché ero realmente consapevole di potercela fare, ero convinto che quel traguardo fosse alla mia portata. E ho dato tutto per arrivarci. Non mi sentirete mai fare proclami per obiettivi che non posso raggiungere». Come ha costruito questa vittoria? «Dopo la delusione dell’ultimo Mondiale, a Londra, mi sono detto che l’oro sarebbe stato mio soltanto a patto di essere il più forte di tutti, soprattutto di testa. Non dovevo pensare agli altri, ma solo a me stesso. Ed è successo questo: in quelle due giornate sono stato il più forte. Non avevo mai raggiunto uno stato fisico e mentale del genere. Sono salito in pista con una grande condizione e con una grande convinzione. Ero teso, sì, ma al primo colpo di pedale tutto svaniva, vedevo solo i listelli del parquet davanti a me, nient’altro attorno. Avevo il totale controllo della situazione. Mai provata prima una sensazione del genere». Quando è scattata la molla? «All’indomani del ritiro all’ultimo Giro d’Italia, dopo sole otto tappe. Ero affranto, non mi andava giù di essere uscito in quel modo. Mi sono detto: “Ok Elia, hai sacrificato tanto, stai sacrificando tanto, compresa l’attività su strada, e forse anche un contratto in scadenza. Accettare tutto questo è difficile. L’unico modo per dargli un senso è vincere l’oro”. Ecco, in quei due giorni dovevo sistemare i conti con la mia carriera. Era la mia grande chance, non potevo farmela scappare. Non questa volta». Sei prove in due giorni, sostanzialmente diverse fra loro: l’omnium sta al ciclismo come il decathlon all’atletica. Come si trova l’equilibrio? «Come dice sempre Marco (il c.t. Villa; ndr), l’omnium è come una coperta: se la tiri troppo da una parte, ti scopri dall’altra. Bisogna essere bravi a sistemare ogni specialità senza che ciò vada troppo a scapito delle altre. Io a Londra, quattro anni fa, non avevo ancora trovato l’equilibrio. Non tanto in gara, semmai soprattutto in fase di preparazione. Se penso che allora il mio tallone d’Achille era la prova del chilometro e stavolta invece è stata uno dei miei punti di forza...». Come ha fatto a mettere a punto tutto? «Ho lavorato tanto e bene, semplicemente. Per vincere l’oro olimpico bisogna fare fatica, non c’è alternativa. Anche tripla seduta giornaliera: pista, palestra, pista. Partenze da fermo a ripetizione per limare il gap rispetto agli altri: tre decimi fanno tantissimo nell’economia della classifica finale. E poi studio meticoloso dei materiali, prove nella galleria del vento, modifiche dell’assetto in bici per essere più aerodinamico. Quanti lavori in altura. E quando non era possibile, la notte a dormire in quota e il giorno dopo a lavorare in pista: tre-quattro ore avanti e indietro. Ci ho investito tanto, sì». I momenti difficili nell’ultimo quadriennio non sono stati pochi: sconfitte brucianti, medaglie sfumate per poco. Si sentiva in credito con la fortuna? «Quando ho smesso di pensarci, c’è stata la svolta. Ho vissuto finali orribili: l’Olimpiade precedente, il Mondiale di Parigi e soprattutto l’ultimo. Ma io dovevo essere più forte del ricordo delle sconfitte e delle beffe, il nodo da superare era quello. Oggi posso dire che ognuna di quelle batoste è stata come un allenamento, decisiva per vivere questo magnifico momento. Perché da ognuna di quelle delusioni ho tratto tantissimi insegnamenti. Passare da quelle crepe poteva abbattermi o fortificarmi». Lei si sente un predestinato? Quando la parola Olimpiade è entrata nella sua vita per la prima volta? «Forse sì. E c’è stato un momento preciso in cui ho preso coscienza della magia di questa parola. A Lignano Sabbiadoro, avevo 16 anni, e debuttai con la maglia azzurra alle Giornate Olimpiche della Gioventù Europea. Al di là della vittoria – e io vinsi due medaglie d’oro, su strada e nella corsa a punti in pista – c’era il fascino della manifestazione, che era proprio un’Olimpiade in miniatura: il villaggio, le divise ufficiali del Coni, le premiazioni con l’inno e l’alloro in testa. Da quel giorno ho cominciato a pensare ai Giochi veri». Vincere l’oro olimpico per un atleta è il massimo. Come si riparte, con quali motivazioni si guarda ai traguardi successivi? «Mettendoselo subito alle spalle. Ce ne sono così tanti di obiettivi da inseguire. Il primo in ordine di tempo è il Mondiale su strada (il 16 ottobre in Qatar; ndr) che è alla mia portata. E l’Italia ha la squadra più forte per pilotarmi sino agli ultimi 200 metri. Poi ci sono le altre corse su strada che ho sempre sognato. La Sanremo, per esempio. E il Giro delle Fiandre, che resta la più bella, la più importante, ma per me anche la più difficile. E poi le tappe al Giro e al Tour». Se le dicessero che oggi deve smettere di correre? «Sarei ugualmente felice».